La Voce nel Silenzio

 

La Voce nel Silenzio

Periodico di informazione culturale della Casa circondariale di Udine

(Anno 5, numero 3, ottobre 2004)

 

Sommario

 

Una strada tutta in salita: dalla carcerazione alla maternità

Essere un detenuto padre

Il giorno più atteso

 

Una strada tutta in salita: dalla carcerazione alla maternità

 

di Patrizia

 

Al convegno "Dal carcere al reinserimento sociale, alle vittime del reato, all’educazione alla legalità" è stata inviata questa testimonianza che la redazione ha tenuto di pubblicare come forte segno di riscatto dopo un’esperienza detentiva

 

Mi chiamo Patrizia e sono una delle ex ragazze del Pozzale, la Casa Circondariale femminile a custodia attenuata di Empoli. Ho conosciuto il carcere all’età di 22 anni, per reati connessi alla tossicodipendenza. Una carcerazione durata sei lunghi anni. Anni in cui sono cresciuta con rabbia e arroganza, lasciando tutto in mano all’istinto. Anni in cui non ho affrontato la mia tossicodipendenza, visti i pochi strumenti che le carceri ordinarie mettono a disposizione. Dopo questa triste parentesi, mi sono ritrovata a 27 anni senza un progetto di reinserimento. Sono uscita per fine pena, senza un’indicazione, un aiuto, un progetto. Sicuramente per debolezza, per poca volontà, per vigliaccheria, non sono riuscita a dare una svolta alla mia vita e dopo pochi mesi, sono rientrata in carcere per quasi altri quattro anni.

Ho conosciuto carceri del nord, del centro, del sud dell’Italia e in tutta franchezza, posso affermare che non è facile lavorare su se stessi. La situazione all’interno delle carceri è sempre più critica. Sovraffollamento, suicidi, pochi spazi, poco personale, poche attività interdisciplinari, molti stranieri. Ambienti dove, a mio avviso, è difficile cominciare una vera "ristrutturazione" della persona. Un triste quadro, che purtroppo sembra non migliorare. Un quadro dove è necessario il sostegno del volontariato, delle associazioni, delle Istituzioni. Un sostegno che personalmente, laddove mi è stato possibile, è stato presente.

E in questa lunga "parentesi" di detenzione, qualcosa di positivo è successo. È paradossale, ma è proprio dentro il carcere di Empoli che qualcosa di positivo è successo. Proprio lì, al Pozzale, ho imparato a conoscere la mia tossicodipendenza, i miei limiti, il saper ascoltare gli altri, la paura del cambiamento, l’accettazione delle osservazioni, la difesa senza l’attacco istintivo. Insieme all’equipe di osservazione trattamentale, ho percorso una strada dura, faticosa, "tutta in salita". Una strada che, nel mio caso, si è conclusa in una comunità terapeutica in Liguria, a Varazze.

Là, tutto ciò che avevo elaborato nella custodia attenuata mi è servito per continuare il cammino, liberandomi, finalmente, di quei muri che fanno parte della vita in carcere e che all’apparenza, ma solo in apparenza, sembra di non avere. Oggi "assaporo"i risultati ed è con infinito piacere e profonda consapevolezza, che intervengo a questo importante Convegno regionale "al carcere al reinserimento sociale, alle vittime del reato, all’educazione alla legalità", dopo quattro anni di reinserimento nella società.

Ho seguito con forza e fiducia il progetto che per me avevo pensato e strutturato, viste le mie capacità. Una scommessa che è diventata, nel tempo, il mio lavoro quotidiano. Brevemente, nella custodia attenuata di Empoli nel’98 nacque un giornale, Ragazze fuori. Pochi fogli. Poche le pretese. Un solo obiettivo: diventare un ponte di parole vere e sincere con l’esterno. Pochi fogli che volevano far conoscere il cuore di quelle ragazze al di là di quelle mura. E vista la passione che ognuna di noi metteva nel proprio pezzo, nel proprio racconto, nacque una proposta di lavoro esterno, nel Comune di Empoli, per due ragazze, tra cui io.

Il nostro compito era occuparci della redazione esterna del giornale del carcere e scrivere il giornale della amministrazione comunale, Empoli, nato dalle nostre capacità. Con i dovuti timori e le dovute perplessità, quella redazione senza pretese è l’attuale Ufficio stampa del Comune di Empoli, dove mi reco ogni mattina a svolgere il mio lavoro, insieme a un giornalista professionista. Scrivo comunicati stampa, mi occupo della rassegna stampa degli amministratori, convoco le conferenze stampa, vivo la vita del palazzo comunale con diligenza.

