L'Opinione delle carceri

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

L’Opinione on line, 29 luglio 2004

 

Grazie per la vostra iniziativa

Ho paura di finire suicidato

Carcere e garanzie

Pentitismo come rieducazione

Ma che colpa abbiamo noi?

Grazie per la vostra iniziativa

 

Gentili redattori de "L’opinione", abbiamo sentito a "Radio carcere", trasmissione di Radio Radicale, della vostra iniziativa di pubblicare un inserto sui problemi del carcere. Fondamentalmente crediamo che il dettame costituzionale (art. 27): "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" sia gravemente disatteso. Gli educatori penitenziari sono insufficienti a coprire la popolazione carceraria, col risultato di tradire completamente il senso dell’appellativo "educatore". La rieducazione rimane nei fatti solo un bel proposito e così si spiega l’altissimo numero di detenuti, la recidività cronica.

Il mondo del lavoro dovrebbe aprirsi al carcere e viceversa. Il cittadino-detenuto che passa a far niente tutto il giorno potrebbe imparare un mestiere e guadagnare qualche soldo, fatti salvi i diritti di ogni lavoratore, assemblando pezzi o confezionando camicie; per esempio grazie alle nuove tecniche di telecomunicazione potrebbero essere trasmessi programmi di studio, chi vuole studiare psicologia segue il suo corso in Tv, chi vuole laurearsi in legge, può scegliere il canale telematico appropriato.

Rieducando, spenderemmo di più da un lato, ma risparmieremmo alla società una grande probabilità di reiterazione del crimine. Crediamo sia poi opportuno pensare anche agli handicappati, quelli costretti in sedia a rotelle, che trovandosi in una situazione difforme dalle leggi in materia di barriere architettoniche si trovano di fatto a scontare una doppia pena, quando potrebbero scontare la detenzione agli arresti domiciliari. Noi pensiamo ad un carcere come Rebibbia che ospita diversi casi di persone in sedie a rotelle con servizi igienici inidonei, impossibilità di andare all’aria.

Il magistrato, quando si osa obiettare a questo scandalo (in greco skandalon vuol dire inciampo) risponde che il detenuto handicappato può andare a Bari o a Parma, dove ci sono carceri con barriere architettoniche "abbassate". Ma perché venire deportati a quattrocento chilometri dalla propria famiglia per una carenza delle strutture? Pensiamo eventualmente ad una sorveglianza "continuata", all’abitazione del sorvegliato. I detenuti handicappati, quelli in sedia a rotelle non sono molti, come i bambini detenuti. Non si può provvedere, con una legge mirata, a sanare queste ferite aperte del sistema giudiziario italiano?

Altro problema sono i magistrati di sorveglianza. Il loro numero è insufficiente. Basti pensare a quelli di Roma, che seguono tutto il Lazio. I magistrati sono cinque e seguono a Roma circa mille cittadini-detenuti. E’ così difficile aumentare il numero dei magistrati di sorveglianza? E’ una spesa troppo forte per lo Stato? Crediamo sia il caso di istituire inoltre la figura del "Garante delle carceri", figura istituzionale che fisicamente, attenzione sottolineiamo fisicamente, entra nelle carceri, nelle celle, per accertarsi delle cose che non vanno. Quelli nominati dal Comune, come a Roma, o dalla Regione non hanno questo potere.

Noi vorremmo che le carceri diventassero "trasparenti", e che il detenuto sia un cittadino-detenuto. Privato della libertà, pena gravissima, ma libero di usufruire di tutti gli altri diritti come un normale cittadino, fatti salvi, lo ripetiamo per l’ennesima volta, i requisiti di tutela della collettività. Vi ringraziamo per la vostra iniziativa. Che siano i segni di un prossimo rinascimento italiano

 

Andrea Insabato, Mario Torrenti, Massimiliano Spizzichino, detenuti a Rebibbia Nuovo Complesso

 

Ho paura di finire suicidato

 

Mi chiamo Raffaele, ho 30 anni ormai da 10 Hiv positivo e dal 1999 ammalato di A.I.D.S., con varie patologie correlate e con una deficienza immunitaria pari solo a 30 CDG. Sono stato trasferito, da più di un anno, da Sondrio (dove risiedo) a Opera per cure mediche; mi aspettavo quindi di andare al Centro Clinico dove ero stato destinato, ma invece sono stato ubicato in un padiglione "normale", incontrando varie problematiche quotidiane senza contare i vari abusi subiti da una vice direttrice che - incurante dei miei problemi - continua a escludermi da tutte le attività in comune e mettendomi sempre in isolamento, cosa non più prevista dall’Ordinamento Penitenziario.

