Il lavoro intramurario

    

Studi sul lavoro inframurario

di Carlo Alberto Romano (Ass. "Carcere e territorio" di Brescia)

 

Chi scrive ebbe già modo di esprimere un proprio giudizio sul tema del lavoro inframurario; sostengo infatti che: "L’Amministrazione Penitenziaria è in grave difetto, perché non soddisfa il dovere di fornire lavoro; a tale dovere corrisponde un diritto del condannato ad ottenere quel " trattamento rieducativo "che è incentrato proprio sul lavoro".(1)

Prima di addentrarmi nella disamina del problema, vorrei però, seppur sommariamente, illustrare alcune considerazioni sulle origini del lavoro carcerario all’estero e in Italia, alla ricerca, come suggerisce Tranchina, di quei "passaggi logici attraverso i quali il lavoro penitenziario, nato in funzione strettamente punitiva, possa, dopo secoli, divenire – o almeno si cerchi di farlo divenire" "dinamismo, distrazione, soddisfazione". (2)

La risposta più facile, per Tranchina, consiste in un parallelismo fra l’idea del lavoro penitenziario e quella della pena, la quale pure, da mezzo di espiazione e castigo, è divenuta mezzo di recupero sociale, anche se l’Autore tiene a precisare che la pena, nella sua essenza, non può non assolvere alla funzione dell’espiazione e del castigo. Aggiunge che sarà proprio con il modo di esecuzione della pena stessa che si dovrà evitare di far sì che essa non divenga un castigo maggiore di quello che comporta la

privazione di libertà.

Premetto che, se per lungo tempo la normativa penitenziaria non operò una specifica distinzione fra lavoro inframurario ed extramurario, essa può essere fatta, invece, all’interno della definizione di lavoro carcerario, la quale , per Vitali, è una definizione "intuitiva, dal momento che il termine serve ad indicare ogni tipo di attività lavorativa svolta da detenuti all’interno dell’istituzione carceraria: la particolarità del luogo in cui si svolge è l’elemento qualificante". (3) All’interno di questa categoria, Vitali opera la distinzione fondamentale fra lavoro alle dipendenze della stessa amministrazione e lavoro alle dipendenze di terzi. Nel primo caso fa rientrare i cosiddetti lavori domestici, cioè quei lavori che servono "a far funzionare la macchina carceraria", come lo scopino, l’addetto alla manutenzione, il cuoco……

Nel secondo caso parla , invece, di "lavorazioni, ponendo l’accento sul carattere produttivo di tali attività, contrapposto al carattere domestico e, per definizione, improduttivo del primo".(4) Vitali ritiene obbligatoria la distinzione, in quanto, soprattutto a seguito delle più recenti riforme legislative, riconosce che è più facile, nel caso di lavoro alle dipendenze di terzi, nella individuazione dei diritti del lavoratore detenuto, "giungere alla conclusione che tali diritti sono gli stessi che ineriscono al rapporto di lavoro di ogni soggetto, salvo le necessarie limitazioni derivanti dalle esigenze di un regime detentivo…….mentre nel caso dei lavori domestici alle dipendenze dirette dell’Amministrazione penitenziaria, tale conclusione non è affatto scontata".(5)

Le prime considerazioni sulle origini di attività lavorative in carcere riguardano i Paesi in cui il lavoro carcerario ha avuto origine: Inghilterra e Olanda.

In Inghilterra, nel XV e XVI secolo, la risposta delle autorità politiche alla grave realtà del brigantaggio e del vagabondaggio fu quella di " internare vagabondi, oziosi , autori di piccoli reati e riformarli attraverso il lavoro obbligatorio e la disciplina. Il lavoro obbligatorio era l’elemento centrale della casa di correzione". (6)

