Sentenza Cassazione n° 3508/05

 

Lavoratori socialmente utili: sulla natura del rapporto di lavoro

Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 22.02.2005 n° 3508

 

Fra la pubblica amministrazione e i lavori socialmente utili si instaura un rapporto giuridico previdenziale, che viene disciplinato da una legislazione volta a garantire al lavoratore diritti, che trovano il loro fondamento nel disposto dell’art. 38 Cost., che impedisce al suddetto lavoratore, impegnato in attività presso le amministrazioni pubbliche, la rivendicazione nei confronti di dette amministrazioni di un rapporto di lavoro subordinato, e dei suoi consequenziali diritti.

Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3508 del 22 febbraio 2005, precisando che il lavoratore socialmente utile, svolgendo la sua attività per la realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti, cui non può riconoscersi natura retributiva.

La Suprema Corte, essendosi posta la questione della giurisdizione, in quanto la domanda era antecedente al giugno 1998, ha concluso che il suddetto impiego non aveva costituito un rapporto di pubblico impiego, con esclusione perciò della giurisdizione amministrativa.

Corte di cassazione - Sezioni unite civili

Sentenza 22 febbraio 2005, n. 3508

 

Con ricorso del 26 luglio 2000 P.M. riferiva di essere stato, quale lavoratore in cassa integrazione straordinaria, impiegato in lavori socialmente utili negli anni 1996/97 in base ad un progetto predisposto della regione Molise. Tale progetto prevedeva il rapporto lavorativo a tempo pieno e la corresponsione di retribuzione in termini di differenza tra il trattamento lordo di Cigs ed il trattamento retributivo lordo erogato ai dipendenti regionali appartenenti alla medesima qualifica funzionale. L’importo retributivo era stato però calcolato in maniera totalmente difforme dalla pattuita previsione. Ed infatti la regione Molise gli aveva corrisposto il rateo della retribuzione relativo alla tredicesima mensilità, quantificato al lordo delle trattenute previdenziali, con un criterio di calcolo delle spettanze da ritenersi errato perché, invece che basarsi sulle disposizioni dell’art. 14 del d.l. 299/1994, convertito nella l. 451/1994 (ai sensi della quale il calcolo andava operato con riferimento alla differenza computata sugli importi, al lordo delle ritenute previdenziali, della retribuzione del dipendente regionale di pari livello), si era fondato invece sul d.lgs. 468/1997 inapplicabile al caso di specie perché intervenuto successivamente alla data di approvazione del progetto per i lavori socialmente utili in virtù del quale esso ricorrente aveva prestato attività lavorativa. Tutto ciò premesso, chiedeva la condanna della regione Molise al pagamento della somma di lire 3.175.783 a titolo di ratei di tredicesima mensilità, o quella maggiore o minore somma ritenuta di giustizia, oltre rivalutazione monetaria ed interessi sugli importi rivalutati, il tutto con vittoria di spese ed onorari di giudizio.

 

Dopo la costituzione del contraddittorio, il tribunale di Campobasso con sentenza del 10 maggio 2001 rigettava la domanda attrice.

 

A seguito di gravame, la Corte d’appello di Campobasso, con sentenza del 24 settembre 2002, confermava la decisione impugnata, osservando che pur avendo il lavoratore mutato la sua domanda (perché mentre nell’atto introduttivo della lite aveva reclamato l’attribuzione della somma di lire 3.175.783 a titolo di ratei di tredicesima mensilità in sede di gravame aveva avanzato pretese retributive "comprensive del rateo di 13a mensilità al lordo delle somme"), andava la richiesta del M. ugualmente presa in esame perché su di essa si era pronunziato il primo giudice e perché la controparte aveva fondato in appello la sua tesi sul presupposto che la domanda iniziale del M. fosse propria quella poi modificata. Nel merito la Corte territoriale rimarcava che, seppure alla fattispecie in oggetto non poteva applicarsi ratione temporis il d.lgs. 468/1997, la richiesta dell’attore risultava ugualmente infondata sulla base dell’art. 1-bis del d.l. 244/1981, secondo il quale il parametro di riferimento, su cui andava computata la differenza salariale dovuta al M., non poteva che essere la retribuzione del dirigente regionale di pari livello, da calcolare però al netto, e non al lordo, delle ritenute previdenziali ed assistenziali, perché in caso contrario il lavoratore socialmente utile avrebbe percepito uno stipendio (o salario) superiore a quello percepito dal pubblico dipendente in aperto contrasto con la normativa legale.

