Il lavoro penitenziario

 

Il lavoro penitenziario: quale futuro?

 

Salvatore Cirignotta

 

Già magistrato Direttore dell’ufficio centrale detenuti e trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Consulente del Ministero della giustizia nell’ambito delle problematiche penitenziarie.

 

Ai sensi degli art. 22, 23 e 25 del Codice penale tuttora vigente, il lavoro penitenziario costituisce una modalità d’esecuzione della pena detentiva, concepito per di più, per il condannato, come un "obbligo" dalla valenza non solo trattamentale, bensì anche aggiuntivamente afflittiva.
Sulla scorta di un più moderno concetto della funzione della pena ed in armonia con i principi costituzionali e con quelli proclamati nei documenti internazionali ed europei sull’esecuzione della pena, l’Ordinamento penitenziario varato negli anni 1975 e 1976 (Legge 26.07.1975, n. 354 e Regolamento di esecuzione della predetta legge, di cui al D.P.R. 29.04.1976, n. 431) ha escluso ogni connotazione afflittiva del lavoro penitenziario e lo ha considerato, prima ancora che strumento cardine per favorire il recupero sociale del condannato, espressione insopprimibile della personalità di ciascun individuo e momento qualificante della stessa dignità personale.

In tale ottica l’art. 20, della L. n. 354.1975 come modificato dall’art.5 della Legge 10.10.1986 n. 663 (c.d. Legge Gozzini), e dall’art.2 D.L. 14.06.1993 n.187 convertito nella Legge 12.08.1993, n. 296, prescrive che nell’assegnazione dei soggetti al lavoro si deve anche tener conto della professionalità acquisita, delle precedenti e documentate attività svolte, delle attività a cui essi potranno dedicarsi dopo la dimissione, e che i detenuti e gli internati che mostrino attitudini artigianali, culturali o artistiche possono essere esonerati dal lavoro ordinario ed essere ammessi ad esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche.

La nuova filosofia del lavoro penitenziario non poteva prescindere da una forte affermazione di principio quale quella contenuta nel comma 5 del citato art. 20: "l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di fare acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale". All’enfatica enunciazione segue l’individuazione di regole per il collocamento al lavoro e per l’organizzazione del lavoro intese ad omologare quanto è più possibile il lavoro penitenziario a quello libero. Unica, vera concessione alla particolarità del lavoro penitenziario e alla necessità di speciali incentivi, resta la previsione della possibilità che le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti possano essere stabilite in misura inferiore, ma non al di sotto dei due terzi, rispetto al trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro.

Paradossalmente, il sistema delineato dal legislatore del 1975, del 1986 e del 1993, incentrato sull’esaltazione della perequazione tra lavoro libero e lavoro penitenziario, e pertanto di alto valore morale, ha distolto l’attenzione sulla reale entità e sul trend del lavoro penitenziario, ed è sintomatico di ciò che l’analitica relazione che entro il 31 marzo di ogni anno l’ultimo comma dell’art. 20, più volte citato, della Legge n. 354/1975, impone sia trasmessa dal Ministro della giustizia al Parlamento, attiene allo " stato di attuazione delle disposizioni di legge relative al lavoro dei detenuti nell’anno precedente", in cui, evidentemente, è solo un elemento tra gli altri il concreto risultato del sistema avviato. Ed invero, il lavoro penitenziario è andato progressivamente languendo, e delle realtà di lavoro propagandisticamente ritratte nei documenti fotografici del ventennio e degli anni del dopoguerra, - al di là della giustizia e della validità di quel lavoro - resta il ricordo.

Il lavoro intramurario di tipo domestico, fortemente connotato da assistenzialismo, è divenuto il lavoro prevalente mentre i lavori qualificanti sono rimasti nell’ambito dei progetti di nicchia destinati ad alcune élites penitenziarie. Può ipotizzarsi che il perdurare dal dopoguerra fino ai nostri giorni nel Paese di una vasta crisi occupazionale non abbia stimolato, nella classe politica e negli ambienti culturali del settore, più incisivi provvedimenti che avrebbero potuto far decollare il lavoro penitenziario (es.: commesse obbligatorie da parte di Enti pubblici etc.), provvedimenti che però larga parte dell’opinione pubblica avrebbe potuto recepire come penalizzanti per i disoccupati non incorsi in censure penali; e tuttavia la grave situazione del lavoro penitenziario constatata negli anni ’90 non poteva non esimere il Legislatore da qualche intervento, che è stato ricercato sia sul versante degli sgravi, sia sul versante organizzativo.

Sotto quest’ultimo aspetto appaiono deludenti le novità introdotte dal Regolamento penitenziario emanato nel 2000 (D.P.R. 30.06.2000, n. 230), che ha sostituito in toto (di fatto non ne è che un maldestro rimaneggiamento) il vecchio Regolamento d’esecuzione della L. 354/1975 (D.P.R. 26.04.1976 n. 431). L’innovazione più significativa consiste nella previsione (art.47) della possibilità di un rapporto diretto di lavoro tra imprese pubbliche, private, cooperative sociali da una parte, e lavoratore dall’altra, possibilità prima ammessa – in deroga al principio generale della commessa del terzo all’amministrazione penitenziaria, datore di lavoro del detenuto – solo per il lavoro a domicilio. Tale previsione, concatenandosi a quelle della legge 22.06.2000 n. 193 (c.d. Legge Smuraglia) che introduce sgravi contributivi e fiscali per cooperative sociali e imprese che assumono detenuti e internati all’interno degli istituti penitenziari, dovrebbe costituire il volano del lavoro intramurario.