Per isolamento qui a Opera si intende: senza vestiario, senza la biancheria personale, senza nemmeno la possibilità di scaldarsi una tazza di latte, perché non ti lasciano il fornellino. Dal padiglione "normale" sono stato trasferito alla sezione attenuata, ma sempre in cella di isolamento, senza potermi confrontare con altri reclusi, nemmeno per scambiare una parola, senza mai poter uscire dalla cella se non per andare ai colloqui con i miei familiari. All’inizio ho provato a farmi sentire, a spiegare che non è umano un trattamento di questo tipo, soprattutto nelle mie condizioni, ma poi dopo ripetute minacce del tipo…"quelli come te prima o poi li trovano appesi a una corda…" mi sono chiuso in me stesso.

Inutili le mie richieste di parlare con il Direttore - interessato solo di fare bella figura con la stampa quando ci sono le partite di calcio - incurante degli abusi e dell’indifferenza della Direttrice-Dittatore, di alcuni agenti e medici. Dovrei avere il differimento pena, visto che dopo poco che sono arrivato a Opera sono "incompatibile con lo stato di detenzione" avendo le conte linfocitarie tutte sotto i 100 CDG…ma niente da fare: pochi giorni fa sono stato costretto a levarmi un dente da solo senza alcun intervento da parte dei sanitari.

Con la mia malattia i medici di sezione non hanno a che fare con me. Vi prego di non rendere note le mie generalità, perché non credo di essere al sicuro da questa mafia dominante qui a Opera. Sono disperato e comincio a capire, perché mi dicono…"quelli come te prima o poi li trovano appesi a una corda…".

 

Carcere e garanzie

 

La scorsa settimana è stato qui pubblicato un articolo che ricordava le interferenze del mondo politico su alcune decisioni dei Tribunali di Sorveglianza che avevano disposto la revoca del regime del "41 bis" nei confronti di alcuni detenuti. Giustamente si sottolineava come, di fronte alla pesante quanto immotivata "aggressione" di decisioni giurisdizionali, si fosse registrato l’assoluto silenzio da parte di coloro che, solitamente, sono pronti a scatenare scontri e polemiche allorché sia posta anche solo vagamente in pericolo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.

Da parte di alcuni esponenti della politica si è recentemente arrivati a proporre una sorta di monitoraggio (che tanto ricorderebbe quello, famigerato, sulle sentenze della Prima sezione penale della Cassazione…) su questa tipologia di decisioni dei Tribunali di Sorveglianza: un monitoraggio la cui valenza obbiettivamente intimidatoria non sfugge a nessuno. Queste non certo sorprendenti posizioni rappresentano un preoccupante segnale nel senso di un’ulteriore sottrazione di garanzie nell’ambito del mondo del carcere, mondo quasi sempre impermeabile al rispetto dei diritti civili, quasi non avesse nulla a che fare con "la giustizia".

Secondo la concezione corrente, in definitiva, una volta chiuse le vicende processuali e, con esse, le porte del carcere, non vi sarebbe più materia per l’applicazione delle leggi e delle regole dello stato di diritto: quasi tutto, a quel punto, verrebbe consegnato all’Amministrazione (mondo impenetrabile a qualsiasi forma di effettiva garanzia), sottraendosi al controllo della Giurisdizione, e ciò anche a dispetto di qualche disposizione dell’ordinamento penitenziario. Tanto che, quando il controllo c’è e si realizza (come appunto nel caso delle su citate decisioni dei Tribunali di Sorveglianza), c’è chi si sente immediatamente in dovere di tentare di eliminare o condizionare tale verifica, nella consueta ottica emergenziale per cui il fine giustificherebbe i mezzi.

Nessuno vuole ovviamente negare l’esigenza di sicurezza e anche di riservatezza che attiene all’organizzazione del settore carcerario: ma è altro problema se dal panorama di tale organizzazione possano completamente estromettersi forme di controllo e di verifica, anche giurisdizionale, che garantiscano il rispetto dei diritti civili dei detenuti.