"Una scommessa", appunto. Un salto che poteva anche essere un salto nel buio, in cui l’istituzione, però, ha creduto, ha messo alla prova, ha scelto di dare, davvero, una possibilità di riscatto, di vita.

E così in questa strada, che all’inizio sembrava interminabile e che è stata ed è una crescita continua di valori, di saperi, è arrivato anche l’amore, quel sentimento dimenticato, svanito nel grigiore di quei luoghi e la nascita, pensate, di un bellissimo figlio, Emanuele, che oggi ha nove mesi. Sono diventata donna, moglie e mamma in pochissimo tempo. Tutte le persone che hanno seguito il mio cammino, sono le persone a me più care: dal personale del carcere, ai volontari, ai colleghi del Comune.

Emanuele è la risposta più grande che ho dato alla mia famiglia, che non hai mai perso la speranza di ritrovare la propria figlia. E oggi che sono una mamma, posso capire il profondo dolore dei miei familiari che nulla hanno potuto contro la tossicodipendenza. Non avrei mai pensato di raggiungere degli obiettivi. E invece, dopo la carcerazione, dopo la maternità, sono anche diventata "pubblicista": sono iscritta all’Albo dei giornalisti della Toscana e l’Ente presso il quale lavoro, mi ha dato la possibilità di frequentare un corso di formazione per personale negli Uffici stampa.

Un cambiamento totale, quindi, che ho voluto, cercato, quando ho capito che cosa significava affidarsi agli altri. Mi sono salvata. Ho saputo scegliere e cogliere l’aiuto di chi ha saputo far bene il proprio lavoro, mettendomi alla prova, offrendomi gli strumenti adatti. Restando in silenzio, a guardare quella che ero, come mi comportavo. E se oggi ho ancora un contratto di lavoro, significa che ho delle capacità.

Vivo la mia favola, con le preoccupazioni della quotidianità, ma con un sorriso in più che ogni mattina dedico al mio piccolo Emanuele e se dovessi tornare indietro, non tornerei nel buio delle sostanze, ma andrei a cercare quella luce che ho trovato nella città di Empoli, dove ho messo le mie radici. La mia testimonianza sarà una tra le tante che ce l’hanno fatta. Spero solo che il mio contributo possa essere un piccolo segno di successo per tutti voi che lavorate per "noi". Un segno, che la tossicodipendenza si può sconfiggere. Un segno, per ricordare che senza le strutture adatte, le Istituzioni presenti, le associazioni, è più difficile riprendere a vivere dopo tanti anni di carcere. Un segno, per dire che un’altra vita è possibile. (sommario)

 

Essere un detenuto padre

Continuiamo a parlare di colloqui in carcere con i minori con le riflessioni di Donato

 

Sono un ragazzo padre attualmente detenuto nella Casa circondariale di Udine. Sto scontando una pena di un anno e otto mesi. Devo dire che nonostante tutti i problemi che possa avere un carcerato e soprattutto le persone a lui più vicine, penso che questa, presa nel modo giusto, sia un’esperienza che mi sta facendo aprire gli occhi. Tante volte, durante quest’anno, mi sono chiesto perché…, ma i perché avrei dovuto chiedermeli prima; ormai è tardi però, come dice il saggio, un uomo è tale se una volta in ginocchio ha la forza di rialzarsi. Io posso dire in maniera obiettiva di aver buone ginocchia perché sono caduto tante volte ed altrettante volte mi sono rialzato anche grazie all’aiuto di persone che mi volevano bene e me ne vogliono tutt’ora. Per non perdermi in chiacchiere comincio col dirvi che mio figlio compie, tra due mesi, quattro anni! Questa per me è la condanna più dura, però mi sono reso conto che la condanna più difficile da sopportare ce l’ha lui e chi, come lui, è fuori. È stato duro accettare di farlo venire in questo ambiente, specialmente in questo periodo in cui non ci sono posti "ideali" ed adatti ad un bimbo della sua età.

