La Voce nel Silenzio

 

La voce nel silenzio

Periodico di informazione della Casa circondariale di Udine

(Anno 6, numero 1 - 2005)

Notte di natale

Come l’alcool ha rovinato la mia vita

Dalla Romania: solo andata

Diario di un viaggio

Notte di natale. Nascita ad una “nuova vita” di un gruppo dì detenuti

 

di Salvatore

 

Vi racconto come ho passato il Natale ed il Capodanno in via Spalato. Per me è il secondo Natale e Capodanno che passo in carcere e ormai, dopo un anno e qualche mese di detenzione, ho capito cosa vuoi dire essere ristretto. Vi posso dire che non ho mai desiderato essere a casa con i miei come quest’anno, Purtroppo nel periodo delle feste è atroce il continuo martellare delle pubblicità che passano in tv; sembra fatto apposta per far sì che nessuno di noi dimentichi quello che sta perdendo fuori di qui. Mi riferisco alle famiglie felici che vivono questi momenti nel calore di una bella casa dove regna pace, armonia e si sente il profumo dell’amore. Per noi niente di tutto questo, solo la consapevolezza di quello che non possiamo avere, almeno per un po’. È stato un Natale pieno di tristezza e di malinconia.

Io ero accanto al blindo con gli occhi lucidi rivolti verso l’esterno, come se volessi stare da solo, ma, in effetti, era un modo per evitare che gli altri vedessero che stavo passando un momento di sconforto. Il carcere è pure questo, se hai voglia di piangere non lo fai, subentra l’orgoglio che ti fa logorare dentro e non ti permette di esternare i tuoi sentimenti; figuriamoci poi se sono debolezze. Pensavo fossi solo io in quelle condizioni, ma mi sbagliavo; è bastato sentire il silenzio che regnava nel corridoio della seconda sezione cellulare per capire che anche gli altri erano nelle stesse condizioni e che il sentimento che provavo era comune a tutti.

Così rivolsi lo sguardo verso i compagni e mi ci volle poco per capire che non era proprio la serata per far festa; non c’era niente da festeggiare, e forse non era neanche il caso di continuare a pensare al perchè di tutto questo. Quanto male, quanto dolore vissi e percepii; ad un tratto sentii il rumore delle chiavi di un agente che veniva verso di noi, mi svegliai da quello stato pietoso e mi accorsi che era già l’ora della terapia. La parola d’ordine è per me “mai terapia”, serve solo a rincoglionirti, non ti fa più essere te stesso. È come spegnere la tua intelligenza e la voglia di reagire, ma quella sera era particolare: era la notte di Natale.

Così eliminai tutti i blocchi che mi ero imposto e con aria decisa guardando negli occhi il dottore gli dissi: “Dottore, io non prendo terapia, ma stasera mi sa che è dura per me andare a letto”, e prima che finissi la domanda, che per altro sembrava già elaborata al solo scopo di avere delle gocce di Valium, il dottore era già con il bicchiere e la boccettina pronto per soddisfare le mie esigenze. Rimasi colpito dalla prontezza del dottore, poi mi resi conto che forse io non ero altro che uno dei tanti che aveva elaborato una richiesta di gocce. Alla fine andammo tutti a letto e grazie al Valium la notte passò. Trascorsi i giorni successivi a riflettere su quella benedetta notte. Il tempo passò velocemente e mi ritrovai al 31 dicembre 2004, la fatidica notte di Capodanno.

Normalmente la notte di capodanno è caratterizzata da fuochi d’artificio, grandi mangiate e altrettante grandi bevute con conseguenti passaggi tra una discoteca e un locale di tendenza; almeno questa era la classica notte di Capodanno. Ma quest’anno la cosa era diversa di certo, non volevo trascorrere un’altra notte come quella di Natale e assolutamente non volevo aiuto dal Valium e così misi in moto il cervello e usai tutto l’ottimismo che c’era in me. Radunai i ragazzi e chiesi loro se avessero voluto trascorrere la notte seguendo le varie fasi di una nostra tradizione. Per prima cosa dovevamo presentarci all’anno nuovo sbarbati e con un indumento nuovo, quindi a turno andammo in bagno a rasarci: nel frattempo io davo indicazioni su come si potevano utilizzare gli indumenti a nostra disposizione, che non erano di certo nuovi, ma sarebbero diventati tali nel momento in cui venivano regalati.

Così io regalai un maglione a Babj, Jon regalò un paio di pantaloni a Cristian, Moreno ricevette un paio di mutande da Luca, insomma stavamo diventando più amici di prima. Ognuno di noi regalò al compagno qualcosa cui teneva e devo dire che l’atmosfera della cella si stava facendo via via sempre più gradevole. Dopo la nostra preparazione cominciammo a mangiare facendo i soliti commenti sulla trasmissione di Maurizio Costanzo, sulle belle donne e soprattutto sull’espressione di Maria De Filippi, che dava proprio l’impressione di chi non si trova a suo agio.