Avverso tale sentenza P.M. propone ricorso per cassazione, affidato ad un duplice motivo.

Resiste con contro ricorso la regione Molise.

Con ordinanza del 5 novembre 2003 della Sezione lavoro di questa Corte la causa è stata rimessa alle Sezioni unite atteso che su analoghe controversie queste Sezioni unite erano state già investite con ricorso (incidentale) della regione Molise, che aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario rispetto al rapporto di lavoro dei lavoratori socialmente utili, occupati in progetti elaborati dalla suddetta regione Molise ed affidati all’Ersam (ente beneficiario dell’attività svolta dal ricorrente).

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo il ricorrente principale denunzia falsa applicazione di norme di diritto in relazione al contenuto della disciplina del calcolo del trattamento retributivo per i lavoratori socialmente utili in godimento del trattamento di cassa integrazione straordinaria. In particolare sostiene che la Corte territoriale ha dato una errata interpretazione dell’art. 1-bis del d.l. 244/1981 perché, in assenza di una espressa previsione normativa in senso contrario, la retribuzione base sulla quale va effettuato il calcolo della integrazione dovrebbe essere considerata al lordo delle trattenute di legge, sia perché la retribuzione contrattata in sede sindacale è lorda, sia perché quando il legislatore parla di retribuzione si riferisce sempre all’importo lordo.

Con il secondo motivo il ricorrente denunzia violazione a falsa applicazione di norme di diritto in relazione alla concorrenza di disposizioni su una medesima materia. In altri termini addebita alla sentenza impugnata di avere erroneamente applicato le norme di diritto contenute nel d.l. 31/1995 e nei dd.ll. successivi, che ne costituiscono reiterazione, atteso che l’intervento della l. 608/1996, che aveva fatti salvi i rapporti sorti sulla base di detti decreti, non poteva trovare applicazione nel caso di specie in quanto il d.l. 31/1995 è stato emanato in data 8 febbraio 1995, ossia dopo l’approvazione del progetto regionale per lavori socialmente utili.

Per evidenti ragioni deve esaminarsi, prima dei motivi di ricorso, la questione di giurisdizione, per la risoluzione della quale queste Sezioni unite sono state investite a seguito di ordinanza dalla Sezione lavoro.

Ai fini di un ordinato iter argomentativo risulta opportuno delimitare, seppure a grandi linee, il quadro di riferimento dell’assegnazione a lavori socialmente utili (l.s.u.).

Per la dottrina detto istituto, che presenta peculiarità ben distinte dai tradizionali modelli di tutela sociale, previdenziali ed assistenziali, della disoccupazione, va equiparato ad un modello di matrice nordamericana definito di workfare, basato sull’idea che la tutela sociale al disoccupato costituisce un diritto condizionato ad una prestazione di lavoro "fuori mercato" in attività socialmente utili, oltre che ad un dovere di attivarsi personalmente per uscire dall’assistenza. Per la giurisprudenza, inoltre, lo stesso istituto si colloca a valle dei cosiddetti ammortizzatori sociali (messa in mobilità dei lavoratori in esubero, collocamento in cassa integrazione, trattamento di disoccupazione) e rappresenta uno strumento innovativo per fronteggiare la disoccupazione soprattutto (ma non esclusivamente) giovanile, sì da nascere con una connotazione marcatamente previdenziale-assistenziale, tendenzialmente volta però verso forme di tirocinio giovanile e di praticantato, collocate a ridosso dell’apprendistato e del contratto di formazione e lavoro, che si collocano a loro volta a pieno titolo nell’ambito del rapporto di lavoro (cfr. al riguardo Cassazione 10651/2003). E una tale complessa ed articolata finalità caratterizzante le attività socialmente utili è attestata sotto altro versante dal trattamento economico, riconosciuto ai lavoratori, cui viene corrisposto un emolumento, prima denominato sussidio (che evoca la matrice assistenziale dell’istituto) e di poi "assegno" (che mostra invece l’evoluzione verso una forma di tirocinio/praticantato).

