L'Opinione delle carceri

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

L’Opinione on line, 21 settembre 2004

 

In Italia l’unica rieducazione è il pentitismo

L’aggravante dell’innocenza, di Mauro Mellini

Finalmente scarcerato il boss mafioso malato terminale

De profundis, voci da dietro le sbarre

In Italia l’unica rieducazione è il pentitismo

 

Puntare tutto sull’articolo 41 bis o sui suoi "parenti stretti", come l’elevato indice di vigilanza, significa una sola cosa: volere fare della detenzione dura uno strumento di pressione per indurre i detenuti a pentirsi. Anche quelli che non avendo nulla da offrire al mercato della "collaborazione spontanea" finiscono per inventarsi qualcosa pur di soddisfare il committente: cioè la magistratura e le strutture investigative antimafia. La storia del mafioso malato terminale di cancro e quella del pentito trasferito per punizione sono solo due esempi emblematici di come funziona la burocrazia delle galere.

 

L’aggravante dell’innocenza, di Mauro Mellini

 

"Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato". Così è scritto nell’art. 27 comma 3 della Costituzione. Detta così, sembra ottima cosa: un intendimento assolutamente civile, il corollario naturale della proposizione che precede: "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". In applicazione di tale principio, il codice penale e la legge penitenziaria prevedono sconti e benefici di pena per chi, con la sua buona condotta, dimostri di essere, oramai, persona diversa dal "cattivo", come tale condannato.

Ma, qualunque buona legge può essere stravolta e divenire, se non motivo, pretesto di persecuzione se è interpretata in modo distorto, se l’interprete è privo del lume dell’intelligenza, se spira un’aria e si diffonde una cultura che spingono alla distorsione. Che succede, dunque, se il condannato, il detenuto che sconta la pena è innocente? La ragione direbbe che, non avendo bisogno di essere "rieducato" non ci sia, per ciò solo, motivo di sottoporlo ancora alla pena. Ma, molti tribunali di sorveglianza sembra siano convinti dell’esatto contrario.

Se il detenuto insiste nel dichiararsi innocente, col suo "fastidioso" comportamento esclude il presupposto stesso della "rieducazione", nega di doversi e potersi rieducare. Se, dunque, ad esempio, chiede la liberazione condizionale, resti in galera ad imparare, anzitutto, che "deve" rieducarsi. Non è una barzelletta di cattivo gusto, è quanto hanno scritto e scrivono dei magistrati. Il vento del "pentitismo" si è fatto sentire anche per quel che riguarda l’esecuzione delle pene (a parte il 41 bis). Chi non si pente non è rieducato. Se non si pente perché è innocente e non ha delitti (propri e altrui) da raccontare è un maleducato impudente. Ed è anche pericoloso.

Giuseppe Renna, detenuto a Cuneo in regime di 41 bis perché accusato da pentiti di essere un capomandamento di Cosa nostra, dice al suo difensore: "Che io sia innocente lo sa chi lo deve sapere, per questo vanno da tutti a cercare di convincerli a ‘pentirsi’: da me non ci sono mai venuti perché sanno bene che non ho nulla da raccontare". E, tuttavia, rimane da anni (è in attesa della Cassazione) "sotto 41 bis". Così le buone leggi diventano l’anticamera della tortura. Anzi, la giustificazione della tortura: perché il detenuto si riconosca (e riconosca gli altri) colpevole e possa così "rieducarsi", pentirsi. Come vuole la Costituzione!

 

Finalmente scarcerato il boss mafioso malato terminale

 

Venerdì 17, quando l’appuntato della matricola ha comunicato a Salvatore Bottaro che era arrivato l’ordine di scarcerazione deve aver pensato che in fondo non era un giorno così iellato. Gli arresti domiciliari da tempo richiesti e sempre negati erano stati concessi e anche Salvatore Bottaro, 46 anni, condannato in via definitiva all’ergastolo per reati di mafia, poteva tornarsene a casa. La sua vicenda era iniziata con alcune tac e le endoscopie molto tempo prima ma aveva visto un repentino cambiamento un mese fa, quando era stato trasferito d’urgenza dal super carcere di Novara al centro clinico del carcere di Pisa.

