Corte di Appello di Roma

 

Il Magistrato di Sorveglianza decide su lavoro penitenziario

 

Corte d’appello di Roma - Sezione Lavoro

 

composta da

 

dr. Silvio Sorace - Presidente

dr. Giuseppe Bronzini - Consigliere

dr. Giovanni Cannella - Consigliere estensore

 

All’udienza di discussione del 3.6.2004 ha pronunciato la seguente

 

Sentenza nella causa civile in grado di appello n. 5215/2002 R.G., tra Ministero della Giustizia, domicil. ex lege in Roma, via dei Portoghesi 12rappr. e dif. dall’Avvocatura Generale dello Stato. Appellante e elett.te domicil. in Roma, Via Ciro Menotti 24, rappr. e dif. dall’avv. Pietro Caponetti giusta procura in atti.

 

Appellato (omissis)

 

Oggetto: appello contro la sentenza del 22.10.2001 del Tribunale di Roma

 

Conclusioni

 

Per l’appellante: in totale riforma della sentenza impugnata, rigettare la domanda proposta nei confronti del Ministero della Giustizia. Vinte le spese del doppio grado del giudizio.

 

Per l’appellato: rigettare l’appello proposto in quanto infondato in fatto ed in diritto.

 

Svolgimento del processo

 

Con ricorso depositato il 24.6.2002 il Ministero della Giustizia proponeva appello avverso la sentenza emessa in data 22.10.2001, con cui il Tribunale di Roma in funzione di giudice del lavoro l’aveva condannato a corrispondere a __________ la somma di £ 17.044.140 a titolo di restituzione dei 3/10 della mercede dovuta per il lavoro svolto durante la detenzione negli istituti penitenziari.

Eccepiva il difetto di competenza per materia del giudice del lavoro, il difetto di legittimazione passiva, la prescrizione quinquennale, la manifesta infondatezza della domanda e ne chiedeva pertanto il rigetto. L’appellato si costituiva, contestando la fondatezza dell’impugnazione e chiedendone quindi il rigetto. Alla odierna udienza la causa è stata decisa come da dispositivo.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo d’appello il Ministero ha eccepito l’incompetenza funzionale del giudice del lavoro. Le Sezioni Unite della Suprema Corte al riguardo hanno ritenuto che, in tema di lavoro prestato dai detenuti sia a favore dell’amministrazione penitenziaria, all’interno o all’esterno dello stabilimento in cui sono ristretti, sia all’esterno ed alle dipendenze di altri datori di lavoro, sulle controversie introdotte anteriormente all’entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986 n. 663, relativamente ai reclami, rivolti al Magistrato di Sorveglianza ai sensi dell’art. 69 della legge 26 luglio 1975 n. 354, sussisteva - in base al principio "tempus regit actum" - la competenza del Pretore in funzione di Giudice del Lavoro, stante l’assimilabilità del rapporto di lavoro del detenuto, nonostante le particolarità della sua regolamentazione normativa, all’ordinario rapporto di lavoro, e considerata la mancanza di previsione di uno specifico procedimento di tutela giurisdizionale, in quanto il Magistrato di Sorveglianza provvedeva sui reclami con un "ordine di servizio" cioè con un atto amministrativo.

Viceversa, con riferimento alle controversie introdotte, come la presente, successivamente all’entrata in vigore della legge n. 663 del 1986, per effetto della modifica dell’art. 69 citato della legge n. 354 del 1975, operata dall’art. 21 della stessa legge n. 663, e della conseguente introduzione sui reclami del detenuto (concernenti "l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali") di un procedimento, il quale si deve qualificare di natura giurisdizionale, attesa la garanzia del diritto di difesa (assicurata dall’art. 2 della legge n. 663 del 1986, additivo dell’art. 14 - ter alla legge n. 354 del 1975) e la previsione della decisione del Magistrato di Sorveglianza, non più con un ordine di servizio, bensì con una "ordinanza impugnabile soltanto per cassazione", e, quindi, con un provvedimento avente natura di sentenza, si deve reputare che la competenza sia devoluta in via esclusiva al detto Magistrato di Sorveglianza, il quale, peraltro, la esercita nell’ambito della giurisdizione ordinaria, non implicando detta devoluzione una delimitazione della giurisdizione ordinaria nei confronti di quella amministrativa o di altra speciale (Cass. S.U. n. 26/2001).