Questo mi offrì lo spunto per dire ai ragazzi: “Guardate la De Filippi, forse vorrebbe stare da un’altra parte e non con il marito a condurre la trasmissione. Pensate com’è strano il mondo: noi vorremmo stare con la nostra famiglia e non possiamo, lei che ha tutto, lo disprezza”. La conclusione mi venne automatica e aggiunsi. “Cari ragazzi dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo, ma soprattutto bisogna mettere a frutto tutto quello che stiamo vivendo qui”.

Così invitai i miei compagni a seguire la mia tradizione, anche se in quell’occasione la arricchii di coreografia e parole toccanti. Iniziai io. Presi il vasetto vuoto della marmellata, lo misi sulla tavola e con aria seria e rigore cerimoniale misi la mano destra sul vasetto e iniziai a fare l’analisi della mia vita dell’anno che si stava concludendo.

L’anno trascorso non era andato così male anche perchè in carcere avevo ottenuto dei miglioramenti rispetto al 2003: ho avuto l’autorizzazione ai colloqui con mia moglie e con i miei figli e ho visto i miei genitori. Soprattutto ho preso coscienza di quella che era la mia vita prima dell’arresto, un po’ come Maria De Filippi avevo tutto e non apprezzavo niente. Oggi che vorrei solo la mia famiglia, mi rendo conto di quello che ho perso, ma soprattutto ho capito la causa scatenante della perdita d’interesse per le cose importanti: LA COCAINA. A quel punto giurai in modo serio e convinto che non avrei fatto più uso di tale sostanza e promisi di impegnare il mio tempo nell’aiutare gli altri a capire quali sono i veri valori della vita o quanto meno a far prendere coscienza che forse li abbiamo dimenticati. Così, pian piano, parlarono tutti. Jon espresse l’intenzione di avere un’altra bambina e di trovare un lavoro: la notte di Natale aveva lasciato un segno anche a lui. Babj invece era sempre stato un gran lavoratore, ma per uno scherzo del destino la sua vita cambiò: interrotto il rapporto con sua moglie aveva iniziato un rapporto con un’altra ragazza che stava attraversando un periodo di difficoltà, e aveva trascinato anche lui nel mondo della droga con il risultato piuttosto pesante di una restrizione per tutti e due.

Ma, come si dice, non tutto il male viene per nuocere: la notte di Natale è servita anche a lui per dei buoni propositi, infatti giurò che non avrebbe fatto più uso di stupefacenti e che avrebbe lavorato con serietà e costanza. A questo proposito sono felice di scrivere che Babj ha trovato lavoro e anche la casa ed è in attesa della camera di consiglio che lo autorizzi a lasciare il carcere. Cristian invece disse che avrebbe usato la sua intelligenza per aiutare chi ha bisogno più di lui e che avrebbe utilizzato il tempo che deve trascorrere in carcere in modo produttivo. Infatti si è iscritto a Scienze sociali e speriamo che la determinazione che ha dimostrato fino ad adesso non lo lasci strada facendo, in ogni caso fin che starà con noi avrà il nostro sostegno. Moreno invece ci raccontò della sua vita, dei suoi genitori, dei problemi che lo accompagnarono per tutta l’infanzia, che per altro passò con i nonni. Chiaramente la scuola era esclusa dal suo vissuto, visto che doveva in un certo senso provvedere a se stesso. Poi ci fu qualche amicizia sbagliata, la voglia di emergere, di essere sempre al centro dell’attenzione e la conseguente prima bravata, seguita poi da varie esperienze, dalla droga alla prostituzione, ai furti e all’inevitabile entrata in via Spalato, seguita dal più classico dei via vai, libertà-carcere, carcere libertà, e così per qualche anno.

Contandoli, se ne è fatti circa sei, un numero gigantesco se consideriamo che lui di anni ne ha trenta. Posso dire che quella notte quando toccò a lui rimasi un po’ colpito, in quanto esprimeva un certo distacco da quella che lui riteneva una “sceneggiata” che ognuno di noi stava recitando e nello stesso tempo dimostrava di aver già vissuto momenti come quelli, pieni di buona volontà, ma pensava che una volta giunti fuori tutto si sarebbe dimenticato e alla prima occasione ci saremmo ricaduti. Così venne il turno di Luca, dentro per aver colpito un negoziante per pura casualità con un coltello e che la stampa aveva fatto diventare una storia da prima pagina. In realtà se fosse stato seguito dagli assistenti sociali non sarebbe arrivato a tanto e non ci sarebbe stato bisogno di restringerlo. Così finimmo il giro e il bicchiere tornò da me. Al volo presi spunto da quanto avevo sentito e dissi che, come da tradizione, chi cominciava doveva finire.

