Il Filo di Arianna

 

Numero 12 - dicembre 2003

Il Filo di Arianna, periodico di attualità e cultura del carcere di Eboli

 

Quanto costano i tre pasti giornalieri di un detenuto?

Indultino kafkiano

Il mare e il carcere

Vito De Rosa: cinquant’anni di carcere!

Un dialogo strano

L’altra metà

Quanto costano i tre pasti giornalieri di un detenuto?

 

Tra tutte le forme di sfruttamento, la più odiosa è quella perpetrata ai danni di chi non ha alcun modo per difendersi.

 

A cura della Redazione

 

Se chiedessimo a cento cittadini liberi, con supplica di esagerare, quanto spende il Ministero della Giustizia per fornire i tre pasti quotidiani ad una persona detenuta, sicuramente tutti e cento risponderebbero - senza eccezioni - un costo quantomeno quadruplicato. E anche la gran parte dei detenuti si porrebbe su quella scia.

 

Un euro e quindici centesimi!

 

È questo ciò che il Ministero riconosce all’impresa che fornisce le materie prime per la confezione dei tre pasti giornalieri di un detenuto in Campania. Naturalmente noi immaginiamo che anche le imprese appaltatrici di altre Regioni non si discostano da questa cifra se non di qualche centesimo.

 

Un euro e quindici centesimi per colazione, pranzo e cena di un detenuto!

L’impresa appaltatrice partecipa ad una pubblica gara d’appalto… evidentemente al "massimo ribasso". Non conosciamo la normativa per le gare d’appalto nella pubblica amministrazione e tuttavia non è il "massimo ribasso" a meravigliarci, c’indigna e ferocemente il fatto che ciò accada sotto il controllo del Ministero della "Giustizia" e che una gara simile venga aggiudicata e convalidata.

Non è difficile evincere da questo fatto qual è il principio di realtà e persino la dirittura morale del Ministero della Giustizia. Penseremmo ad una svista, ad una defaillance burocratica se da questo non discendessero un paio di ripercussioni incredibili che vedono di nuovo protagonista il Ministero della Giustizia e l’impresa appaltatrice, in modo attivo e cosciente.

 

La prima conseguenza: poiché con un euro e quindici centesimi non si riesce verosimilmente a pagare neanche i più scadenti generi necessari a confezionare neppure uno dei tre pasti, si deve pensare che l’impresa appaltatrice lavora in perdita. Una cosa inconcepibile giacché in tal caso l’impresa dovrebbe fallire rapidamente. E invece non fallisce, anzi persiste a rinnovare la gara e ad aggiudicarsela ogni volta che bisogna farlo.

La seconda conseguenza: poiché con quei soldi non si può che fornire materie prime di pessima qualità e spesso anche quantità, i detenuti se vogliono "sbarcare il lunario" devono comprare a proprie spese dei generi alimentari integrativi.

 

Ma non hanno la libertà di scegliersi il negozio. Anche i generi di "sopravvitto" possono essere acquistati solo attraverso l’impresa che fornisce il "vitto", la quale si paga questo servizio praticando un sovrapprezzo autorizzato e ovviamente legittimo. Per questa via il prezzo fallimentare della gara si riequilibra forzatamente e dunque l’impresa porta in attivo il suo bilancio.

Non ci scandalizza che un’impresa commerciale ricorra a questi giochini, neppure quando si tratta del pane della pena: aggiudicarsi una gara d’appalto a condizioni tali da creare un sicuro bisogno sul quale mietere un profitto. C’indigna, e ferocemente, che questo sfruttamento della persona detenuta riscuota l’avvallo del Ministero della Giustizia!

 

La terza conseguenza: nonostante tutto ciò, a fine pena ogni persona che è stata detenuta riceve a casa il "conto" dal Ministero della Giustizia sotto la voce "mantenimento carcere".

 

Anche questa è una cosa che i cittadini non sanno e che quando l’apprendono risulta loro incredibile. Per stare in carcere bisogna pagare una quota giornaliera (per chi lavora durante la detenzione la trattenuta viene fatta alla fonte).

E non basta. La quota giornaliera pretesa dal Ministero della Giustizia da ogni ex detenuto per ogni giornata di detenzione, oggi, è di un euro e cinquanta centesimi.

Ci viene in mente un ritornello stantio che il ministro del tesoro ripete senza nausearsi in questi giorni di preparazione della Legge Finanziaria dello Stato: "Non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini".

Certo, noi siamo "cittadini detenuti" ma pur sempre cittadini.