Le Sezioni Unite hanno anche escluso "rilievo pregiudiziale" alle questioni di costituzionalità sollevate "con riguardo alle questioni di conformità del procedimento davanti al giudice di sorveglianza al modello di "giusto processo" delineato dall’art. 111 Cost., nel nuovo testo introdotto dalla legge 23 novembre 1999, n. 2, ovvero a prescrizioni risultanti da altre fonti, che, non contenendo disposizioni espressamente o implicitamente abrogative delle norme istitutive del detto procedimento, possano, tuttavia, costituire un parametro interposto, ai fini dell’apprezzamento di non manifesta infondatezza di dubbi di legittimità costituzionale in ordine a queste stesse norme.

Dubbi siffatti, invero, nella parte in cui attengono al regime del procedimento davanti ad uno dei giudici fra i quali si pone il problema della distribuzione della potestas judicandi, non assumono rilievo pregiudiziale e sono, quindi, privi di rilevanza nella presente sede, la quale, essendo destinata alla determinazione del giudice dotato di giurisdizione e di competenza, può attingere tale risultato indipendentemente dall’esito di un giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto quel regime, mentre spetta solo al giudice di sorveglianza l’applicazione delle norme che regolano il procedimento davanti a lui, onde una rilevanza alle suddette questioni potrà, semmai, riconoscersi solo in tale procedimento, non essendo, d’altra parte discutibile, una volta ritenuta la natura giurisdizionale del medesimo, la legittimazione di quel 3 giudice a sollecitare la decisione della Corte costituzionale (cfr. Corte cost. n. 227 del 1995, n. 53 del 1993, n. 349 del 1993)".

La Suprema Corte ha d’altra parte rilevato la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità relativa al "fatto stesso della diversa competenza istituita relativamente al lavoro carcerario. Le diversità strutturali fra il rito applicabile per le ordinarie controversie di lavoro e quello proprio del procedimento delineato dall’art. 69 della legge n. 354 del 1975 per il lavoro dei detenuti, una volta assunta la natura giurisdizionale quale minimo denominatore comune delle une come dell’altro, manifestamente non escludono la ragionevolezza della scelta del legislatore di prevedere una diversa competenza per le controversie concernenti quest’ultimo tipo di lavoro, attese le peculiarità del relativo rapporto che, avendo come parte un detenuto, è, per ciò stesso, inserito in un contesto di attività che risultano strettamente connesse e consequenziali alla pena e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale.

Né questa conclusione è resistita, come si pretende dalla difesa del lavoratore, dalla sentenza n. 26 del 1999, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (quest’ultimo come sostituito dall’art. 21 della legge 10 ottobre 1986, n. 663), nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale.

La lettura della sentenza consente, infatti, di percepire con assoluta chiarezza come il senso della censura sottoposta al giudice delle leggi e dallo stesso accolta si compendiasse nel rilievo del carattere non giurisdizionale del procedimento apprestato dal sopra citato art. 35 con riguardo al reclamo avverso provvedimenti dell’Amministrazione in tema di corrispondenza indirizzata ai detenuti dall’esterno, in contrapposizione alla natura giurisdizionale dei procedimenti affidati, dal successivo art. 69 al giudice di sorveglianza relativamente ad altre materie, ivi compresa quella del lavoro, che in questa sede rileva.

