Giornalismo dal carcere

 

L’Oblò

Mensile della Casa circondariale di San Vittore

(Numero 9, ottobre 2005)

 

Con gli sbirri alle calcagna

Senza la bianca non avrei sparato

Genitori e figli: Un’ora sola

Con gli sbirri alle calcagna

 

di Georges

 

Mi presento: sono pregiudicato da molti anni, ho alle spalle condanne scontate con il carcere. Ma ora il mio debito con la giustizia è estinto. Cocainomane per un trentennio, oggi sono un ex. Per volontà e grazie all’aiu­to di persone che hanno voluto darmi delle motivazioni. Onestamente credevo di non poter smettere mai! Vorrei parlarvi di me e della coca, ma prima vorrei fare una premessa dedicata a quelli (soprattutto ai giovani) che credono con la cocaina di potenziare le loro prestazioni ses­suali, di sentirsi disinibiti, senza tabù, capa­ci di qualsiasi cosa senza fatica, in un peren­ne delirio di onnipotenza. Attenti! La cocai­na crea nel 90 per cento di chi ne abusa impotenza, omosessualità e manie di perse­cuzione. Bene, ora vi racconto una cosa che può tornarmi utile.

Era il 1973, io sniffavo in modo spaventoso, non solo per aumentare le prestazioni ses­suali (così credevo) e cerebrali, ma anche per riuscire a dormire il meno possibile. In quel periodo a Milano c’era una lotta di malavita a tutti i livelli per il controllo delle bische e dei circoli privati. C’erano grossi guadagni in ballo. II gioco d’azzardo, poi, portava inevitabilmente alla coca che iniziava a diffondersi anche fra la manovalanza criminale. A forza di sniffare ero pronto per il manicomio, vivevo sempre sul chi va là, vedevo sbirri dappertutto. Una notte – erano più o meno le 4,30 – arrivai sotto casa e vidi una Ford Capri (qualcu­no se la ricorda?) parcheggiata proprio davanti al mio portone. C’erano due persone, dentro. O meglio, non c’era nessuno, ma i poggiatesta mi mandarono in confusione. Cazzo! Due suore a quest’ora in macchina sotto casa.

E no, non mi fregano: sono sen­z’altro carabinieri travestiti da suore. Adesso faccio un giro, distruggo le prove (dicevo così quando pippavo l’ultima), e poi torno. Così, gira e rigira, le “suore” erano sempre lì. Che fare? Grande idea! Vado al bar, fac­cio l’ultimo tiro, e cambio macchina (avevo una 126 a disposizione). Vediamo se le suore mi seguono ancora. In piazza Maciacchini, scendo, entro al bar, bevo, toilette, sigarette. In un attimo di luci­dità comincio a darmi del pirla per le mie visioni. Telefono a mia moglie. “Tutto a posto?”. “Dai amore, vieni a dormire”. “Prendo da fumare e arrivo”. Magari. Come salgo sulla 126 mi ricordo che proprio sotto il posacenere ho un sac­chetto con una quarantina di grammi di “bianca” (giorni prima avevo fatto la scorta di roba per non dover sempre dipendere dagli spacciatori da strada). Che cosa fac­cio? Tornare a casa no, è pericoloso. Intorno il traffico comincia a farsi intenso, mi sem­bra che tutti stiano guardando me.

La paranoia torna a salire. Vado verso il centro. In piazza Diaz c’è (meglio, c’era) un bellissi­mo bar con toilettes spaziose e gradevoli. Prendo il sacchettino di roba con me, faccio un tiro abbondante, lavo il viso alla meglio, mi guardo nello specchio: la mia barba e i miei occhi parlano da soli. Devo tornare a casa, ma il problema ora è nascondere la roba. Altro sniffo e via, credendo di stare alla grande. La verità è che tutto quello che già avevo in corpo esplode, sono strafatto più che mai, vado in paranoia, non riesco a fermarmi, ossessionato da guardie che mi spiano da ogni angolo della strada. Vicino a piazzale Corvetta scopro di essere quasi a secco con la benzina, e imbocco l’Autosole per trovare un distributore. Benzina, sigarette, acqua minerale, e un giro ai servizi con la cocaina. Ormai splende il sole, che fastidio. Meglio muoversi, ma dopo pochi chilometri comin­cio a vedere macchine che mi seguono, tar­ghe che ho già visto prima. Il panico.