Il Ministro del Tesoro non ci mette le mani in tasca (anche perché non ci troverebbe nulla); no, le infila fin nello stomaco!

Indultino kafkiano

di Gennaro Attanasio

 

In questi sette anni di detenzione, ho letto, ma ho sentito tanto parlare di grazia, indulto, indultino, misure alternative, reinserimento del reo nel mondo libero. Tutto quello di cui si è discusso è servito a riempire spazi di giornali, farci piovere addosso critiche e disappunti da ogni parte, mentre i nostri parlamentari si concedevano a interviste senza la minima preoccupazione di quanto stavano combinando.

Così ebbero inizio le prime proteste pacifiche. Iniziai al carcere di Poggioreale dove ero detenuto in attesa di giudizio. Le proteste consistevano nel rifiuto del vitto e la battitura delle stoviglie contro le inferriate al fine di richiamare l’attenzione del mondo esterno. Ma non solo. La nostra speranza (la mia e quella dei miei compagni di carcere) era anche quella di portare all’interno dell’Istituto persone che avrebbero portato testimonianze fuori sul modo in cui si viveva: con dei servizi igienici fatiscenti, dalle 18 alle 24 persone per stanza e di quanto mancava per rendere vivibile la nostra permanenza in quel posto. Si sperava tanto che uscisse qualcosa e che molti di noi avrebbero potuto lasciare quel posto ma ci si batteva per la vivibilità e per la dignità della persona. Ormai l’indulto era una cosa fatta e come poteva essere altrimenti: telegiornali, radio, tutti sintonizzati sulle stesse frequenze, non si parlava d’altro.

Non ci volle niente per spegnere quella nostra speranza poiché il testo presentato fu da subito accantonato. Io, dopo aver scontato due dei tredici anni di detenzione, venni tradotto nel carcere di Benevento. Anche qui si parlava di indulto, ma non ci furono scioperi. Restai a Benevento solo sei mesi per essere trasferito presso L’Istituto di Santa Maria Capua Vetere, dove sono rimasto per tre anni. In questo periodo di permanenza a Santa Maria (CE), mi trovai a scioperare ancora ripetutamente perché si iniziò a parlare in maniera insistente di clemenza, indulto, braccialetto elettronico da sperimentare e di tutto quello che poteva servire a noi detenuti per immergerci di nuovo in commenti che non lasciavano spazio a quel nostro stato di sofferenza che, fino al giorno prima, aveva diviso le nostre giornate; il che ci fece sentire molto vicini ad una conclusione.

Dalle interviste fatte, sia al mondo politico che ai cittadini (chissà perché il parere dei cittadini non viene richiesto quando si devono decidere nuove tasse o l’aumento degli stipendi dei parlamentari!), si capiva tutto il loro disappunto e il forte parere sfavorevole per qualsiasi atto di clemenza, sembravano tutti uniti sulla "certezza della pena".

Ci addormentavamo con l’idea che ciò andasse in porto e ci svegliavamo con la speranza che ciò accadesse, facendoci vivere di angoscia, di attesa, che aggiunti alle condizioni in cui ci trovavamo non faceva altro che alimentare il nostro stato di sofferenza.

Stavo in carcere da cinque anni e mezzo, non ero più giudicabile ma definitivo. Indulto si, indultino no, mi arresi di nuovo all’idea che potesse uscire qualcosa. Era il 27 luglio quando l’ufficio matricola mi chiamò per comunicarmi un nuovo trasfèrimento.

Questa volta ero destinato a Bellizzi Irpino (AV). Giunto a destinazione non trascorse nemmeno una settimana che iniziò un altro sciopero ad oltranza, sempre in modo pacifico con la battitura delle stoviglie contro le sbarre, solo in serata, e il rifiuto del vitto che l’Amministrazione continuava a darci. Si era ritornati a parlare della clemenza, dovuta anche alla visita che il Pontefice fece ai parlamentari, come cosa oramai imminente.

Da quello che si diceva tra noi, da quello che ci riferivano i nostri avvocati, si iniziava ad assaporare quell’aria che qualcuno di noi aveva già vissuto nel 1990 quando il vero indulto venne firmato dall’allora Presidente della Repubblica. Ma non passò un’altra settimana che tutto quello che fu detto venne di nuovo cestinato.

Avrei voluto rivolgermi a tutte quelle persone che non seppero contestare le parole del Papa. Venne applaudito, fino allo sbucciamento delle mani, quell’uomo Santo ad ogni parola che pronunciava. La speranza cresceva, si sentiva parlare con più frequenza di quell’indultino ma non si capiva ancora in che consisteva, chi ne avrebbe usufruito, i reati che sarebbero stati esclusi, l’importante era che se ne parlasse con la speranza che sarebbe stato fatto qualcosa ma di non prenderci in giro.