In sintesi, la richiamata sentenza, lungi dallo smentire l’assunto del mutamento di regime intervenuto con la legge del 1996, in ordine alle controversie in tema di lavoro prestato dai detenuti, conferma la natura giurisdizionale del procedimento de quo e della decisione che lo conclude, assumendola, appunto, quale tertium comparationis, al fine di ricavarne l’illegittimità delle disposizioni che omologa natura non attribuiscono a procedimenti attinenti a materie diverse, ma pur sempre implicanti, da parte dell’organismo competente, la cognizione su diritti soggettivi fondamentali che non possono essere compromessi, quanto alle possibilità di difesa, dalla contingente restrizione della libertà personale del titolare".

La Corte non condivide, tuttavia, le conclusioni a cui sono pervenute le Sezioni Unite. 4 Nella sentenza citata, infatti, si riconosce in primo luogo, che il rapporto di lavoro del detenuto, nonostante le particolarità della sua regolamentazione normativa, va pienamente assimilato all’ordinario rapporto di lavoro, con conseguente riconoscimento della competenza del giudice del lavoro ex art. 409 c.p.c. per le controversie introdotte prima dell’entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986 n. 663.

A tale conclusione non è di ostacolo, ma solo per le controversie introdotte fino all’ottobre 1986, quanto riportato in altra parte della motivazione, e cioè la "peculiarità del relativo rapporto che, avendo come parte un detenuto, è, per ciò stesso, inserito in un contesto di attività che risultano strettamente connesse e consequenziali alla pena e, pertanto, istituzionalmente sottoposte alla sorveglianza del giudice penale".

D’altra parte l’assimilazione è stata ribadita anche dalla sentenza n. 158/2001 della Corte costituzionale, successiva alla sentenza delle Sezioni Unite citata (e ad altre analoghe), secondo cui "...alla soggezione derivante dallo stato di detenzione si affianca, distinguendosene, uno specifico rapporto di lavoro subordinato, con il suo contenuto di diritti (tra cui quelli previsti dall’art. 2109 del codice civile) e di obblighi.

Vero è che il lavoro del detenuto, specie quello intramurario, presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario; per cui è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale. Tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato".

Ma già in precedenza la Corte costituzionale, con riguardo alla giurisdizione, aveva avvertito non esservi ragione di distinzione tra il normale lavoro subordinato ed il lavoro dei detenuti o internati (Corte cost. n. 103/84). E nella successiva sentenza n. 1087 del 1988 la Corte aveva sì sottolineato la differenza tra il lavoro ordinario e quello svolto all’interno del carcere alle dipendenze dell’Amministrazione, ma aveva sin da allora escluso che quest’ultimo non dovesse essere protetto alla stregua dei precetti costituzionali.

Più recentemente ha poi affermato che l’idea secondo la quale la restrizione della libertà personale comporta come conseguenza il disconoscimento delle "posizioni soggettive", attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria, è estranea al vigente ordinamento costituzionale, atteso che questo è basato sul primato della persona umana e dei suoi diritti.

Nella stessa sentenza ha messo in rilievo che la restrizione della libertà personale non comporta affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione. E si è ancora osservato che "l’esecuzione della pena e la 5 rieducazione che ne è finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà" (Corte cost. n. 26/99).

Pertanto il rapporto di lavoro del detenuto è un normale rapporto di lavoro che "si affianca, distinguendosene" dal rapporto di detenzione, e ad esso si applicano quindi tutte le norme relative al normale rapporto di lavoro. È vero che la peculiarità del rapporto (interno al carcere) può comportare qualche inevitabile deroga, ma tali deroghe non potranno mai riguardare i diritti fondamentali del lavoratore detenuto, garantiti dalla Costituzione.