I car­telli dicono Piacenza, poi Parma, poi Bologna. Ogni tanto mi fermo fingendo di avere un guasto. Lo faccio per seminarli. Risalgo in macchina, e ripippo (ormai tengo il sacchetto di coca sul sedile del passeg­gero). Così per ore e ore, per chilometri e chilometri, avanti, avanti, avanti. Con gli sbirri che spuntano da tutte le parti c io che scappo. Dopo Roma mi fermo a fare benzi­na, e mi sento totalmente circondato, sono nel marasma totale, tutti seguono me. Non apro più nemmeno i finestrini e la portiera, tengo il motore acceso sempre. “Signore può spegnere il motore!”. “No, ho il motorino d’avviamento guasto”. Riparto. Sudo, sono appiccicoso come se avessi una colata di catrame bollente sulla pelle, ma continuo a pippare. Dopo Napoli ò nuovamente buio. Altra tragedia, perché devo urinare. Mi fermo in una piazzola, ma tutti quei fari di poliziotti che mi spiano mi atterriscono. Così la faccio a motore acceso e portiera aperta senza scendere. Un casino. Proseguo andando ai 50 all’ora, ossessionato, fumo e sniffo. una sigaretta e una pippa­ta. L’abitacolo é una camera a gas, ma io proseguo. Anzi scappo. Scappo da quelli che mi vogliono fregare, ma li frego io che sono più furbo di loro. Fino a quando non arrivo alla fine dell’Italia peninsulare: Villa San Giovanni. Meno male. Se dì fronte a me non ci fosse il mare, potrei arrivare in Cina.

Guardo il sedile. Il sacchetto é vuoto. E fini­ta anche la cocaina: 40 grammi. “Deve imbarcarsi, signore?”. A dire il vero non so neanche dove sono. Ma sono tran­quillo. Senza più roba, cosa possono farmi i carabinieri? Adesso posso scendere dalla macchina. Sì, una parola scendere sotto quel sole rovente. Dopo vari sforzi esco. Non riesco a mettermi in piedi, ho una barba spaventosa, i capelli che sembrano un cesto di vimini, puzzo come una carogna. Credo che Quasimodo – il gobbo di Notre Dame – al confronto sia un adone. Non vedo quasi niente e ci vuole più di un’ora prima di riuscire a biascicare qualche parola. Alla fine trovo una cabina telefonica. “Pronto amore, dove diavolo sei?”. “Io? Sono a Reggio Calabria”. “Che ci fai lì?”. “Non lo so. vienimi a prendere, non sto in piedi, non sento la testa, credo di morire”. Sì, é venuta. Mi ha riportato a Milano e mi ha chiuso in casa per venti giorni. Ma va, la coca non fa niente!

 

Senza la bianca non avrei sparato

 

di Michele Ferraro

 

Ho 27 anni, sono in carcere da quattro per tentato omicidio commesso nel corso di una rapina a un tabaccaio. È partito un colpo di pistola, ma per fortuna lui non è morto. L’antefatto, in breve, è questo. In questi ultimi tempi i personaggi alla moda coinvolti in festini e tragedie, hanno portato alla ribalta la cocaina, come se prima non fosse stato un problema, o se lo era riguardava poche persone. E comunque c’era la sensazione diffusa che fra tutte le droghe pesanti fosse la meno insidiosa. Niente di più falso: la cocaina è pericolosissima al pari dell’eroina e di tutte le sostanze che danno dipendenza, fisica o mentale. Sono tutte devastanti quando l’uso è sconsi­derato, e anche quando l’uso – ammesso che ci si riesca – è controllato, fanno malissimo lo stesso.