La mia situazione venne di nuovo sconvolta con l’ennesimo trasferimento. Questa volta la destinazione era Lauro di Nola.

Ormai non si scioperava più. La Camera aveva detto il primo sì all’indultino. Ora il testo passava al Senato. Si faceva festa, anche nell’insicurezza. La bidonata, per noi persone detenute, sarebbe arrivata da lì a poco.

Certo non ci deve essere molto gusto a bidonare chi non può neppure parlare! Dopo aver trascorso due mesi a Lauro (AV), venni di nuovo trasferito. Destinazione: Eboli, dove sono tutt’ora. Intanto il Senato aveva mandato il testo alla Camera per delle modifiche, cosa che si ripeteva più di una volta prima che divenisse legge.

Ci hanno logorato con le loro incertezze, con le loro preoccupazioni, le loro guerre intestine, i capricci, le illusioni, le esigenze propagandistiche, come raccogliere più consensi… Ci hanno fatto pesare più di quanto già ci pesasse l’essere detenuto. Io ritengo questa legge un gioco delle parti, di convenienze, accordi presi più o meno sottobanco.

Non è uscito quasi nessuno. I nostri problemi restano il sovraffollamento, l’invivibilità; la nostra dignità cercheremo di guadagnarcela. Senza l’attenzione di chi ha fatto finta di credere che si preoccupava e si preoccupa dei nostri problemi. In verità di noi tutti si occupano, nessuno si preoccupa. E naturalmente questo errore grave ricade o ricadrà sempre e comunque sulle spalle e la vita dei cittadini. Il bersaglio sembra essere il carcere ed il suo contenuto, ma così non è e tutti lo sappiamo bene (basta non dirlo e come tutti i problemi anche questo sparisce. Auguri).

Ho fatto quasi sette anni di carcere, mi restano da fare circa tre anni.

I miei reati sono tutti legati alla mia condizione di tossicodipendente.

Di indultino, neanche a parlarne! E pensare che la gente crede alle chiacchiere dei giornali e alla propaganda.

La gente non sa, invece, che dopo l’indultino - chi lo prende - la pena continua giacché non si tratta di un’amnistia odi un condono, sia pure limitati a certi reati.

No, "indultino" è "sospensione condizionale della pena", una misura alternativa al carcere dove la pena viene scandita dalla limitazione di movimento territoriale (gli "indultinati" possono muoversi solo nell’ambito del territorio comunale), dagli orari di rientro in casa e uscita da essa, ritiro di tutti i documenti validi per l’espatrio ed altre misure di pubblica sicurezza con tanto di controlli e verifiche da parte di polizia e carabinieri, servizi sociali… Si dica allora che l’indultino è stato null’altro che l’applicazione (peraltro in modo restrittivo) di una misura alternativa al carcere dove però la pena c’è e continua a scorrere.

C’è voluto tutto questo mare di chiacchiere vessatorie per partorire un topolino microscopico, peraltro praticabilissimo dal Tribunale di Sorveglianza senza il bisogno minimo di alcuna legge.

Lo schifo è grande e anche tanta è la pena, ma non per i detenuti che dentro la pena ci sono già con e senza l’indultino.

Il mare e il carcere

di Vittorio Caserta

 

Per un uomo nato e vissuto vicino al mare, come me, la sofferenza più grande stando in carcere è quella di vedere il mare… per televisione. È andata così per tre anni consecutivi. Per questo, l’estate in carcere è particolarmente difficile. Quest’anno si è anche messa l’alta temperatura, ma pure qualche speranza in più… Il permesso premio lo avevo chiesto indicando i primi giorni di agosto. L’idea era quella di fare qualche bagno in mare.

Quasi un sogno, come tanti altri. Poi l’attesa per la risposta del giudice. L’attesa. Mi sembra che tutta la mia vita sia trascorsa all’insegna dell’attesa. Ma stavolta non si trattava di un’attesa di routine. Era un’attesa particolare. Il caldo afoso di questa estate rendeva il mio "sogno" molto particolare e forse dava senso nuovo alla leopardiana attesa. Ed è arrivata anche la risposta: si autorizza il permesso per cinque giorni con decorrenza 13 agosto! I giorni, le ore, i minuti che mi separavano dal tredici agosto mi sembrarono subito di una lunghezza incredibile. Il tempo, il tempo. Il tempo del carcere, quello dei giudici, che valore avrà mai? Ma per me, per me il tempo si allunga e si accorcia in modo drammatico e/o esaltante a seconda delle circostanze. È lunghissimo quando si tratta di attendere che arrivi il giorno del permesso, diventa brevissimo quando in permesso ci sono già e devo rientrare in carcere alla scadenza. È difficile rappresentare qui la velocità del tempo che certo non è quella cronologica. Del resto, questo è quasi sempre vero per tutti.