Con riguardo alla competenza funzionale, pertanto, la stessa Cassazione (n. 26/2001) riconosce, ma solo con riguardo alle controversie introdotte prima dell’ottobre 1986, la piena equiparazione al lavoro ordinario e quindi la piena operatività dell’art. 409 c.p.c. Secondo le Sezioni Unite, però, la legge n. 663/86 avrebbe modificato la situazione. In verità, ancor prima di valutare se una modifica del genere sarebbe consentita nel rispetto dei principi sopra evidenziati, e cioè se con una tale modifica rimangano o meno saldi i diritti fondamentali del detenuto lavoratore garantiti dalla Costituzione e da altre fonti sovrannazionali, va verificato se tale modifica è davvero intervenuta.

Va osservato al riguardo che, prima della legge del 1986, come la stessa Cassazione riconosce, si applicava alla fattispecie l’art. 409 c.p.c., che attribuiva la competenza funzionale al giudice del lavoro. La legge del 1986 non contiene alcuna esplicita deroga con riguardo al lavoro carcerario alla generale disciplina del codice di procedura. Occorre allora verificare se sia ravvisabile una deroga implicita, e cioè se siano state introdotte disposizioni incompatibili con la competenza del giudice del lavoro.

Le Sezioni Unite richiamano al riguardo la "modifica dell’art. 69 citato della legge n. 354 del 1975, operata dall’art. 21 della stessa legge n. 663, e della conseguente introduzione sui reclami del detenuto (concernenti "l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali") di un procedimento, il quale si deve qualificare di natura giurisdizionale, attesa la garanzia del diritto di difesa (assicurata dall’art. 2 della legge n. 663 del 1986, additivo dell’art. 14 - ter alla legge n. 354 del 1975) e la previsione della decisione del Magistrato di Sorveglianza, non più con un ordine di servizio, bensì con una "ordinanza 6 impugnabile soltanto per cassazione", e, quindi, con un provvedimento avente natura di sentenza".

L’art. 69 nuovo testo prevede, infatti, che il magistrato di sorveglianza "decide con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all’articolo 14-ter, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l’osservanza delle norme riguardanti: a) l’attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; b) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa".

L’art. 14-ter a sua volta prevede: "1. Avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare può essere proposto dall’interessato reclamo al tribunale di sorveglianza nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento definitivo. Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento. 2. Il tribunale di sorveglianza provvede con ordinanza in camera di consiglio entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo. 3. Il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore e del pubblico ministero. L’interessato e l’amministrazione penitenziaria possono presentare memorie. 4. Per quanto non diversamente disposto si applicano le disposizioni del Capo secondo-bis del Titolo secondo".

Infine l’art.71-ter stabilisce che "avverso le ordinanze del tribunale di sorveglianza e del magistrato di sorveglianza, il pubblico ministero, l’interessato e, nei casi di cui agli articoli 14-ter e 69, comma sesto, l’amministrazione penitenziaria, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento.

Si applicano le disposizioni del terzo comma dell’articolo 640 del codice di procedura penale. Si applica, altresì, l’ultimo comma dello articolo 631 del codice di procedura penale". La nuova disciplina prevede quindi la procedura del reclamo dinanzi al magistrato di sorveglianza in ordine, tra l’altro per quanto interessa, all’osservanza delle norme sulla "mercede" carceraria che si conclude con ordinanza ricorribile in cassazione.

Ad avviso di questa Corte ciò non può considerarsi sufficiente per affermare, come fanno le Sezioni Unite, che sia stato modificato l’art. 409 c.p.c. con riguardo al lavoro carcerario. Né la natura giurisdizionale della procedura può ritenersi sufficiente ad escludere la persistenza dell’ordinario rimedio giurisdizionale per le controversie di lavoro.

In realtà, una volta affermato che il rapporto di lavoro dei detenuti "si affianca, non sovrapponendosi" al rapporto carcerario, nulla esclude che all’ordinaria tutela giurisdizionale si affianchi un’altra tutela "interna" al regime carcerario, seppure anch’essa di natura giurisdizionale, attribuita al magistrato di sorveglianza e cioè al magistrato che si occupa della "vigilanza" del rispetto dei diritti dei detenuti sotto ogni profilo.