Nell’ambito della ricca normazione sui lavori socialmente utili, ed in una ottica volta ad esaminare solo le disposizioni funzionali alla presente decisione, va ricordato come una prima tipologia di lavori socialmente utili viene regolata dall’art. 1-bis del d.l. 244/1981 (convertito con modificazione nella l. 390/1981) che prevede l’impiego temporaneo in attività di pubblica utilità di lavoratori titolari di un trattamento di integrazione salariale, stabilendo anche che ai lavoratori "è dovuta a carico delle amministrazioni pubbliche interessate una somma pari alla differenza tra somma corrisposta dall’Inps a titolo di integrazione salariale e il salario o stipendio che sarebbe stato percepito in costanza del rapporto di lavoro e, comunque, non superiore a quello dei lavoratori che nell’amministrazione pubblica interessata svolgono pari mansioni". Successivamente con l’art. 14 d.l. 299/1994, convertito in l. 451/1994, si tracciano poi in maniera più compiuta i connotati essenziali dell’istituto che trovano infine un definitivo assestamento con il d.lgs. 81/2000, che integra, appunto, la disciplina previgente, mirando soprattutto ad incentivare l’avvio dei soggetti "utilizzati" verso forme di impiego stabile - anche attraverso una restrizione del campo di applicazione dell’istituto ai soli soggetti già impegnati in progetti di l.s.u. (con abrogazione dell’art. 4 del precedente decreto 468/1997) - definendo gli enti utilizzatori dei lavoratori con espresso rinvio ai soggetti promotori dei progetti di l.s.u. individuati dall’art. 3, comma 1, d.lgs. 468/1997. Tra tali soggetti sono inclusi (oltre gli enti pubblici economici, le società a totale o prevalente partecipazione pubblica, le cooperative sociali e loro consorzi, le aziende speciali e i consorzi forestali) le amministrazioni pubbliche e tutti gli enti pubblici non economici (nazionali, regionali e locali), tra i quali deve annoverarsi, per le finalità perseguite, anche l’Ersam, quale ente di sviluppo agricolo già ente di riforma fondiaria (cfr. per la natura di ente pubblico degli enti di sviluppo agricolo: Cassazione, Sezioni unite, 788/1999; Cassazione, Sezioni unite, 7642/1998; Cassazione, Sezioni unite, 10730/1996; Cassazione, Sezioni unite, 5690/1979).

Orbene, la declaratoria della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non può - alla stregua di quanto sinora detto - essere riconosciuta sul presupposto che l’Ersam in quanto ente di riforma fondiaria abbia natura pubblica e debba considerarsi "datore di lavoro" perché "beneficiario" delle prestazioni di P.M.; né a conforto di tale soluzione può addursi che la materia dei lavori socialmente utili assuma rilevanza pubblicistica perché la relativa disciplina tutela non solo gli interessi particolari dei lavoratori direttamente impegnati, ma anche e soprattutto gli interessi della collettività per rappresentare una offerta di opportunità d’inserimento professionale per fasce deboli di lavoratori.

Ed invero, sulla base della normativa dettata dal d.lgs. 468/1997 poi modificata come detto dal d.lgs. 81/2000 le attività socialmente utili possono essere svolte per l’esecuzione di progetti attuati da enti pubblici (oltre che da soggetti privati e società miste); progetti affidabili per la loro realizzazione ad altri enti attraverso il coinvolgimento di soggetti inoccupati e disoccupati, cui vengono riconosciuti alcuni emolumenti (condizionati alla prestazione di attività lavorative) espressamente regolati dalla legge non in quanto oggetto di un contratto di lavoro subordinato, ma come obblighi dell’ente pubblico scaturenti da un rapporto giuridico di carattere previdenziale che, come è stata evidenziato, trova fondamento nell’art. 38 Cost., perché diretto alla soddisfazione di un interesse sociale, quale quello della tutela contro la disoccupazione.