Ma tant’è, io credo che il tempo recluso sia una cosa tutta particolare: in genere è un tempo dilatato, tutto scorre lento, disperatamente lento, si potrebbe dire che il tempo e l’angoscia in carcere si sposano! Pensieri, proiezioni, idee, desideri affollarono la mia mente in attesa del tredici agosto che alla fine… è arrivato! Sulla soglia è stato come volare, mi sembrava di camminare per aria senza riuscire a toccare terra. Anche il caldo, che fuori dalle mura del castello è più forte, non lo avvertivo più nonostante il bagno di sudore che mi accompagnò per tutto il viaggio verso casa. Questa volta non solo andavo a trovare i miei familiari, qualche amico, il vicino di casa col quale sono cresciuto insieme: non solo riprendevo in mano la mia vita e una piccola quota di libertà. No, stavolta ad attendermi c’era anche la mia Giusy, il cuore del mio cuore, la mia dolce e paziente compagna, con la quale condividere, finalmente, il canto della risacca del mare.

Già, il mare. Stavolta avrei potuto rispondere positivamente all’ancestrale e refrigerante richiamo. Infatti, l’emozione di riabbracciare liberamente i miei familiari mi era nota, anche se ogni volta si tratta di un’emozione nuova, sempre forte, sempre al centro di queste piccole "fughe" dal pietroso deserto carcerario. I primi momenti con loro anche stavolta sono stati quasi senza parole. Una singolare sensazione di piacere che non si lascia descrivere. Piccoli gesti accoglienti mi fecero capire per l’ennesima volta la bontà dei legami affettivi, la loro valenza nell’esistenza di una persona, la loro forza straordinaria. Su questo terreno aleggiò fino a concretizzarsi la presenza di Giusy, un legame particolarmente intenso, esclusivo. Con lei ho condiviso, finalmente, il mare.

Il bagno in mare, ma pure le passeggiate sulla spiaggia quando il sole si pone in verticale ed obbliga all’ennesimo tuffo refrigerante. Il tramonto, poi, visto dalla spiaggia, quando il sole si congeda dietro la montagna lasciandosi dietro l’alone di rosso, sembrava quasi la fine del mondo (o l’inizio?). Poi, a casa. Qualche amico, i parenti, la cena (finalmente una cena umana, a base di socialità, ma pure della squisita cucina casereccia).

Giusy doveva rientrare a casa la sera, ma sapevo che l’avrei rivista il mattino successivo, giusto il tempo per riposare. Anche il mio amico Achille mi sollecitava tutti i giorni ad andare a mettere il visto in caserma. Lui mi sollecitava sia perché sapeva che non dovevo dimenticarmi questa responsabilità, ma pure perché era un’occasione per andarci a prendere il caffè insieme. Poi le passeggiate per il Corso ed il Lungomare, tra la gente, le bancarelle, le vetrine… il mare sempre lì che sembrava chiamarmi. Cinque giorni volati via in un attimo.

A fare le cose più "banali", direi le più semplici e belle, quelle di cui si smarrisce il senso e l’importanza. Tutto, ora, proprio tutto, fuori dalla prigione riguadagnava senso e importanza. Negli ultimissimi giorni e ore, una punta di angoscia faceva capolino: era il pensiero di dover tornare al castello. Ossia, rinunciare a tutte quelle cose semplici e belle il cui valore avevo riscoperto. E mi veniva in mente una cosa che qualche operatore al castello ci ripeteva spesso: le scelte sono necessariamente anche rinuncia.

Questo mi consolava un po’, mi richiamava alla responsabilità, all’impegno verso me stesso e verso le persone che mi vogliono sicuramente bene. Tornare al carcere dopo cinque giorni così vissuti è un pò come camminare verso la bocca dentata di uno squalo per navigare poi nel buio della sua pancia. La "piccola morte" sferraglia al cancello d’ingresso. Nel cuore il tumulto frammentato delle mille "rinascite" appena vissute. Giusy, il mare, la mia famiglia, gli amici, tutto questo resta nella mia memoria e diventa la forza necessaria per navigare ancora nella… pancia della bestia. Nei prossimi giorni attingerò a questa riserva energetica, scavando a ritroso l’occasione di un sorriso, l’abbraccio di una persona amata, i colori di un tramonto, la lenta bava del mare alle caviglie… la mia stessa umanità.