In proposito, Melossi e Pavarini affermano che "le case di correzione dovevano servire sia per fornire lavoro ai disoccupati, sia per costringere al lavoro chi vi si rifiutava". (7) Fanno presente che la "popolazione  di tale istituzione era estremamente composita: comprendeva i figli dei poveri perché fossero educati al lavoro, i disoccupati, i vagabondi, i ladruncoli….. L’unica differenza di trattamento - "se pur v’era" - consisteva nella diversità di gradazione della pesantezza del lavoro. Circa i "ribelli al lavoro", gli Autori fanno presente che il rifiuto del lavoro sembrava essere "l’unico atto cui si attribuiva una vera e propria intenzione criminale" (8) a tal punto che, con un successivo atto del 1601, il giudice aveva la facoltà di inviare gli oziosi abili al carcere del Comune. Melossi e Pavarini, dato che il lavoratore, allora, era obbligato ad accettare la prima offerta di lavoro, qualsiasi fosse, senza discuterne assolutamente le condizioni con il datore di lavoro, interpretano il lavoro obbligato nelle case di correzione come un mezzo per "piegare la resistenza della forza-lavoro, per far accettare condizioni che permettessero il massimo grado di estrazione del plusvalore".(9)

Diversa origine ebbero le case-lavoro in Olanda, dove un fattore dominante fu la mancanza di offerta - lavoro sul mercato ed il lavoro forzato veniva così ad assumere un ruolo importante, svolgeva cioè " una funzione calmieratrice sull’andamento dei costi di mercato del lavoro". (10)

Casciato non tralascia, comunque, un cenno alla funzione formativa delle case-lavoro, mediante la quale i contadini furono trasformati in proletariato da impiegare nel nascente sistema capitalistico ed alla funzione di prevenzione generale in quanto " qualsiasi condizione lavorativa nel libero mercato era, comunque, migliore di quella che veniva riservata agli internati nelle istituzioni carcerarie". (11)

Altrettanto esplicitamente, Melossi e Pavarini dichiarano che la particolare pesantezza delle condizioni all’interno della casa di correzione ha "una funzione intimidatrice per cui l’operaio libero piuttosto che finire nella casa lavoro o nel carcere, preferisce accettare le condizioni impostegli di lavoro e più in generale di esistenza". (12)

Negli Stati Uniti, tra il XVIII e XIX secolo, nelle istituzioni segreganti fu scelto, invece, il sistema dell"isolamento cellulare", effettuato in due differenti sistemi penitenziari.

Il primo esperimento avvenne alla fine del XVIII secolo in Pennsylvania, a Philadelphia e si basava sull’isolamento continuo, anche diurno, sull’obbligo del silenzio, sulla meditazione e sulla preghiera. Il lavoro svolto nelle celle d’isolamento, nelle condizioni descritte, consisteva in attività che non davano risultati validi a livello economico. "Il lavoro era per se stesso un premio, in quanto rappresentava l’unica alternativa all’ozio e all’inerzia forzati". (13)

Anche Melossi e Pavarini sostengono che " il lavoro è un premio: è infatti negato o sospeso a chi non" collabora" al "processo educativo". (14) E, per meglio rendere il concetto, riportano le parole del giudice Charles Coxe, nel suo primo rapporto alla commissione legislativa, in tema di lavoro penitenziario a Cherry Hill: "Quando un prigioniero arriva è portato nella sua cella e lasciato solo, senza lavoro. Ma poche ore dopo già prega di poter fare qualche cosa…. Se il prigioniero sa fare un mestiere che può essere agevolmente svolto nella cella, gli è concesso di lavorare come premio e come stimolo alla buona condotta….Questo lavoro è considerato e valutato come una ricompensa, la cui privazione è interpretata come una punizione". (15)

Casciato fa notare che questo sistema entrò presto in crisi proprio per la necessità di introdurre nelle carceri il lavoro produttivo, data la crescita della domanda di lavoro e l’aumento del suo costo. Fu allora realizzato un esperimento nel penitenziario di Auburn, dove ci si limitava al solo isolamento notturno. In tal modo il lavoro produttivo entrò nel carcere, dato che le strutture lavorative erano simili a quelle della fabbrica.