E che non possa nella fattispecie in esame configurarsi l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato si evince con certezza dal complesso della legislazione in materia. Ed invero l’utilizzazione dei lavoratori socialmente utili non comporta la sospensione o la cancellazione dalle liste di collocamento o di mobilità (art. 8 d.lgs. 469/1997); il trattamento economico consiste in un emolumento che, non commisurato ex art. 36 Cost. alla quantità e qualità del lavoro svolto, è stato predeterminato in maniera fissa, dapprima, in una indennità oraria (qualificata sussidio ex art. 1, comma 3, d.l. 232/1995, pari a lire 7.500, con un massimale di ottanta ore mensili per non più di dodici mesi; poi elevate a lire 8.000 orarie per un massimo di cento ore mensili) e di poi in una prestazione mensile (non superiore a lire 800.000 con la possibilità di un importo integrativo di questo trattamento "per le giornate di effettiva esecuzione della prestazione"); il finanziamento dei lavori socialmente utili è stato posto sin dall’inizio a carico del fondo per l’occupazione (art. 14 d.l. 299/1994; art. 11 d.lgs. 469/1997; art. 8 d.lgs. 81/2000), la cui quota viene ripartita tra le regioni (secondo criteri variati nel tempo) e che in caso di rinnovo di un rapporto, che è a termine (art. 14 d.l. 299/1994; art. 4 d.lgs. 81/2000), fa carico sullo stesso fondo nella misura del 50%, restando l’altra metà a carico dei soggetti a utilizzatori (art. 4 d.lgs. 81/2000).

Correttamente, quindi, la dottrina giuslavoristica ha parlato nel caso in esame di un rapporto giuridico previdenziale, che viene disciplinato da una legislazione volta a garantire al lavoratore diritti, che trovano il loro fondamento nel disposto dell’art. 38 Cost.; il che impedisce al suddetto lavoratore, impegnato in attività presso le amministrazioni pubbliche, la rivendicazione nei confronti di dette amministrazioni di un rapporto di lavoro subordinato e dei suoi conseguenziali diritti. In altri termini il lavoratore socialmente utile, svolgendo la sua attività per la realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti, cui non può riconoscersi natura retributiva, ma come si è già detto natura previdenziale.

Consegue da quanto sinora detto che la giurisdizione del giudice ordinario o di quello amministrativo deve essere in concreto identificata non già in base al criterio della soggettiva prospettazione della domanda (ossia in base alla qualificazione compiutane dall’interessato), ma alla stregua del "petitum sostanziale" individuato dagli elementi oggettivi che caratterizzano la sostanza del rapporto posto a fondamento delle pretese.

Pertanto va nel caso di specie dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla domanda con la quale il lavoratore socialmente utile rivendica il trattamento economico, riconosciutogli dall’art. 14 del d.l. 299/1994, convertito nella l. 451/1994, e, più specificamente, la sua quantificazione al lordo e non al netto delle ritenute previdenziali (con interessi e rivalutazione monetaria), considerato che detta pretesa si configura come un diritto soggettivo, per la mancanza nell’ente pubblico di qualsiasi discrezionalità sull’an e sul quantum dell’ammontare di detto trattamento (cfr. per il criterio del petitum sostanziale ex plurimia: Cassazione, Sezioni unite, 10180/2004; Cassazione, Sezioni unite, 10243/2003).

È stato al riguardo puntualmente osservato come nella materia previdenziale - ma anche in alcuni rapporti aventi ad oggetto prestazioni di natura assistenziale (cfr. Corte costituzionale 209/1995) - l’atto di riconoscimento della prestazione non ha carattere autoritativo, non costituisce cioè un provvedimento amministrativo in senso tecnico, perché non implica alcuna disponibilità del bene della vita che forma oggetto della situazione giuridica soggettiva del privato e non può essere definito, pertanto, che mero "atto amministrativo" dichiarativo della situazione giuridica vantata dall’interessato perché è diretto ad enunciare la sussistenza di un diritto, la cui nascita è preesistente alla sua dichiarazione.

Consegue da quanto sinora detto che va dichiarata la giurisdizione del giudice ordinario.

Ai sensi dell’art. 142 disp. att. c.p.c. gli atti vanno rimessi alla Sezione lavoro di questa Corte di cassazione per l’ulteriore corso del giudizio.

 

P.Q.M.

 

La Corte dichiara la giurisdizione del giudice ordinario. Rimette gli atti alla sezione lavoro di questa Corte per l’ulteriore corso del giudizio.

 

 

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