Vito De Rosa: cinquant’anni di carcere!

di Gennaro Attanasio

 

Vista dal carcere, la storia di quest’uomo è una storia emblematica, sia pure tirata agli estremi: accanimento nei confronti di persone deboli e prive di ogni diritto.

Dopo aver appreso questa notizia non ho potuto fare altro che contestare a viva voce questa ingiusta Giustizia. Non conosco il passato di Vito De Rosa, né tantomeno i motivi che lo indussero all’epoca a commettere un reato di particolare gravità. Aveva appena 20 anni e chissà quanti obbiettivi da raggiungere. Probabilmente si è trattato di un momento di rabbia, come succede spesso verso i genitori.

Certo, sarà stato un momento di rabbia degenerato da non premiare, da sanzionare anche, ma la Misura, la Misura….

Parlo di Vito De Rosa perché da qualche giorno occupa le prime pagine dei quotidiani, i telegiornali non fanno altro che parlare di questa persona dimenticata per mezzo secolo in una prigione prima e in un manicomio giudiziario poi.

Noi riusciamo a guardare, e preoccuparci dei problemi di altri paesi, mettendo spesso i nostri in secondo piano. Se solo pensassimo che sono 400 le persone dimenticate negli OPG, un terzo dei 1200 che occupano i sei Ospedali Psichiatrici giudiziari! 400 persone dimenticate, oltre che dai familiari, dalle ASL e dalle Regioni di appartenenza che dovrebbero farsi carico della loro assistenza, dei loro interessi. Ma poi, qualcuno ci spiegherà mai a che servono gli OPG? Tornando al nostro recordman, che non è un mafioso, non è stato autore di stragi e tantomeno autore di delitti come quello del piccolo Matteo sciolto nell’acido, forse non è azzardato sostenere che era uno dei tanti "poveracci" che fino a tre giorni fa occupava una stanza nell’Ospedale Psichiatrico di Sant’Eframo, nel bel mezzo della metropoli cosmopolita napoletana!

A differenza dei mafiosi e degli stragisti, ha trascorso mezzo secolo in carcere! Una storia allucinante, il caso pietoso di quest’uomo che da più parti è stato definito un "sepolto vivo" ed io aggiungo: "uno dei tanti", uno di quelli che non contano. Il primo tentativo di fargli ottenere la grazia venne fatto nel 1997, ma senza esito. Passano cinque anni e la richiesta di grazia si ripete. Questa volta si sono accorti che De Rosa era… sepolto vivo da cinquant’anni!

Quest’uomo oggi è 76enne, di cui 34 trascorsi in un carcere ordinario e 17 in un manicomio giudiziario, e solo chi conosce la realtà dei nostri manicomi può comprendere la sofferenza patita da questa persona. Più si va avanti e più si comprende che nel nostro paese solo i "poveracci" scontano per intero la pena. Vito De Rosa ha fatto il suo ingresso in carcere nel 1951. Vent’anni prima entrava in vigore il cosiddetto codice Rocco. Giudicato con mentalità fascista? Non oso pensarlo ma è stato elaborato e approvato sotto il regime fascista, subendo una serie di modifiche volte ad eliminare gli aspetti di impronta antidemocratica, come abolire la pena di morte nel 1948.

Mi chiedo se in tutti questi anni Vito De Rosa non si sia chiesto che forse sarebbe stato meglio se la pena di morte non l’avessero abolita piuttosto che restare in carcere per mezzo secolo. Mezzo secolo di privazioni e non solo (!), per poi rimetterlo fuori dopo tanto tempo senza un riferimento… senza chiedersi come possa un uomo, vissuto per mezzo secolo in carcere ed al manicomio, ricostruirsi uno straccio di vita. Infatti, Vito non fa altro che chiedere quando tornano a Napoli i suoi familiari.

Sono due giorni che Vito sta fuori da uomo libero, sia pure in una casa famiglia.

Gli hanno fatto visita il sindaco ed i suoi familiari, ma perché aspettare mezzo secolo? Perché non si sono accorti prima di quest’uomo? Qualcuno assumerà mai la responsabilità di tanta violenza? E quanti altri Vito popolano ancora i famigerati manicomi giudiziari? Se è vero com’è vero che sono tanti, evidentemente non si tratta di "dimenticanza". Sarebbe meglio dire che si tratta di volontà precise, istituzionali e personali.