Io sono nato in Sicilia, venuto al nord per lavorare che stavo bene di salute e qui ho conosciuto la cocaina. In principio solo nei fine settimana. Dopo sei giorni di cantiere come muratore o fino alle quattro di mattina a servire quando facevo il cameriere, tiravo qualche sniffata. Insomma, solo una volta ogni tanto, “una trasgressione” mi dicevo. “Tanto, smetto quando voglio”. E già. La cocaina socializza. La cocaina ti fa sentire bene, ti fa scopare. Minchiate, almeno per me, io mi isolavo anche dagli amici, non trombavo e diventavo aggressivo, e naturalmente i fine settimana diventavano sempre più allargati e poi senza fine. Avevo poco più di 22 anni. Una sera a soldi finiti e recuperati un po’ ovunque, dopo grammi e grammi tirati su senza freno, non restava che una rapina. O almeno, la testa mi diceva così. Qualunque cosa guardavo riuscivo nella fan­tasia a trasformarla in danaro e di conse­guenza in coca, e così di notte tardi un tabaccaio è diventato la preda incolpevole di una mente annebbiata.

Sono entrato, ho chiesto i soldi e chissà in che stato ero perché subito gli avventori del locale mi hanno aggredito, e io che ero così sopra le righe e così in tensione da sussultare a ogni piccolo rumore, ho sparato. Mi sono chiesto tante volte, in questi quattro anni, se avrei sparato se non fossi stato pieno di coca. E oggi sono certo della mia risposta: no, non avrei sparato. Adesso la mia mente è libera dalla nebbia, ma ricordare come mi ero ridotto e i danni che ho fatto alle persone oltre che a me, ancora mi sgomenta. E allora leggo gli articoli di Lapo c company e li comprendo. Capisco tutto il loro disagio e l’augurio che faccio a loro è di un ritorno alla vita senza nebbia nella testa. Loro, inoltre, hanno la fortuna di poterci riuscire senza aver preso dicci anni di carcere e aver quasi ucciso un uomo.

 

 

Genitori e figli: Un’ora sola

 

di Giulio Oliva

 

Una settimana di attesa per un’ora di gioia. Si potrebbe riassumere così il trascorrere del tempo per me dentro il carcere, perché un’ora alla setti­mana è il tempo a mia disposizione con i miei due figli e mia moglie nella sala colloqui del carcere. Vivo aspettando il giorno fatidico, mi preparo come se dovessi andare a un matrimonio, riempio una borsa di dolci e dolcetti, un termos di caffè per mia moglie e coca cola e aranciata per i bam­bini. L’agente mi chiama, percorro i corridoi fino all’altra parte del carcere, dove poi attenderò un’altra lunghissima mezz’ora in una cella angu­sta che qui chiamano d’attesa. Finalmente l’ultimo pezzo di corridoio, la perqui­sizione e via per gli ultimi gradini, il fiato è ormai corto e il cuore mi batte forte.

Finalmente li vedo, la porta della sala si apre e i bambini mi si buttano addosso abbracciandomi, e subito sento il loro profumo, poi mia moglie, che si è tenuta in disparte fino a quel momento mi abbraccia anche lei, e allora il cuore si scioglie. Passano i minuti in un istante, tra un abbraccio, un bacino ai figli e una carezza alla moglie. Poche cose in realtà, ma sono quelle sensazioni che mi danno la forza e il coraggio di attendere un’altra settimana. Il loro profumo, le loro carezze, i loro baci me li porto via con me quando l’ora è finita e la porta ci separa nuovamente, le loro mani che mi salutano adesso dietro al vetro sono l’ultima immagine che porto sempre via. Ogni volta anda­re al colloquio è una gioia ma alla fine è sempre un dolore.

 

 

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