Ho aspettato dei mesi (quattro e mezzo per l’esattezza) prima di farlo venire e non solo perché avevo paura che fosse traumatizzato dall’esperienza, ma anche perché ero consapevole che i familiari sarebbero stati perquisiti, avrebbero dovuto depositare gli oggetti di valore in apposite cassette, consegnare vestiti o alimenti affinché fossero tagliati, controllati e io mi chiedevo: "Quelle povere creature così piccole non possono andare avanti, devono attendere quegli umilianti controlli, vedono, sentono e chissà forse capiscono, poi entrano in sala, vengono chiusi; per uscire a fine colloquio devono aspettare che venga riaperta la sala, vedono sempre un "vigile" che li scruta". A volte mi chiedo cosa possa pensare Thomas. Mio figlio, come tanti altri bimbi della sua età, è cresciuto nell’ovatta, non certo come me, e ritrovarsi a fare cento domande, a voler questo e quello e non poter aver niente, è un dispiacere immenso che ogni volta mi ferisce.

Col passare del tempo ho imparato ad accontentare il bimbo con piccole cose che però sono importanti per lui, perché cominciasse così a dar un senso ed un valore alle piccole cose ed a capire che non tutto gli è dovuto. Tante volte, anzi quasi sempre, fuori da qui lo accontentavamo per non farlo star male perché non volevamo fargli mancare quelle cose che non avevamo potuto ricevere noi da piccoli. Però cercando di guardare anche tutte le cose negative con positività, posso dire con orgoglio che se una persona pensa che andando in carcere non riceva niente e che possa accontentare solo in parte il bisogno d’affetto del proprio caro, sbaglia; infatti non è così assolutamente; venendo qui, parlo per me, ho riscoperto i veri valori della vita, quelli che oggi "fuori" non contano più, che però sono il vero senso della vita.

Parlo di quei valori che i nostri figli ormai hanno perso, visto che, da quello che posso testimoniarvi, le cose che contano ora sono i vestiti firmati, il cellulare, il computer, le scarpe etc. In effetti sono tutte cose che servono e danno la felicità ai nostri figli, ma non ditemi che esse servano veramente a dare la felicità; se fosse veramente così vi chiedo: "Ma allora i veri valori dove sono finiti? Rispetto, amicizia, onestà, umiltà, condivisione… e soprattutto la gioia interiore, lo star bene dentro, sono veramente dovuti a tutti questi oggetti? Non vi sembra che tutto oggi sia basato un pò troppo sulla superficialità?".

Un figlio è la cosa più bella che ti possa succedere nella vita; mi lacrimano gli occhi quando penso a quei nove mesi: quante paure, ansie, quanti esami. Poi, alla fine, tutte le preoccupazioni sono svanite e al loro posto, una gioia immensa, indescrivibile. Penso che solo un genitore sappia cosa voglia dire ricevere un così grande dono.

Qui, la maggior parte della giornata la passiamo in cella, praticamente venti ore al giorno. Io non ho molti rapporti con gli altri detenuti, ad eccezione che con due persone; quindi ho molto tempo, troppo tempo per pensare e il più delle volte i miei pensieri sono Thomas e mia moglie. In questo luogo dove la regola è il silenzio è difficile condividere il proprio dolore ed è impossibile sentirsi liberi di esternare certi "gropponi". Comunque vi dico che, superati questi momenti di crisi, riparto con una gioia interiore enorme al solo pensare al prossimo colloquio con la mia piccola creatura, innocente, spavalda, sensibilissima che, col suo metro scarso, mi trasmette una gioia tale da riempire il carcere.

Ogni settimana c’è una novità: il mio Thomas, per esempio, conta fino al 20 mentre, fino a poche settimane prima, passava dal 2 al 6 e dal 3 al 5; mi mostra come salta su un piede, mi bombarda di domande. Thomas mi fa sentire vivo, che valgo e che ha bisogno di me quanto io di lui. Per me, in quest’anno, lui è stato indispensabile, la "benzina" per poter andare avanti. Vorrei, per concludere, raccontarvi il momento più duro che ho e che sto ancora affrontando. Per paura che Thomas subisse un trauma venendo qui visto che è così piccolo, considerando che non ho mai fatto del male a nessuno e la legge me lo consente, ho deciso di chiedere un permesso di un giorno al mese per vederlo fuori del carcere. Premetto che è un anno che sono qui e che per quattro mesi e più non l’ho fatto venire per aver modo di confrontarmi con la psicologa e gli assistenti sociali.