Un dialogo strano

di Bruno Pugliese

 

Cara madama eroina, mi decido a scrivere, dopo una lunga attesa, poiché anch’io voglio dire la mia su di te. La nostra disgraziata amicizia per me è finita nel disonore pubblico, poiché non mi piace trascorrere un lungo periodo in prigione per causa tua. Ma tuttora il tuo ricordo continua con insistenza a tenermi compagnia, soprattutto di notte; un misto di sofferenze, delusioni e quant’altro tu mi hai lasciato con la tua inaudita presenza. A volte, o quasi sempre, mi pongo la domanda senza risposta: i miei sogni, le cose belle alle quali miravo e miro si sarebbero avverate se non avessi fatto la disgraziata esperienza di incontrarti?

Adesso mi trovo ristretto in un carcere. Si dice che è meglio vivere con il rimorso di aver fatto qualcosa che con il rimpianto di non aver fatto nulla. Devo dire che avrei desiderato vivere con il rimpianto di non averti mai conosciuta piuttosto che far morire all’alba, con puntualità, tutti i miei sogni. Anche perché, in un periodo della mia vita non distante da adesso, nemmeno nei sogni desideravo una vita migliore.

Mi ricordo quando avevo 15 anni. Non mi mancava quasi niente, avevo tutto quello che desideravo. Non risponde a verità sostenere che a quella età ero un ragazzino che non voleva crescere perché nei quartieri malfamati dove ho vissuto la mia infanzia, oppure il mio disagio adolescenziale, due sono le cose che possono accadere: o impari a crescere presto, oppure c’è chi ci pensa a darti lezioni di vita senza andare per il sottile. Di questa "lezione" in genere si fa tesoro, anche se con il tempo tutto si ripercuote contro lasciandoti immerso in dubbi e domande senza risposte. L’unica cosa certa è quella che guardandomi allo specchio mi vedo adulto fuori, ma ragazzino dentro, con il rimorso di non aver vissuto l’infanzia, come la maggior parte dei miei coetanei.

Proprio perché ho fatto la tua conoscenza, per giunta troppo presto. Ora, non voglio molto dalla vita e niente pretendo, perché quello che ho costruito l’ho distrutto con il mio modo di essere. Ora mi sento un ragazzo fatto di poche cose semplici, una giornata di sole oppure il buon giorno della mia donna e un sorriso. Me ne pento di non aver capito prima che la vita era fatta di tanti splendidi colori e di piccoli gesti, dove io per molto tempo vedevo solo nero.

L’ho capito tardi che quel velo nero sfigurava sul mio volto: quando qualcuno ha voluto darmi qualche consiglio non ho mai voluto accettarlo, sicuro di accorgermene da solo… Prima pensavo (e penso tutt’ora) che la vita non ha prezzo ed io non facevo saldi, ma all’improvviso volevo dare quel tocco di "classe" alla mia giovane età. Ed è stato così che sei arrivata tu, colei che "illuminava" il mio cuore. In realtà bruciava il cuore e l’anima e la vita intera, e le tante persone care che speravano in un mio ritorno alla lucidità.

Ora vorrei sapere tanto una cosa: ma che aspetti, forse il mio ritorno in strada? Sarà dura perché non mi lascerò ingannare di nuovo! Forse non sarò credibile, ma questa ennesima "lezione" che la vita mi ha regalato può rivelarsi utile a rafforzare il mio convincimento che questa battaglia voglio vincerla, e dunque penso e spero in un futuro più limpido e sereno, via, via, via da queste sponde.

L’altra metà

di Gigi Trani

 

Salve, mi chiamo Gigi e sono uno dei circa 58.000 cittadini reclusi delle patrie galere dello Stato italiano e mi accingo a esprimere per iscritto un racconto frutto delle mie esperienze di vita. La decisione di scrivere è il resoconto di un meditare sulle conseguenze delle difficoltà dell’esistenza.

Come prima cosa voglio chiarire che non sono molto bravo in questo ruolo di scrittore, ma comunque, la voglia di esternare dei concetti anche in disaccordo con molte persone è il motore portante della mia determinazione nello scrivere. Quello che sto per spiegare è il risultato della mia vita vissuta ai margini della società in accordo con molte persone che si immedesimano con ciò che scrivo. Essendo una persona di quarantuno anni, una delle cose che ha devastato il mio equilibrio psicofisico, è ovviamente il rapporto interiore con l’altra metà. Qualcuno certamente si chiederà a cosa io mi possa riferire con questa parola, ma in effetti, intendo centrare il discorso su tutto quello che esisteva ed esiste intorno a me.