Da tempo le sue condizioni di salute erano peggiorate ma negli ultimi mesi la situazione clinica non lasciava più dubbi: cancro in fase terminale al pancreas con interessamento anche del fondo dello stomaco, dell’esofago e del retroperitoneo tanto che la chemioterapia sarebbe stata solo un palliativo. La diagnosi chiara ed impietosa era stata inviata dai medici di Pisa e dal Direttore sanitario Francesco Geraudo con tre relazioni diverse ai magistrati competenti rilevando l’assoluta incompatibilità delle condizioni sanitarie del detenuto con qualsiasi struttura penitenziaria, anche quella dell’efficiente centro clinico.

A Salvatore Bottaro restano pochi mesi di vita e i medici non possono fare altro che constatare la gravità del caso. Nonostante il referto medico e la scarcerazione del magistrato di sorveglianza di Torino competente, le richieste di arresti domiciliari presentate dal legale del detenuto erano state respinte dal Gip della sezione feriale di Catania che riteneva necessaria una biopsia come ulteriore prova del cancro. I familiari Di Salvatore Bottaro si sono rivolti ai radicali e a Sergio D’Elia segretario dell’associazione Nessuno tocchi Caino che ha denunciato il caso con un comunicato alle agenzie di stampa ripreso da un trafiletto del Giornale di Sicilia e da un articolo sull’Opinione delle Libertà.

Nessuno dei grandi quotidiani, così impegnati in battaglie garantiste per alcuni detenuti, ha ritenuto di dover rendere nota la storia di un siciliano in fin di vita. Di questo atteggiamento razzista che potremmo inquadrare senza esagerare in un prolungamento della questione meridionale vi è in atto una vera e propria censura. A dare la notizia degli arresti domiciliari ordinati dal Gip titolare Antonio Fallone è stato sempre Sergio D’Elia che ha così commentato: "È un atto giusto e umanamente rilevante che mette fine ad un accanimento che non so se sia più diagnostico o giudiziario. In ogni caso è inaccettabile che dal carcere duro si possa uscire solo da morti o da collaboranti".

Ricordiamo che l’Unione Europea a marzo di quest’anno ha approvato la raccomandazione sui diritti dei detenuti nell’UE che, pur non essendo vincolante per i singoli stati, dà delle indicazioni precise sul senso di umanità e di rispetto della dignità di ogni detenuto. Restano le leggi nazionali a dettare le norme per gli stati membri in materia di privazione della libertà. Ma anche la Corte europea dei diritti dell’uomo che, per quanto riguarda il nostro paese, ha avuto molto lavoro. Infatti l’Italia nei paesi dell’Unione è tra quelli che ha ricevuto più sanzioni.

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

Il pentito che il sistema non vuole più recuperare. Tommaso Biamonte, Sezione collaboratori, C.C. Busto Arsizio Varese

 

In piena autonomia e responsabilità, nell’assoluta discrezionalità e rispetto formale del ruolo che le è stato conferito presso l’ufficio trasferimenti collaboratori di giustizia del Dap, ha deciso il mio trasferimento presso la sezione collaboratori di Busto Arsizio.

Noto - come a tutti i collaboratori di giustizia di fascia B- che ella risponde generalmente alle domande che sono inoltrate nel suo ufficio, mi permetto di domandarle: in virtù di quale principio di giustizia è stato deciso questo trasferimento in una sezione di 400 metri quadrati ad un detenuto in carcere da 24 anni, che sta scontando la condanna della mente, ossia il carcere a vita?

La stessa domanda mi permetto di porla alle autorità che riceveranno questa lettera e alle associazioni e privati cittadini attenti e non alle problematiche carcerarie, che mi onorano della loro fiducia.

Sfido chiunque, anche chi ha inoltrato nel suo ufficio la nota riservata che ha provocato quanto segue, a dimostrare che dal giorno in cui giunsi nella sezione collaboratori del carcere d’Ivrea, ormai cinque anni fa, non abbia mai agito scorrettamente, oppure non rispettata nella forma e nella sostanza l’Op o la legge dello Stato italiano.