Per quanto riguarda la situazione italiana nel periodo preunitario, l’Autrice sottolinea che è difficile ricostruire un’evoluzione dell’istituzione carceraria dal momento che non c’erano un’unità nazionale, una storia comune. Analizza, comunque, due tipologie di stabilimenti carcerari sorti nel periodo dell’Illuminismo: la "casa di correzione" e l’ "ergastolo", nei quali il lavoro dei detenuti era diversamente articolato. "Nel primo si praticavano lavorazioni produttive tipiche dell’epoca (la manifattura tessile in particolare); nel secondo, i condannati a pene molto lunghe venivano impiegati in opere di pubblica utilità". (16)

Fra le regioni italiane, l’Autrice segnala in particolare la Toscana – unica in cui attecchì il pensiero illuminista – dove un sacerdote, con la protezione di Leopoldo de’ Medici, creò un’istituzione in cui venivano ospitati giovani disoccupati e "ragazzi ribelli" di buona famiglia, per rieducarli mediante il lavoro in botteghe cittadine. Ricorda inoltre che la pena di morte fu sostituita con i lavori forzati e che gli internati erano impiegati nello svolgimento di lavori pubblici, con retribuzione.

L’Autrice assegna, però, il compito di guida nel settore penitenziario allo Stato Sabaudo, sostenendo che " sulle basi del suo ordinamento sarebbe poi nato l’ordinamento italiano". (17)

Con la pubblicazione di un nuovo codice penale nella prima metà dell’800, la riforma dell’istituzione carceraria fece divampare un acceso dibattito fra i sostenitori del sistema filadelfiano e di quello auburniano. Il secondo fu scelto fino all’entrata in scena di Cavour, che approvò poi il passaggio alla scuola di Philadelphia.

In Toscana, infine, fu introdotto il sistema dell’isolamento continuato in tutti gli stabilimenti e ciò sollevò severe critiche, cui seguì la riforma del 1860 con la quale si istituì il sistema misto: la prima parte della condanna veniva svolta in isolamento continuato, la seconda nello svolgimento del lavoro in silenzio, ma in comune. Tale normativa restò in vigore fino al codice Zanardelli.

Quest’ultima considerazione è segnalata di particolare importanza da Melossi e Pavarini, che sottolineano come il Codice Zanardelli "adotterà proprio un tale sistema per la disciplina delle pene detentive". (18)

Il primo regolamento penitenziario del Regno d’Italia, approvato dal re Vittorio Emanuele II il 13 gennaio 1862, valido per tutto il territorio nazionale (eccetto la Toscana), introdusse negli stabilimenti penitenziari il sistema auburniano, affidò al direttore del carcere il compito di destinare i detenuti alle varie attività lavorative all’interno dell’istituto carcerario in base, possibilmente, alle loro preferenze ed attitudini, stabilì ricompense per coloro che si distinguevano per buona condotta e per un lavoro altamente produttivo. Casciato fa presente, infine. che il prodotto del lavoro carcerario apparteneva allo Stato, venivano erogate gratificazioni, per le esigenze del soggetto al momento della scarcerazione. La mano d’opera dei detenuti era valutata col salario praticato dalla libera industria diminuito di un quinto e le frazioni di decimi si differenziavano in relazione al sesso dei lavoranti ed al tipo di condanna inflitta.

Circa le norme del codice penale del 1889, Tranchina (19) rileva come principio di fondo quello secondo cui le pene carcerarie si scontano con l’obbligo del lavoro e riporta, in merito, le parole dello stesso Zanardelli, per il quale il lavoro è un necessario complemento alla pena e " non fare una larga parte a quel fattore principalissimo d’ordine, di moralità e di previdenza che è il lavoro, sarebbe un’incoerenza rispetto alla disciplina carceraria ed al fine preventivo della pena".(20)

Nel codice penale del 1889, dunque, il lavoro, anche se non si configura più come vera e propria pena, ne rappresenta tuttavia una parte integrante e proprio da questa idea proviene, secondo Tranchina , l’esigenza della sua obbligatorietà con la conseguente nota dell’afflittività del lavoro, dovuta alla condizione morale e fisica di svolgere un lavoro imposto. Tranchina non tralascia di ricordare che la nota di sofferenza legata al lavoro in carcere è dovuta anche al fatto che il codice penale del 1889 vede la luce in un’epoca in cui ancora si dibatteva sull’opportunità che il lavoro carcerario fosse tanto più "pesante" quanto più grave fosse la pena.