La mia storia inizia con un’infanzia difficilissima, all’età di sei anni entrai in collegio con mio fratello Peppe, due anni più grande di me, perché mia madre essendo troppo impegnata nel lavoro in una bottega di alimentari maturò la decisione di mandarci in collegio. Ricordo perfettamente che a questa notizia io rimasi molto male e pretesi che mio fratello, che era la mia metà in tutto – nei giochi, nei divertimenti, nel guardare la TV e spalla di sicurezza fondamentale proprio in virtù dei due anni maggiori d’età – avrebbe dovuto recarsi insieme a me. Cosa che puntualmente accadde.

Il luogo dove io dovevo risiedere era situato a Bonea, alle falde del monte Faito, ed era uno stabile della curia vescovile dove mia zia esercitava un’influente presenza perché madre superiora. L’altra metà, cioè mio fratello, rimase con me in collegio per circa quattro anni, ma un giorno Peppe non ritornò più ad essere la mia metà perché rimase a Ischia, mia città natale. Rimase con i miei genitori perché aveva finito le scuole elementari ed io ancora dovevo continuare gli studi. Inevitabilmente mi ritrovai nel dolore e nella solitudine della sua mancanza, circostanza che mi determinò un forte cambio caratteriale.

Infatti, l’assenza di Peppe fu la base di una sofferenza immane di cui ancora oggi porto le cicatrici di questo passaggio di vita.

Una durezza di relazione iniziò a prendere forma nelle azioni quotidiane. Un’impossibilità di cercare un punto di incontro con tutti i miei coetanei. Sparì tutta quella tranquillità e serenità adolescenziale fatta di cose piccole, ma maestosamente importanti. Questo passaggio determinò uno stato d’animo particolare che esaurì tutta una serie di circostanze che servono ad una crescita normale vista la mia giovane età. L’abbandono dei miei familiari divenne il chiodo fisso che lentamente forzava i meandri della mente, quasi un incessante tarlo che rodeva il mio cervello. Chiaramente con il passare del tempo ebbi tutte le spiegazioni in merito rispetto al comportamento di mio fratello.

L’età adolescenziale ed il non comprendere realmente le cose provocò un’ostilità in continuo conflitto con tutti questi meccanismi. Nelle notti insonni girovagavo per i corridoi del collegio e mi affacciavo alle finestre con un unico obbiettivo visivo, infatti un’inserviente mi aveva spiegato che davanti a me esisteva la mia terra: Ischia. Nelle notti una serie di luci localizzavano le abitazioni dei miei compaesani ed io tramite quelle luci, nella mia mente vedevo il quartiere da dove provenivo. Il pensiero s’allungava oltre le possibilità reali: in quel posto tanto amato e sognato sentivo l’ingombro della persona familiare della mia metà. Un fratello desiderato e molto caro. Per un isolano è difficile lasciare la propria terra perché legato da un cordone ombelicale infinito. Dovunque tu vai, ti mancano i gabbiani e i sapori quotidiani del luogo nato, ed io che sono stato diversi anni all’estero, Olanda e Germania, posso confermare che realmente è difficile fare ameno dei posti dove sei nato.

Dopo due anni di solitudine arrivò il giorno tanto desiderato: il ritorno alle mie origini, alla mia cultura, alla mia casa, al mio quartiere della mia isola. Gli studi furono continuati con l’iscrizione alle scuole medie con un impatto sempre vissuto tra la solitudine di un rapporto adolescenziale interrotto con i miei coetanei dall’abbandono forzato per andare in collegio. Man mano riflettevo con me stesso nell’interazione con i miei cari, i miei genitori ed i miei fratelli. Giorno dopo giorno notavo che qualcosa mi mancava. La mia infanzia era stata assente materialmente in quei luoghi così cari alla mia persona. L’altra metà di un ragazzo di 12 anni era fuggita via nello spazio e nel tempo. Vivevo continui litigi e rimproveri mentre avevo bisogno di affetto, di una carezza, di un bacio e di tanta tenerezza per incoraggiarmi del bene che i miei familiari mi volevano. Sicuramente era proprio da queste piccole cose ed in virtù della mia età che io delineavo un senso di complicità e di sentimento con i miei cari.