Da soli 2 mesi ho deciso di vederlo qui in carcere e penso che continuerò a vederlo qui perche la burocrazia, all’interno di questa struttura è così lenta e complicata che non ce n’è per nessuno, figuriamoci per una creatura di 4 anni. La giustizia non si piega. Forse potrei piegarmi io accettando, come loro vogliono, di andare in comunità. Ma questo significherebbe non vedere Thomas per un altro anno. Io sinceramente non ho la forza di abbandonarlo una seconda volta. Non appena avrò scontato la mia pena lo riabbraccerò e non lo lascerò più. Per finire vi dico che chi sbaglia paga ma la realtà è che a pagare è tutta la famiglia e di questo occorre essere consapevoli nelle nostre azioni. (sommario)

 

Il giorno più atteso

"Da oggi lei andrà a studiare da qualsiasi altra parte, si prepari!".

 

di Diego

Con queste parole mi si sono riaperte le porte alla vita: è come un impianto stereo che, una volta disinserita la "pausa", riprende a suonare, più lunga è stata la pausa, più tempo ci vuole per riabituarsi ai decibel. All’inizio sembra tutto un gran baccano, ma poi piano piano, prendono vita i suoni, si inizia a distinguere la chitarra dalla batteria, il violino dal pianoforte… Sapevo che era solo questione di giorni e da tempo mi stavo preparando all’evento, perciò non posso dire che sia stata una sorpresa, ma potevo immaginare che non sarei uscito da solo e che a farmi compagnia, portandomele a casa, sarebbero state le abitudini del carcere.

Tre anni e otto mesi da scrollarmi di dosso, ma non da dimenticare. Il giorno più atteso non ha avuto l’effetto "paralizzante" immaginato perché, nonostante sia passato da una realtà "irreale" ad un’altra frenetica, oltre ad essere pronto da giorni, avevo avuto la fortuna di poter in precedenza usufruire di 5 o 6 giorni di permesso premio, anche se solo di un giorno e mezzo, sufficienti però a rompere il ghiaccio…, sì, il ghiaccio che ti si forma dentro.

Devo premettere che la mia situazione deve essere classificata tra quelle "fortunate", anche se io preferisco credere che le preghiere delle persone che mi vogliono bene mi hanno fatto da cuscino per il salto. Avere la possibilità di iniziare la seconda parte della pena da scontare (due anni in indultino… non è finita), con un lavoro, un alloggio e circondato da persone che ti vogliono bene è una pista di decollo non indifferente. Vorrei che tanti altri avessero la mia stessa fortuna e gli venisse offerto una simile possibilità.

Le prime ore "fuori" sono state una corsa contro il tempo, la felicità di aver oltrepassato quel cancello è stata tale da coprire le prime sensazioni. Sembrerà impossibile pensare che con la testa si è ancora "dentro", ed invece è proprio così: mentre il corpo improvvisa movimenti non più limitati dagli spazi, dalla metodicità degli orari, la mente ricorda l’ora della cena, la chiusura dei blindi, il passaggio serale del medico o dell’infermiera per chi prende terapie giornaliere… Invece si respira più ossigeno, c’è più calma, più "silenzio" e il tempo scorre senza rumori di chiavi o di cancelli, di intermittenze di luci che si accendono e si spengono con un ritmo quasi perfetto, ora spengo la luce e… la riaccendo il giorno dopo.

Un bel respiro, una controllata intorno, giusto per assicurarsi che non sia stato solo un sogno, e via…, da oggi non si delega più nessuno, non si aspetta più che qualcuno ti chiami per fare documenti al posto tuo, è ora di arrangiarsi e farsi riassorbire dal ritmo della società, che strafottente, ha preso vantaggio. I primi giorni sono troppo preso a rifare documenti, sistemare casa, contattare familiari e amici, conoscere una nuova città, ma non a tal punto da fare a meno di degustare sensazioni vive nei ricordi e riscoperte, riassaporandole come se fosse la prima volta. Passeggio per la città e ancora non mi sento parte di essa, sento tutto e tutti come uno straniero, come un turista, come un bambino.

Man mano che passano i giorni tutto diventa più sereno, più tranquillo, anche le persone care ora mi parlano in modo differente, sono passate da una condivisione di gioia pazzesca, al dialogo di tutti i giorni come se niente fosse mai accaduto e questo è il ponte che mi fa credere in un futuro diverso dal profondo del cuore.