Si tratterebbe di tutele, come ritenuto dalla dottrina, alternative, nel senso che il lavoratore detenuto potrebbe scegliere tra una tutela "interna" alla organizzazione carceraria e l’ordinaria tutela prevista per tutti i lavoratori, nel rispetto della regola che electa una via non datur recursus ad alteram. D’altra parte che il legislatore del 1986 non intendesse modificare l’art. 409 c.p.c. risulta evidente dalla notevole diversità dei due rimedi, il che esclude che il rimedio dinanzi al magistrato di sorveglianza sia idoneo a "sostituire" il rimedio ex art. 409 c.p.c., avendo una struttura ed una funzione ben diversa ed essendo dotato di congegni processuali ben più riduttivi rispetto agli strumenti previsti per l’esplicazione del diritto di difesa dei lavoratori.

Tanto riduttivi che la diversa interpretazione sostenuta dalle Sezioni Unite non potrebbe che scontrarsi, come si dirà, con principi costituzionali e sovranazionali. Basti osservare che la procedura ex art. 14 ter non prevede la partecipazione del contraddittore necessario del rapporto di lavoro e cioè del Ministero della Giustizia (datore di lavoro nel rapporto carcerario "interno" come quello in esame), che non assume la veste di parte, non prevede la partecipazione personale dell’interessato, che non può essere sentito personalmente, non prevede la pubblicità del procedimento.

Va anche considerato che la procedura è configurata come reclamo entro 10 giorni avverso un provvedimento dell’amministrazione (art. 14 ter), che non sempre è riscontrabile nelle controversie lavorative, e il magistrato di sorveglianza può solo pronunciarsi sulla fondatezza o meno del reclamo, ma non può emettere ad esempio provvedimenti di condanna (tipico corollario della diversa configurazione della natura dei giudizi, il primo impugnatorio, il secondo di tutela dei diritti soggettivi nel rapporto bilaterale a prestazioni corrispettive). Si è anche osservato in dottrina che il magistrato di sorveglianza, - per i compiti istituzionali di vigilanza che gli sono attribuiti dall’ordinamento penitenziario -, sembra svolgere una funzione propria diversa da quella che si riconosce all’ordinario organo giudicante delle controversie civili, sicché la procedura in esame ha funzione e struttura del tutto diverse dall’ordinario processo del lavoro, costituendo in realtà una tutela "interna" al regime carcerario e come tale non sovrapponibile né sostituibile alla normale tutela giurisdizionale, se non in base ad una libera scelta del detenuto lavoratore.

Nel caso in esame, quindi, l’appellato ha scelto la tutela ordinaria che non può considerarsi preclusa dalla nuova disciplina in assenza di una modifica esplicita o implicita dell’art. 409 c.p.c.

Va, fra l’altro, osservato che una diversa interpretazione darebbe luogo a problemi di difficile soluzione con riguardo al periodo successivo alla fine del regime carcerario. Sarebbe dubbia, infatti, la permanenza in tal caso della competenza del giudice di sorveglianza, con una sorta di ultrattività con riguardo a cittadini ormai liberi, che sarebbero trattati diversamente dagli altri lavoratori "liberi" senza alcuna ragione, o invece il ripristino della competenza del giudice ordinario.

E in quest’ultimo caso dovrebbe stabilirsi se la fine del regime carcerario sia idoneo ad incidere sulla competenza anche se interviene nel corso della procedura del reclamo. Per altro verso, come si è detto, la diversa interpretazione sostenuta dalle Sezione Unite difficilmente potrebbe sottrarsi ai dubbi di contrasto (per altro già ampiamente sollevati in dottrina) con norme costituzionali e sovranazionali. Non convincono al riguardo le argomentazioni della Cassazione che, anche con riguardo alla questione della competenza in sé, non riesce a superare, in definitiva, il problema circa le ragioni della compatibilità dell’applicazione del rimedio giurisdizionale dinanzi al giudice di sorveglianza con quello di cui all’art. 111 Cost.