Con tenerezza oggi ho saputo che mia madre spesso ci veniva a salutare nel sonno, un bacino sul pancino era il gesto che comunicava eterno amore di madre. Sembra strano ma queste situazioni sono emerse col passare del tempo ed ancora non riesco a capire perché. La differenza generazionale probabilmente è alla base di questi fatti stranissimi! Questi atteggiamenti sono stati trasmessi a noi figli, ma principalmente io sono quello che ho assimilato di più i contenuti dei messaggi da lei dettati. Questa situazione è stata tanto scottante che ancora porto dentro dei vuoti e dei limiti. Ancora mi risulta difficile comunicare l’amore che provo ai genitori e rispetto a mia figlia. Questo rapporto con i familiari è con certezza l’altra metà di sofferenza che porto dentro.

Dopo la licenza media ho avuto, fino all’età di 20 anni, momenti bellissimi e non, tutti conquistati da solo, come per esempio l’esperienza drammatica della prigione, della droga e conseguenti stati di tristezza. Lavoravo in estate nei ristoranti dei miei parenti e tutto si svolgeva nella normalità esteriore della mia persona, con tutti i lati negativi che comportava la mia condizione, anche se per uno psicologo sicuramente e giustamente la mia vita non è stata tanto normale. Con questo non mi dilungo a raccontare i miei 20 anni di tossicodipendenza, ci vorrebbe più di un volume.

Un bel giorno venne il momento del matrimonio e mi sposai con mia moglie Tina. Così nacque mia figlia Lidia, che oggi ha quasi 15 anni. Dopo la sua nascita caddi nuovamente, dopo un breve periodo di pausa, nel tunnel dell’eroina; stavo male, non riuscivo più a uscirne fuori. Un giorno i medici mi dissero che avrei lasciato mia moglie vedova e mia figlia orfana, e chiaramente sarebbe stato bruttissimo non riuscire a comparire con una figura di aiuto nei loro confronti. Come smettevo ricominciavo a vivere nello squallore della droga. Molte volte nei momenti di lucidità vedevo da lontano mia figlia e mia moglie e nei loro occhi trapelava l’assenza della felicità e pensavo al perché di tanta sofferenza arrecata. In questa situazione era la mia metà che soffriva perché mai e poi mai avrei voluto che le mia due donne, mia moglie e mia figlia, avrebbero dovuto soffrire.

Col passare del tempo capitò che mia moglie entrò in uno stato di totale depressione: medici, medicine, erano diventati il senso di vita per evitare di pensare alle sofferenze. Vedere l’altra metà in quello stato alimentava la mia totale impotenza, non riuscivo più a starle vicino e darle una carezza, così mi sentivo sempre più male. Finché un giorno mi arrestarono per problemi legati al consumo di droga: quella notte vidi le mie due donne con gli occhi in lacrime, ed io, per non dimostrare la tenerezza con una carezza, risposi verso di loro con uno scatto d’ira mentre mi portarono via. Mia figlia non si è mai dimenticata di quella notte.

Ritornando al periodo di quando mi sposai, mio padre, con cui mai sono riuscito a costruire un rapporto di amicizia, mi è stato sempre vicino in ogni momento triste con aiuti concreti. Ricordo un suo detto che esternò una volta quando gli dissi che volevo sposarmi: "Ah, bravo, vuoi sposarti". Non si pose il problema di non avere un lavoro fisso, ma disse: "Lo sai che una moglie è mezzo pane". E questa è stata l’altra metà della mia vita che mi ha fatto soffrire tanto… Quando una persona come me entra in carcere la prima cosa che avverte è la mancanza di libertà, ma quello che ti fa soffrire ancora di più è la mancanza della propria donna amata. Vivere insieme alla mia metà di felicità, amore, incertezze e di passione è un dolore immane quando ti accorgi che non c’è più e stando chiusi in una cella tutto diventa distorto. Ti chiedi: "Cosa starà pensando, mi starà rispettando, mi vorrà bene come io gliene voglio?". Poi succede che sta male fisicamente, non la senti, non ti scrive e così quella tua metà tanto desiderata e tanto amata ti fa soffrire.

Non sono tanto i figli, perché per loro sarai sempre il padre sia nel bene che nel male, ma un amore può anche finire e per chi ama significa soffrire. Una parte di te vola via, un pensiero che travolge la tua metà di persona, uomo o donna che sia. Oggi sono ancora recluso, ma dopo cinque lunghi anni uscirò tra qualche mese, sperando che la determinazione e l’esperienza acquisita di uomo continuerà ad essere quella forte, sorridendo e comprendendo i miei sentimenti così da non perderli mai più!

Anche se ci sarà sempre quella metà che mi farà soffrire, questa è l’altra metà.

 

 

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