Sono rinchiuso in queste sezioni da quasi 20 anni e quando giunsi ad Ivrea (come ben sanno molti di quelli che leggeranno queste righe), trovai la stessa situazione d’apatia e d’abbrutimento che generalmente caratterizza la quasi totalità delle sezioni collaboratori che non hanno nulla di concreto da dare alla legge, compresa quella da dove sto scrivendo. Volendo salvaguardare la mia dignità d’uomo, di essere umano, insieme con un manipolo di detenuti, d’agenti penitenziari, di volontari, dell’allora direzione e di qualche operatore dell’area trattamentale (le dott.sse Lenzetti e De Matteo - psicologhe), incominciammo un faticoso ed a volte umiliante lavoro per dare dignità a quel posto, ai detenuti che in esso erano rinchiusi ed agli stessi operatori che in esso lavoravano.

Per mia iniziativa nacque il periodico "L’Alba" che ancora esiste e che ricevette la simpatia dell’allora direttore generale del Dap, dottor Caselli; e nacque la cooperativa sociale di produzione "Il Gabbiano" che non si sosteneva delle sovvenzioni, bensì del lavoro di noi detenuti (cooperativa dalla quale sarò escluso a causa di questo trasferimento). Volendo vivere attivamente la dialettica della gestione, oltre che produttiva della cooperativa, persi parte delle simpatie di cui godevo, nettamente nell’area trattamentale dell’istituto che considerava e forse considera il detenuto solo come un’estensione della macchina con la quale lavora… "se non vuole tornare a lavare i pavimenti come scopino".

Preso atto di questo fatto che consideravo e considero tutt’ora lesivo della mia dignità d’uomo e di detenuto detentore di diritti, oltre che rispettoso dei doveri, oltre che in nettissimo contrasto con l’art. 27 della Costituzione italiana, inoltrai al Dap la domanda di trasferimento per la sezione collaboratori di Torino, credo chiaramente motivata. Uno dei motivi che esposi fu di poter frequentare l’università, ricevendo quell’aiuto didattico necessario che l’anno precedente il dottor Buffa, in occasione del II premio letterario nazionale per detenuti che mi fu riconosciuto, mi aveva promesso alla presenza dell’ex ministro della Giustizia prof. Conso.

Durante l’attesa di una risposta, un’ecografia ed una biopsia, effettuate presso l’ospedale civile d’Ivrea mi diagnosticò un tumore. La dirigenza sanitaria d’Ivrea, per incompetenza, per faciloneria o non so per cos’altro, "in conclave" ed alla presenza del coordinatore della sezione (ispettore Conforti), mi comunicò che quella forma tumorale era statisticamente maligna al 50% dei casi, e che stavano operando d’urgenza per farmi trasportare presso il reparto detenuti dell’ospedale Le Molinette di Torino. Mi sembrava la scelta più logica, oltre che la più umana, avendo solo in Piemonte quel supporto umano, morale, affettivo e psicologico (cosa dimostrabile dalle richieste di colloquio inoltrate in seguito alla direzione delle Vallette), essenziale ad affrontare una patologia che può portare alla morte.

Contrariamente alla logica ed all’umanità, una mattina fui invitato dall’agente di servizio a preparare le mie cose che dovevo essere trasferito presso il Cdt di Napoli Secondigliano (vedi nota riservata di cui accennavo in precedenza). Rifiutai per i motivi poc’anzi esposti, inoltrando immediatamente al Dap un fax con le motivazioni che mi spingevano ad opporre quel rifiuto. La settimana successiva giunse l’ordine di traduzione coattiva con questa dicitura: "Il detenuto può rifiutare le cure, non il trasferimento" (io non avevo mai rifiutato le cure), imposizione alla quale mi sottoposi senza opporre alcuna forma di resistenza.

Per chi non è mai stato fisicamente nel Cdt per collaboratori di Secondigliano o per "il Gallinaio" di Opera (cosi lo chiamiamo noi collaboratori inutili), non può comprendere cos’è l’anticamera dell’inferno, io la visita l’ho subita e so che tanti continuano a subirla. Il fatto di avere il coraggio o la stupidità di denunciarla mi rende colpevole di tremende punizioni? Ed allora significa che è questa la punizione che Dio ha voluto riservarmi per tutto il male che ho commesso e Lei o il suo ufficio ne è lo strumento….anche questo è nell’ordine delle cose possibili.

