Inchiesta sul lavoro carcerario

 

Mini inchiesta sul lavoro carcerario

pareri ed esperienze

Corriere Lavoro, 26.02.2004

 

 

Carcere. La parola d’ordine dev’essere: "lavoro"

Parla Roberto Castelli, ministro di Giustizia: "Un investimento sul futuro".

Lucia Castellano, direttrice casa di reclusione di Bollate: "Presto opereremo in consorzio"

Licia Roselli, Agesol: "Dal ‘99 sistemati 500 detenuti".

Carcere. La parola d’ordine dev’essere: "lavoro"

 

Mettiamola così: da una parte ci sono buone leggi, il privato sociale che fa il possibile, le aziende che danno timidi segnali di avvicinamento; dall’altro l’evidenza dei numeri. E i numeri dicono che nelle carceri italiane su 54.788 detenuti, 11.198 lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, 2.432 risultano inseriti in azienda, appena 300 sono stati assunti nel privato con le agevolazioni fiscali della legge Smuraglia. Dietro le sbarre la prima risorsa restano le "lavorazioni domestiche": scopino, portavitto, spesino, bibliotecario, barbiere, giardiniere, cuoco.

Il lavoro di qualità invece è un miraggio e si concentra dentro e fuori un esiguo numero di penitenziari. Sulla carta gli ostacoli sono superabili, per esempio mettendo insieme legge Smuraglia, telelavoro, la possibilità di creare progetti e prendere fondi dalla Cassa per le ammende e il regolamento di esecuzione, che prevede che l’amministrazione penitenziaria possa dare in comodato i propri spazi. Le cooperative sono esperimenti necessari, ma quando si confrontano col mercato arrancano, ricevono pochissime commesse. La formazione professionale è un capitolo centrale, l’impegno richiesto è però sproporzionato rispetto alle risorse. Si parla di un esercito da alfabetizzare, i reclusi che prima della detenzione risultavano titolari di una posizione lavorativa definita sono 12.951. Di fatto, oltre il50 % della popolazione carceraria non ha assolto l’obbligo scolastico e ha tra i 18 e i 35 anni. Solo lo 0,84 ha una laurea, il 3,67 un diploma di scuola media superiore, il 35,64 la licenzia media, mentre il 3,5 un titolo professionale.

Qualificare è fondamentale, ma i corsi attivati negli istituti di pena contano solo 7.127 iscritti. Un bell’esempio di auto imprenditoria dal basso è quello di Ecolab. La cooperativa è nata qualche anno fa a San Vittore ed è attiva nel settore della lavorazione di pelle e confezioni. Dopo un corso di formazione i responsabili si sono dati da fare per creare una sorta di gemellaggio con le aziende. In media ogni anno attraverso la cooperativa transitano 25 persone. Sono tre anni che ricevono commesse da Armani jeans, Coop, Inter. Nel 2001 hanno fatturato 100 mila euro e 300 mila nel 2002. L’anno scorso gli affari sono andati ancora meglio con il business delle borse e delle magliette della pace.

"Rispetto a tre anni fa la situazione è cambiata - dice Francesca Valenzi, dirigente dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia con delega al lavoro nelle carceri -: il privato si è fatto avanti ma mancano le imprese disposte a lavorare con noi: una trentina in tutta la regione". La strada maestra è quella dell’approccio territoriale integrato, che punta sull’incentivazione dell’iniziativa di province e comuni. In Val Seriana sono stati alcuni piccoli comuni a fare sistema e nel giro di pochi anni, programmando, hanno assorbito decine di detenuti. Piani di zona simili funzionano a Como, Monza, nel Milanese e in Brianza ma non in tutta Italia. Senza contare che complessivamente si parla sempre di piccoli numeri. "I fondi ci sono - conclude Valenzi - lo scorso anno la copertura finanziaria della Smuraglia è stata sufficiente, anche perché al Sud è uno strumento pressoché inutilizzato".

Meno ottimista è Stefano Anastasia, presidente di Associazione Antigone e direttore a Roma dell’Ufficio del garante dei diritti dei detenuti: "La Smuraglia è sottofinanziata. La legge copre appena 30-35 detenuti a regione, cioè 300 persone su un totale di 54 mila detenuti. In Campania, dove i reclusi sono 7 mila, risultano finanziate agevolazioni fiscali per 30 detenuti. Che cosa è oggi veramente il lavoro penitenziario? La gran parte sono attività domestiche di scarsa qualificazione, abbiamo alcune esperienze esterne di qualità ma sono merce rara. È il caso della cooperativa Alice di San Vittore, che cuce vestiti di scena per i migliori teatri italiani, o delle cooperative sociali di Rebibbia, che hanno preso in mano le mense dei detenuti e col catering fanno assunzioni e profitto".