Come è noto, l’art. 111 stabilisce che "ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale", ma si è già visto che nel procedimento in esame il contraddittorio non è affatto assicurato, sono dubbie le condizioni di parità tra le parti e, come si è detto, la stessa terzietà tipica istituzionale propria del giudice non sembra - beninteso proprio per la diversa funzione istituzionale del magistrato di sorveglianza rispetto a all’ordinario organo giudiziario, potersi agevolmente estendere anche a tale figura, anzi emergendo proprio sul punto una sorta di incompatibilità confermata dal rilievo del S.C. che, per spiegare la ragionevolezza del regime delle diverse competenze, richiama proprio quale dato essenziale il fatto che il lavoro del detenuto "è inserito in un contesto di attività connesse alla pena e pertanto istituzionalmente sottoposta alla sorveglianza del giudice penale". Ciò comporta che il parametro di fondo della valutazione del magistrato di sorveglianza in ordine al lavoro dei detenuti (la considerazione cioè del lavoro in questione nell’ottica dell’esecuzione della pena per la funzione non solo più afflittiva della stessa) si pone su un piano ovviamente diverso da quello tipico del giudice chiamato a decidere con riguardo alla normalità del lavoro in questione siccome un comune rapporto di lavoro subordinato con i correlativi diritti e obblighi nascenti dallo stesso (Cass. n. 958/2001).

Inoltre sotto il profilo del rispetto dell’art. 3 Cost. non sembra potersi giustificare il diverso trattamento processuale rispetto ai normali lavoratori, in presenza di un rapporto pienamente assimilabile a quello ordinario. Non vi è dubbio infatti che il procedimento in esame sia deteriore con riguardo al diritto di difesa rispetto al rito del lavoro, oltre che per i profili già esaminati, anche, ad esempio, per l’assenza di un doppio grado di giudizio di merito o per l’assenza della norma relativa alla immediata esecutività delle pronunce di condanna (che in realtà neppure possono essere emesse) a conferma di quanto sopra rilevato in punto di diversità di funzioni istituzionali.

Va anche considerato sul piano positivo che il rito del lavoro è stato introdotto nel 1973 in applicazione delle disposizioni costituzionali che attribuiscono una tutela particolare al lavoratore come soggetto "debole" del rapporto di lavoro. Ciò ha indotto il legislatore ad attribuire al lavoratore una tutela processuale rafforzata ed un particolare favor, affinché il diritto di difesa giudiziale possa essere esercitato con modalità tali da riequilibrare la posizione iniziale di svantaggio rispetto al datore di lavoro, dotato normalmente di maggiori mezzi economici.

Sarebbe quindi particolarmente confliggente con i principi costituzionali l’esclusione di un rito che si ispira a tali principi per una categoria di lavoratori, il cui rapporto è stato considerato del tutto equiparabile a quello ordinario. Quanto ai profili sovranazionali va osservato che l’art. 6 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo dispone che "ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata imparzialmente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente ed imparziale costituito dalla legge che deciderà sia in ordine alle controversie sui suoi diritti ed obbligazioni di natura civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale. Il giudizio deve essere pubblico".

La disposizione è stata resa esecutiva con legge n. 848/55 ed è stata direttamente applicata nel nostro ordinamento con portata generale, ad esempio con riguardo ai procedimenti disciplinari a carico dei magistrati (le Sezioni Unite della Suprema Corte con sent. n. 7662/91, hanno in conseguenza ritenuto abrogato l’art. 34, 2° comma, r.d.l. n. 511/46, che non garantiva la pubblicità dell’udienza disciplinare).