E’ noto, infatti, che una buona parte della vita quotidiana di chi è ristretto in carcere è governata dall’applicazione di regimi carcerari del tutto sottratti al controllo della magistratura di sorveglianza (dall’Eiv, l’elevato indice di vigilanza, all’alta sicurezza etc.), attraverso i quali l’Amministrazione gestisce i detenuti con la facoltà incontrollata, ad esempio -e sembra l’aspetto più rilevante- di impedire di fatto l’accesso ai benefici previsti dalle leggi penitenziarie (si pensi a semilibertà; affidamento in prova; lavoro esterno; permessi premio etc.) anche quando le norme di legge non lo proibirebbero.

In altra occasione si cercherà di spiegare come ciò concretamente avvenga: basterà ora ricordare come, anche qui, si riproponga lo scontro tra una cultura laica ed una etica della giustizia che quotidianamente si ritrova nelle aule processuali, nelle discussioni sull’ordinamento della magistratura, nelle concezioni di politica giudiziaria. Sarebbe allora il caso che, al più presto, si cominci a riflettere sulla necessità che un potere sostanzialmente incontrollato dell’Amministrazione sulla vita dei detenuti debba cedere il passo alla cultura dei controlli e della possibilità effettiva di tutela dei loro diritti.

 

Renato Borzone, Avvocato, Presidente Camera Penale di Roma

 

Pentitismo come rieducazione, di Mauro Mellini

 

"Le pene…devono tendere alla rieducazione del condannato". Così è scritto nell’art. 27 comma 3 della Costituzione. Detta così, sembra ottima cosa: un intendimento assolutamente civile, il corollario naturale della proposizione che precede: "non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità". In applicazione di tale principio, il codice penale e la legge penitenziaria prevedono sconti e benefici di pena per chi, con la sua buona condotta, dimostri di essere, oramai, persona diversa dal "cattivo", come tale condannato. Ma, qualunque buona legge può essere stravolta e divenire, se non motivo, pretesto di persecuzione se è interpretata in modo distorto, se l’interprete è privo del lume dell’intelligenza, se spira un’aria e si diffonde una cultura che spingono alla distorsione.

Che succede, dunque, se il condannato, il detenuto che sconta la pena è innocente? La ragione direbbe che, non avendo bisogno di essere "rieducato" non ci sia, per ciò solo, motivo di sottoporlo ancora alla pena. Ma, molti Tribunali di Sorveglianza sembra siano convinti dell’esatto contrario. Se il detenuto insiste nel dichiararsi innocente, col suo "fastidioso" comportamento esclude il presupposto stesso della "rieducazione", nega di doversi e potersi rieducare. Se, dunque, ad esempio, chiede la liberazione condizionale, resti in galera ad imparare, anzitutto, che "deve" rieducarsi. Non è una barzelletta di cattivo gusto, è quanto hanno scritto e scrivono dei magistrati.

Il vento del "pentitismo" si è fatto sentire anche per quel che riguarda l’esecuzione delle pene (a parte il 41 bis). Chi non si pente non è rieducato. Se non si pente perché è innocente e non ha delitti (propri e altrui) da raccontare è un maleducato impudente. Ed è anche pericoloso. Giuseppe Renna, detenuto a Cuneo in regime di 41 bis perché accusato da pentiti di essere un capo mandamento di Cosa Nostra, dice al suo Difensore: "Che io sia innocente lo sa chi lo deve sapere: per questo vanno da tutti a cercare di convincerli a "pentirsi": da me non ci sono mai venuti perché sanno bene che non ho nulla da raccontare". E, tuttavia, rimane da anni (è in attesa della Cassazione) "sotto 41 bis". Così le buone leggi diventano l’anticamera della tortura. Anzi, la giustificazione della tortura: perché il detenuto si riconosca (e riconosca gli altri) colpevole e possa così "rieducarsi", pentirsi. Come vuole la Costituzione!

 

Ma che colpa abbiamo noi?

 

Detenuti da zero a tre anni, sono ormai settanta nell’intero circuito penitenziario italiano. L’unico reato da loro commesso è quello di essere i figli delle donne che finiscono in carcere e di nascere in galera. A tre anni il momento più drammatico: il distacco dalla madre che spesso può diventare definitivo e straziante. Difficilmente infatti questi bambini potranno rivedere le genitrici. Il loro destino molto spesso si gioca tra orfanotrofi e affidamenti a terzi.

 

 

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