Secondo Anastasia la legge Smuraglia non è riuscita nemmeno a riattivare le lavorazioni all’interno degli istituti. Sempre a Rebibbia i capannoni che un tempo ospitavano le officine meccaniche che si occupavano della manutenzione del parco macchine del ministero della Giustizia sono rimaste vuote. "Forse dovremmo riprovarci, ma serve una forte azione di promozione presso le imprese. Ecco il punto, dall’impasse si esce solo con investimenti solidi, con la sburocratizzazione dell’amministrazione penitenziaria e con un fitto lavoro di concerto tra regioni e comuni". In questa prospettiva torna la necessità di una formazione professionale adeguata. Qui i soldi ci sono ma di corsi se ne fanno anche troppi e non tutti guardano al mercato. "Con Antigone abbiamo condotto una ricerca sui corsi organizzati nelle carceri campane - conclude Anastasia -. Il periodo di osservazione è di dieci anni. Risultato: un solo detenuto è arrivato in fondo".

 

Parla Roberto Castelli, ministro di Giustizia: "Un investimento sul futuro"

 

A che punto siamo col difficile percorso di equiparazione del lavoro carcerario a quello "normale"?

Il ministro Roberto Castelli: "L’impegno per favorire l’attività lavorativa all’interno dei penitenziari ha già consentito di ottenere, rispetto al giugno 2001, una crescita del numero dei detenuti che lavorano per conto di privati: l’incremento è del 20 per cento. Oggi svolgono un lavoro vero, dignitoso, parificato e competitivo rispetto al mercato e che continuerà anche quando avranno terminato il periodo di espiazione".

 

Bastano gli strumenti legislativi attuali ?

"Abbiamo dato applicazione alla legge Smuraglia, fissando termini e criteri per i rimborsi fiscali e previdenziali delle società che offrono lavoro a chi è ristretto in carcere".

 

Quando si parla di carcere e lavoro si citano sempre gli stessi esempi positivi. E gli altri penitenziari?

"I progetti contrattualizzati e avviati in tutta Italia sono molti. A breve ripeteremo l’esperienza pilota del call center della Telecom a San Vittore anche in due istituti penitenziari di Sicilia e Puglia. I nostri sforzi si concentrano indistintamente in ogni regione; potrei citare numerosi esempi di lavoro nelle carceri del Centro e del Sud: penso alla casa circondariale di Velletri, dove è operativa una azienda agricola; alla Casa circondariale di Lauro, dove si riparano elettrodomestici; a Cosenza, dove i detenuti fanno ristrutturazioni murarie di diversa natura; alla formazione teorico-pratica nel settore dell’apicoltura e lavorazione dei prodotti apiari di Pianosa; alle colonie penali di Mamone e Is Arenas".

 

Come si costruiscono validi progetti di inserimento lavorativo negli istituti che sono meno sotto i riflettori?

"Tutti i Provveditorati stanno lavorando per le possibili interazioni con le realtà territoriali, per inserire le proprie produzioni nelle economie di mercato locali attraverso la collaborazione con le cooperative e il mondo imprenditoriale. L’obiettivo è individuare un vantaggio che possa determinare nelle cooperative e nelle imprese una forte richiesta di manodopera detenuta, anche specializzata. Sempre in quest’ottica sono stati firmati protocolli d’intesa tra regioni e ministero della Giustizia".

 

Come si costruisce un’eccellenza? Pretendere che un detenuto abbia le qualità per stare su un mercato del lavoro veloce, flessibile e globale è realistico?

"L’eccellenza è la nostra sfida. È di pochi giorni fa la certificazione Uni En Iso 9001 assegnata a uno dei laboratori della Casa di Bollate, dove i detenuti assemblano apparecchiature telefoniche; è la prima volta che succede in Italia. Ricordo inoltre il riconoscimento conferito a Johannesburg ai laboratori di informatica della Cysco System presenti a Bollate. Se queste non sono eccellenze…".

 

Lavorare in cambio di uno sconto di pena: è un’ipotesi azzardata?