In ogni caso la Corte costituzionale, con sent. n. 10/93, ha affermato che le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo "sono state introdotte nell’ordinamento italiano con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione…che sono tuttora vigenti, non potendo, certo, essere considerate abrogate dalle successive disposizioni…perché si tratta di norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, in quanto tali, insuscettibili di abrogazione da parte di disposizioni di legge ordinaria".

Analogamente la Cassazione ha statuito che "le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo in quanto principi generali dell’ordinamento giuridico godono di una particolare forma di resistenza nei confronti della legislazione posteriore" (sent. del 12/05/1993, sez. penale) e che "tali norme…impongono agli stati contraenti veri e propri obblighi giuridici immediatamente vincolanti e, una volta introdotte nell’ordinamento statale interno, sono fonte di diritti ed obblighi per tutti i soggetti" (sent. n. 6672/98, sez. civile).

L’Unione Europea ha inoltre recepito i principi della Convenzione dei diritti dell’uomo stabilendo che "l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario" (attuale art. 6 nel testo consolidato del Trattato sull’Unione europea).

Infine l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea stabilisce che "ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente e entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare".

La Carta è stata inserita nel progetto di costituzione europea e presto dovrebbe acquisire carattere pienamente vincolante. In ogni caso già oggi viene considerata operante come punto di riferimento essenziale non solo per l’attività delle istituzioni comunitarie, ma anche per l’attività interpretativa dei giudici europei, tanto che è costantemente richiamata negli atti degli organi europei, invocata più volte nelle conclusioni dell’avvocato generale nei giudizi dinanzi alla Corte di giustizia europea, citata in alcune sentenze del Tribunale di prima istanza europea e delle Corti costituzionali italiana e spagnola. Nel caso in esame, quanto meno sotto il profilo dell’assenza di pubblicità del processo, i principi enunciati sarebbero chiaramente violati, se si ritenesse la competenza esclusiva del magistrato di sorveglianza con riguardo ai rapporti di lavoro dei detenuti.

Tutto ciò considerato, nel rispetto anche del principio che va privilegiata l’interpretazione più conforme ai principi costituzionali e sovranazionali, va respinto il motivo d’appello relativo alla competenza, dovendosi riconoscere la competenza funzionale del giudice del lavoro, quantomeno in assenza della scelta da parte del lavoratore detenuta della procedura del reclamo.

È infondato anche il motivo d’appello relativo al preteso difetto di legittimazione passiva del Ministero. Non vi è dubbio infatti che la legittimazione passiva nelle controversie di lavoro spetta al datore di lavoro titolare del rapporto e quindi nella fattispecie al Ministero della giustizia titolare del rapporto di lavoro carcerario, mentre è irrilevante la circostanza che le ritenute siano versate e gestite dal Ministero del Tesoro.

È infondato infine il motivo d’appello relativo alla prescrizione. Il lavoro carcerario, infatti, non è dotato di un regime di stabilità, poiché il Ministero può in qualsiasi momento revocarlo, non essendo previsto alcun obbligo di adibire il detenuto al lavoro carcerario, né alcuna disciplina limitativa della cessazione del rapporto.

Né consegue la sussistenza del metus nei confronti del datore di lavoro, impeditivo del libero esercizio del diritto, che comporta la sospensione del termine di prescrizione in base alla sent. n. 63/66 della Corte costituzionale. Nel caso in esame l’appellato ha dedotto che il lavoro carcerario è proseguito fino oltre il deposito del ricorso di primo grado e il Ministero non ha contestato l’assunto, peraltro indirettamente confermato anche dalla procura rilasciata in carcere.

Ne consegue che il termine di prescrizione non poteva decorrere prima dell’introduzione del giudizio. Anche il terzo motivo d’appello va quindi respinto. In considerazione della particolarità delle questioni dibattute, ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese di lite.

 

P.Q.M.

 

La Corte respinge l’appello; compensa integralmente tra le parti le spese di lite del grado. Roma, 3.6.2004.

 

 

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