Desume caratteri similari dalla normativa del regolamento generale degli stabilimenti carcerari, approvato nel 1891, vale a dire a due soli anni di distanza dal codice penale. In particolare Tranchina fa riferimento all’art. 278, il quale stabiliva che le commissioni dei lavori dovevano essere date, esclusivamente, alla direzione o, in mancanza, al capoguardia o al comandante. In tale impossibilità dei detenuti a ricevere, direttamente o indirettamente, commissioni di lavoro, Tranchina vede una specie di controllo dell’amministrazione penitenziaria per "graduare" la pesantezza del lavoro in base alla gravità della pena da scontare. Evidenzia che, a volte, tale graduazione era automatica: ad es. l’art. 279 stabiliva i casi in cui i carcerati non potevano essere ammessi ai lavori domestici, che erano, ovviamente, i meno faticosi. L’art. 280, invece, stabiliva che spettava d’ufficio alla direzione del carcere destinare al lavoro i condannati all’ergastolo e alla reclusione, mentre ai condannati alla detenzione e all’arresto era data la possibilità di scegliere uno dei lavori praticati nello stabilimento.

L’analisi di Tranchina prosegue con considerazioni sulla visione del lavoro penitenziario nel codice Rocco e nel regolamento del 1931 e, secondo l’Autore, nella menzionata legislazione "la concezione del lavoro carcerario come elemento sanzionatorio che si accompagna alla pena, non solo persiste ma, per certi aspetti, sembra addirittura rafforzarsi". (21)

A sostegno della sua tesi, Tranchina si riferisce anche ai commenti dell’epoca, in base ai quali veniva sostenuto che, "mentre il lavoro in tutte le sue forme doveva essere considerato un dovere sociale, il lavoro in carcere si traduceva, per virtù dello stato di detenzione, in un dovere giuridico" (22) e aggiunge che a tale dovere giuridico faceva riferimento anche il guardasigilli Rocco, puntualizzando che esso era sanzionato da gravi disposizioni disciplinari. (23)

Casciato fa presente che, dal Ministro Rocco, tale disposizione "fu giustificata con motivazioni sociali (evitare la perdita dell’attitudine al lavoro) e giuridiche (l’obbligo statuito dall’allora vigente codice di procedura penale di pagare le spese in caso di successiva sentenza di condanna)" (24), ma in realtà l’Autrice è pienamente d’accordo col pensiero di Tranchina nell’affermare che la disposizione in questione" denotò un rafforzamento del carattere afflittivo dell’istituto in esame, il quale si tradusse in vero e proprio dovere giuridico, sanzionato da disposizioni disciplinari". (25)

 

Note:

  1. Romano C.A., "Pena, rieducazione e lavoro: il punto della situazione", Impresa sociale, 54, 2000

  2. Tranchina G., "Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario" in (a cura di) Grevi V., Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Zanichelli, Bologna,1981.

  3. Vitali M., " Il lavoro penitenziario", Giuffrè, Milano, 2001.

  4. Vitali M., op.cit.

  5. Vitali M. op.cit.

  6. Casciato L., "Le origini del lavoro carcerario", http://dex1.tsd.unifi.it/altrodir/asylum/casciato/frm1.htm

  7. Melossi D., Pavarini M., "Carcere e fabbrica", Il Mulino, Bologna, 1977.

  8. Melossi D., Pavarini M., op. cit.

  9. Melossi D., Pavarini M., op. cit.

  10. Casciato L., op.cit.

  11. Casciato L., op.cit.

  12. Melossi D., Pavarini M., op. cit.

  13. Casciato L., op. cit.

  14. Melossi D., Pavarini M., op. cit.

  15. First Annual Report, 1830.

  16. Casciato L., op. cit.

  17. Casciato L., op. cit.

  18. Melossi D., Pavarini M., op. cit.

  19. Tranchina G., op. cit.

  20. Zanardelli G., "Relazione al progetto del codice penale, 22 novembre 1889"

  21. Tranchina G., op. cit.

  22. Tranchina G., op. cit.

  23. Relazione ministeriale sul regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, r.d. 18 giugno 1931, n. 787 paragrafo 3

  24. Rocco A., Relazione a S.M. il re del ministro guardasigilli, Rass. St. Penit., 1931

  25. Casciato L., op. cit.

 

 

 

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