Ero stato mandato in un luogo dove medici ed infermieri scioperavano perché non avevano le medicine di base per curare malati gravi molto più di me, che allora pensavo d’avere 50% di probabilità di restare in vita. Provi ad immaginare dottoressa Procaccino cosa può provare un essere umano nelle mie condizioni davanti ad una tale assurda condizione, che legge sul giornale che il killer della camorra, ergastolano era uscito in sospensione pena per curarsi nella propria villa con la chemioterapia.

Che noi collaboratori di giustizia siamo una razza maledetta, nel Paese dove si insegna ai bambini delle elementari a non fare le spie, è ormai cosa talmente nota che mi sembra puerile ripeterlo, ma privarci anche di quel briciolo di dignità che ci è rimasta non crederò mai che è risorsa di una delle culle della civiltà occidentale qual’è il nostro Paese. Spesi ogni energia che avevo per sensibilizzare il Dap, anche in virtù di credito di fiducia di cui godevo e credo di godere per essere trasferito a Torino.

Dopo 30 giorni di permanenza presso il centro clinico di Sconsigliano, fui portato all’ospedale Cardarelli di Napoli dove una visita superficiale di 5 minuti confermò la diagnosi fatta dalla dirigenza sanitaria d’Ivrea, 44 giorni dopo giunse l’ordine di trasferimento per Torino Le Vallette, sezione collaboratori. Fui portato all’ospedale Le Molinette dove in soli 23 giorni d’analisi vere e visite vere, mi fu diagnosticata una lieve fauna tumorale benigna da monitorare periodicamente e niente di più.

Ritornato alle Vallette, anche in virtù dell’antica domanda di trasferimento inoltrata al Dap ho atteso la decisione del suo ufficio - pur sentendo ed esprimendo a tante delle persone e personalità che riceveranno queste lettere forti dubbi sull’accettazione della mia assegnazione presso il carcere delle Vallette di Torino, nonostante non ci fossero difficoltà a livello locale. Pensavo piuttosto che sarei stato rimandato ad Ivrea dove almeno essendo socio di una cooperativa, potevo impegnare il mio tempo, guadagnarmi da vivere dignitosamente e scontare la mia pena.

Stoicamente fiducioso sulla natura profondamente buona della natura umana, mi iscrissi presso la facoltà di scienze politiche dell’università di Torino, e invece: Con una sola decisione sono stato privato del diritto di socio e dell’unica fonte di reddito, sono stato allontanato da quasi tutte le persone che da anni mi seguono nella mia ricostruzione morale e sociale, e dell’essenziale aiuto didattico per proseguire gli studi universitari e: sono stato provato dello spazio fisico che cercavo da vent’anni e che sono alle Vallette esiste per un collaboratore di giustizia di fascia B, men che meno in questo luogo dove siamo in 13 in uno spazio che un impiegato farebbe fatica ad arredare come appartamento familiare.

Mi dica, dott.sa Procaccini, ditemi signore e signori: dov’è la giustizia in tutto questo? Dov’è l’umanità? Dov’è il rispetto della Costituzione italiana? Se nessuno di voi sa darmi la risposta, me la do da solo; è nel mio cuore. Ed è per questo che posso subire tutte le ingiustizie di cui sono e potrò essere vittima. So bene che questo mio scritto non cambierà la mia condizione, ma conosco molti di voi, autorità e non, e so che non andrete a dormire sereni conoscendo quello che sto ingiustamente subendo; ed io sarò saldo, civile ed umano, anche nelle peggiori sofferenze, sapendovi complici di coloro che lentamente e "civilmente" mi stanno uccidendo. Mi dichiaro colpevole di ricatto morale, condannandomi da solo ad una morte lenta. Vi ringrazio per 1’attenzione. Mi perdonino i tanti di voi che so continueranno ad amarmi ma non ho altro che le parole (visto che le azioni non servono) per difendere la mia dignità di essere umano calpestata.

 

 

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