"Su questo tema la scorsa estate, in pieno dibattito su indulto e indultino, la Lega Nord presentò un decreto legge che non ha trovato consenso tra gli alleati. Il testo prevedeva sconti di pena solo a chi accettava di svolgere lavori socialmente utili, che potessero consentire di riparare il vulnus arrecato alla società".


Che cosa è il lavoro penitenziario?

"E’ la prima strada per il recupero del detenuto, rappresenta l’inizio di un percorso di formazione professionale che può garantire un migliore reinserimento nella società, in linea con quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Il principio che sta alla base di ogni discorso sul lavoro in carcere è che un detenuto che lavora è un investimento sul futuro, perché cammina sulla strada del pieno recupero alla società civile e diventa necessariamente meno incline a delinquere". 

"Presto opereremo in consorzio"

 

L’esperienza. Lucia Castellano, direttrice della casa di reclusione di Bollate

 

Qualcuno, invece di piangersi addosso, ha deciso di fare seriamente profit. Succede a Bollate, dove il 4 febbraio è stato firmato un protocollo che avvia una piccola rivoluzione, la prima del genere in Italia. "Funziona così - spiega Lucia Castellano, direttrice -: l’amministrazione penitenziaria smette di pagare le mercedi, lo stipendio corrisposto a rotazione per le attività di mantenimento della struttura e assegna i lavori a una cooperativa di detenuti. La regia è in mano a un manager di professione. Daremo commesse senza appalto, lo strumento per riuscirci è l’associazione Virgilio, che mette insieme noi, i carcerati, il sistema delle imprese sociali e la Provincia. La copertura economica, 250 mila euro, arriva dalla Regione. La formazione riguarda anche i poliziotti. Nei prossimi cinque anni trasformeremo l’istituto in un grosso consorzio di cooperative e daremo ai carcerati l’occasione di riappropriarsi del loro lavoro".

Bollate è una struttura particolare nel panorama italiano. Lucia Castellano si è data delle regole: tenere sotto stretta osservazione il rapporto tra domanda e offerta; incoraggiare corsi di formazione che rispondono alle richieste del mercato, elettricisti, saldatori, programmatori web progetto Cisco, macchinisti di palcoscenico, operatori di rete; pilotare i finanziamenti del Fondo sociale europeo verso una professionalizzazione che trova lavoro; rivolgersi quando serve all’interinale.

"Ma non è tutto rose e fiori, su 800 detenuti solo 220 lavorano", conferma la direttrice. Gli stipendi oscillano tra i 4-500 euro mensili, in pratica è l’equivalente di una paga sindacale, cui va sottratto il costo di mantenimento in carcere. Perché chi è recluso paga per il proprio vitto e alloggio. Per questo ci siamo mossi". 

"Dal ‘99 sistemati 500 detenuti"

Licia Roselli, Agesol

 

Agesol è un’altra esperienza unica in Italia. Dal ‘98 si occupa di reinserimento. Offre consulenza ed elabora progetti sperimentali di formazione integrati sul territorio. Per il terzo anno opera con consorzi di cooperative e con la Provincia di Milano. Insieme gestiscono gli sportelli di accompagnamento al lavoro.

"Dal ‘99 abbiamo sistemato 500 detenuti - sottolinea Licia Roselli, presidente -. L’offerta esterna però è limitata, due anni fa abbiamo inserito 111 persone, l’anno scorso soltanto 70. Il mercato del lavoro è saturo. Le regole sono cambiate, mentre i detenuti sono rimasti sempre gli stessi: poco professionalizzati, poco spendibili, avanti con l’età, poco scolarizzati e scarsamente adatti a sostenere i ritmi di un mercato dove la concorrenza è forte. Così la nostra scelta è di piazzarli direttamente in azienda anziché nelle cooperative".

Licia Roselli ci tiene a sottolineare che la Lombardia non è lo specchio del Paese. "Conosco una associazione di Palermo che tre anni fa ha ricevuto più contributi di noi, ma non è riuscita a reinserire nemmeno un detenuto. E questo non perché non fossero bravi: è che dalle loro parti non c’è lavoro. Poi ci sono gli stranieri, la Bossi-Fini ha ridotto a zero il nostro margine di intervento. Possiamo fare qualcosa soltanto per chi è stato condannato prima dell’approvazione della legge. Oltre questo spartiacque scatta l’espulsione, quindi niente lavoro".

 

 

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