Ormai è passata buona settimana e comincio a fare un primo bilancio sugli effetti emotivi e la loro evoluzione, una settimana che mi ha dato modo di relazionarmi con tanta gente differente, una settimana salutare per i miei occhi che stavano impigrendosi ed ora sottoposti agli straordinari senza fatica. Non parliamo poi dell’aria, inquinata sì, ma così fresca che ad ogni respiro ogni capello bianco diventa biondo, un’aria così leggera e profumata da riportare l’appetito, da rimettere in movimento ogni mezzo di trasporto che nel sangue, via vena, porta energia ad ogni singolo muscolo, e tutto torna a riaccendersi.

Sì, è proprio bello tornare sulla terra, talmente tanto da stamparmi in faccia un sorriso quasi continuo, ma ogni qualvolta la lancetta dell’euforia prova ad andare fuori giri, mi si aziona il limitatore provocandomi un brivido al pensiero delle persone che ho conosciuto e che sono ancora "dentro". "Non siate tristi e non mollate, passerà! Il tempo in fondo scorre per tutti alla stessa velocità e arriverà presto il vostro turno". È difficile spiegare, senza correre il rischio di essere fraintesi, che in carcere dopo un pò di tempo si vivono le relazioni umane "umanamente", cioè con amicizia, con sostegno morale reciproco, aiutandosi economicamente, perché anche i detenuti vivono di emozioni, non solo fuori, ma anche in carcere.

Dividere pochi metri quadrati, a stretto contatto con un’altra persona fa sì che nasca un rispetto reciproco, un senso di sopportazione, un’amicizia. A volte ci si sente come fratelli, o come padre e figlio, per come si impara a conoscersi, ad aiutarsi e a consigliarsi, a superare le difficoltà assieme. Pensandoci bene, nella costrizione si raggiunge un’intesa a volte difficile da trovare in una coppia o in una vera relazione familiare: il disagio alla fine unisce e fortifica, se non ci si lascia andare.

Tornando al bilancio settimanale e a quello che in teoria dovrei cercare di spiegare e trasmettervi circa quanto sto vivendo come prima esperienza, mi viene spontaneo un sorriso perché rivedo certe scenette, da me interpretate da cartoni animati, quasi una comica alla Charlie Chaplin. La base dell’assurdo è quello che si rivive scoprendo quanto taglia un coltello o quale piacere possa dare una doccia o un bagno veramente caldo, che prenda tutto il suo tempo e che addirittura ti consente di ballarci dentro per lo spazio, per la pulizia..., oppure riscoprire una bevanda fredda, e, se a tutto questo, ci si aggiunge una camminata avanti e indietro dalla cucina alla camera da letto, giusto per sgranchire le gambe, ma anche per "vizio", ti accorgi che il tragitto è più lungo dello spazio riservato alle ore d’aria e… con meno traffico.

Andare a fare la spesa e scrutare ogni singolo prodotto e poi trovarti in fila davanti alla cassa con la voglia di far passare la signora che sta dietro perché tanto fretta non ne hai; oppure trovarti dal parrucchiere ed ascoltare i pettegolezzi senza che ti diano fastidio e senza fare i conti che poi tocca a te il 1° grado di interrogatorio... ed allora qualche bugia è consentita, chissà come la prende il parrucchiere se sa che sta per tagliare i capelli ad un fresco fresco ex detenuto… curiosità subito spenta in quanto sono troppo affezionato alle mie orecchie. Però a me basta guardare fuori dalla finestra per vedere un unico cielo e non tanti pezzetti di esso; mi basta respirare quest’aria fresca che chissà come mai si rifiuta di entrare nel perimetro di un carcere.

Usciamo prede e predatori, qualcuno dice che si esce pecora o leone, comunque il mio pensiero in merito è che se non si è imparato ad apprezzare e a dare il giusto valore (incalcolabile, immenso) alla libertà in stato di detenzione, e cioè in stato di privazione della stessa, diventa duro sperare in un futuro migliore. Dopo aver superato la prova del carcere, quasi tutti i problemi diventano superabili; basta avere pazienza, una parte di quella pazienza che ti è stata imposta e non deve essere confusa con la rassegnazione, ma è determinazione a raggiungere risultati, seminando costantemente, aiutando, perdonando, sicuri che la goccia continua questa volta riempirà il vaso della vita. Sì, sono un felino alla riscoperta della giungla, preda e predatore, aspetto la selezione e il destino che madre natura vorrà darmi, ma con lo sguardo le chiedo un futuro semplice e migliore. (sommario)

 

 

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