Sarà così? L’effetto benefico della legge Smuraglia è prevedibile, ma non è ancora verificabile giacché dei due regolamenti attuativi, uno è stato pubblicato solo il 09.05.2001, l’altro è ad oggi in fase di pubblicazione. Non può però pensarsi a risultati immediati e di ribaltamento della situazione esistente, e ancora lontano appare un sistema penitenziario in cui il detenuto che lavora costituisca la regola, come aveva ipotizzato il legislatore del 1975, lucido esempio di attuazione dei principi costituzionali, e come è sottinteso e presente in ogni parte testo della L. n. 354/1975 (è evidente, ad esempio, che la previsione – all’art. 6 – dei locali di pernottamento dei ristretti, distinti dai locali di soggiorno, non immagina questi destinati all’ozio, né avrebbe senso prevedere locali di pernottamento singoli, - sempre all’art. 6 - se da questi i ristretti non dovessero uscire durante il giorno come purtroppo si verifica, per una stabile situazione, di assenza di opportunità di lavoro, o formazione o studio).

A prescindere dalla problematica relativa alla convenienza per molti imprenditori di installare lavorazioni in Paesi dove il costo della manodopera è più basso, molti elementi rendono il ricorso al lavoro dei detenuti e degli internati "inappetibile" pur in presenza delle disposizioni in materia introdotte nell’anno 2000 e alle quali si è prima accennato. Negli ultimi decenni in virtù di dinamiche socio-culturali e di scelte di politica criminale su cui non è questa la sede di soffermarsi, il carcere è sempre meno carcere ed è in larga parte – come ebbe ad affermare già parecchi anni fa con acuta lungimiranza l’allora Direttore generale dell’Amministrazione penitenziaria Nicolò Amato – ospedale, lazzaretto, manicomio, ospizio per indesiderati e reietti.

Tossicodipendenti, malati di AIDS, stranieri irregolarmente presenti nel territorio dello Stato affollano le carceri attratti nella spirale criminosa il più delle volte per l’assenza di un’appropriata azione preventiva e un diverso filtro sociale. Sono categorie di persone sovente senza alcuna attitudine, esperienza o abitudine di lavoro, e che prima di poter essere avviate ad attività lavorativa che abbia continuità e standards quantitativi e qualitativi di normalità necessitano di robusta formazione professionale e di una lunga preparazione trattamentale in senso ampio. Altra cospicua parte della popolazione detenuta è costituita da appartenenti alla criminalità organizzata; costoro considerano il lavoro – specie quello manuale – come elemento totalmente estraneo alla concezione della vita e dei rapporti interpersonali cui hanno aderito, e addirittura inconciliabile con il carisma criminale. E’ inutile dire quali immensi problemi pone l’avviamento al lavoro di siffatti detenuti e quali siano i costi connessi allo svolgimento del lavoro da parte degli stessi in accettabili condizioni di sicurezza.

Le mutate caratteristiche della popolazione detenuta non sono tuttavia che uno dei tanti ostacoli al ricorso da parte dell’imprenditoria al lavoro penitenziario. Basti pensare, ad esempio, come il sistema processuale penale entrato in vigore nel 1989 abbia moltiplicato i giorni che vedono impegnato il detenuto in attività processuali, sia esso indagato o imputato, o condannato, o, peggio ancora, a posizione mista. E’ del tutto imprevedibile il numero dei giorni in cui, nell’arco di un anno, un detenuto è chiamato ad attività processuale, di regola non eseguibile o non eseguita in ambito penitenziario (udienze davanti al tribunale del riesame, incidenti probatori, attività d’indagine d’individuazione di luoghi, udienze preliminari, udienze dibattimentali, davanti al Tribunale di sorveglianza, camerali varie etc.). Sono frequenti, specialmente nei procedimenti per reati associativi e di criminalità organizzata in genere, dibattimenti con venti o trenta udienze, o anche più. E, non mancano detenuti che, essendo impegnati in più processi, in sedi diverse, vedono inutilizzabili a fini lavorativi non solo i giorni dell’attività processuale, ma anche i periodi di trasferimento temporaneo.

Basti ancora pensare agli effetti del c.d. sovraffollamento penitenziario sulla stabilità dei detenuti nelle sedi di assegnazione. La necessità di "sfollamenti" periodici in alcuni istituti non sufficientemente dimensionati ai bisogni penitenziari del territorio, l’impossibilità di effettuare le assegnazioni in modo conforme ai criteri dettati dall’art. 42 dell’Ordinamento penitenziario e la conseguente pressione dei detenuti per ottenere trasferimenti in sedi ritenute più idonee alle proprie esigenze, rendono totalmente incerta la durata del possibile rapporto di lavoro col detenuto, elemento non secondario soprattutto se il tipo di attività non consente sostituzioni tout court.
Che dire poi dell’impossibilità o dell’incapacità dell’Amministrazione penitenziaria, sotto il profilo organizzativo, ad evitare nocive sovrapposizioni temporali tra il lavoro e le altre attività trattamentali e non (corsi scolastici, colloqui con familiari e difensori, cure mediche, fruizione della permanenza all’aperto etc.)?

Se questo è il reale spaccato della situazione, se i dati delle rilevazioni penitenziarie confortano l'eziologia (o meglio l’eziopatologia) proposta, allora è venuto veramente il momento di ipotizzare per il lavoro penitenziario (coraggiosamente, senza pregiudizi ideologici e se necessario mettendo in discussione il citato proclama dell’art. 20 Ord. Pen.: "l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera") speciali forme e speciali modalità, pur salvaguardando gli irrinunciabili principi della tutela della dignità della persona umana e del valore morale del lavoro. Ci sia sempre di monito il sacro avvertimento "Littera occidit".

 

 

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