Facendo una sorta di riepilogo di quanto fu detto, commentai i vari interventi elogiando Jon, Babj, Cristian e Luca per quanto avevano detto e per i buoni propositi espressi, mettendoli però in guardia che, una volta usciti, la tentazione sarebbe stata forte e solo chi veramente crede in quello che ha affermato, avrà la possibilità di farcela. Non persi l’occasione di dire il mio punto di vista su quanto espresso da Moreno, che, scettico sul risultato, buttò un ombra sul momento che avevo con tanta cura creato. E no, caro amico mio, non è come tu dici, ricordati che ognuno è artefice del proprio destino e solo se crediamo con forza e determinazione in noi stessi potremmo ottenere dei risultati. Lo invitai a seguire il mio consiglio di non rimanere in cella a parlare delle solite cose, di cominciare a frequentare i corsi, coinvolgendolo anche a creare qualcosa che possa aiutare chi è destinato a vivere a lungo nelle patrie galere. È con grande piacere che constato che oggi Moreno sta dalla nostra parte, partecipa ai corsi e tutti insieme cerchiamo di dare il nostro contributo per rendere migliore la permanenza in carcere.

Senza nemmeno accorgersi ora fa parte del gruppo che crede che, una volta fuori, si può cambiare. Arrivammo quasi alla mezzanotte, riempimmo i bicchieri di acqua pronti per il brindisi e quando mancavano tre minuti dalla fine, cominciammo a battere ininterrottamente gli sgabelli in modo crescente e sempre più rumoroso. Non nascondo che l’indomani passammo qualche ora ad aggiustarli con lacci di fortuna. Così trascorremmo la notte di Natale e di Capodanno in un modo certamente diverso dall’anno prima, anche se siamo riusciti a trascorrere solo qualche ora di allegria e spensieratezza; purtroppo noi siamo ristretti ma pensare al futuro in modo positivo ci dà quella speranza che si traduce in forza per poter poi affrontare la vita una volta fuori.

 

 

Come l’alcool ha rovinato la mia vita

 

di Giorgio Bettin

 

Sono un quarantenne attualmente detenuto nella Casa Circondariale di Udine; mai avrei pensato di finire qua dentro. Comincio la mia triste storia dicendo che ero felicemente sposato dal 1990 e con una figlia di dodici anni, un lavoro, una casa mia, praticamente una vita più che normale. Le cose andavano più che bene nel senso che non avevo nessun tipo di problema particolare; anche se dal 1989 soffrivo di “sindrome ansioso depressiva” e di conseguenza facevo e faccio tuttora uso di psicofarmaci per assoluta necessità. Con il passare del tempo questi farmaci non mi davano più il sostegno morale di cui avevo bisogno, così associavo qualche bicchiere di vino o birra (moderatamente) che assieme agli psicofarmaci mi facevano stare bene.

Tutto ciò andò avanti per qualche anno, ma la situazione mi sfuggiva di giorno in giorno di mano, anche se la mia psichiatra di fiducia mi aveva modificato la terapia che già prendevo, in una più forte. Quindi io, senza quasi accorgermene, aumentavo le dosi giornaliere di alcool. A causa di ciò non riuscivo più a mantenere un posto di lavoro fisso. Cominciarono così i primi problemi familiari e svariati incidenti automobilistici cui seguì la separazione consensuale da mia moglie, che non ne poteva più di vedermi in certe condizioni e il conseguente allontanamento di mia figlia.

A livello psichico tutto questo non ha fatto che peggiorare la mia situazione ed io bevevo sempre di più. Con l’aiuto di mio padre, infine, ci siamo rivolti al Sert.T. di Codroipo perché da solo non ce la facevo più in tutti i sensi. È seguito un ricovero in una comunità durato circa un mese dopo il quale sono stato dimesso con l’impegno di iniziare a prendere l’Antabuse (farmaco antagonista dell’alcol) e frequentare il club di alcolisti in trattamento del mio paese. Ho seguito le indicazioni per circa un anno e mezzo mentre parallelamente continuavo la cura di psicofarmaci per i miei problemi mentali. Purtroppo a causa della mia eccessiva sicurezza ho deciso di lasciare il club convinto di farcela tranquillamente da solo, invece dopo cinque o sei mesi ha ricominciato ad assumere alcol, pian piano sempre di più, fino ad arrivare ad assumere gli psicofarmaci con il vino.

Questo fisicamente mi faceva sentire un leone ma mentalmente ero senza controllo. Ho sperperato tutti i miei soldi facendo debiti nei bar, ho perso gli amici e le persone a me più care oltre che la mia dignità di uomo. Nei confronti di mio padre e della mia compagna, oltre al dolore che procuravo con il mio comportamento, più di una volta ho usato violenza, praticamente senza rendermene conto. Ora mi ritrovo qui richiuso per aver commesso un omicidio di cui non ho alcun ricordo se non un buco nero in testa. Ora ho solo il sostegno della mia compagna, di mio padre e di mia sorella, e soprattutto della fede.

Dal mese di gennaio del 2004, mese in cui sono stato arrestato, fino ad oggi non ho più fatto uso di alcol, ma dico la verità, ne sento la mancanza e cerco di non pensarci tenendo sempre il mio tempo occupato. Cari lettori, spero che la mia esperienza sia un modo per far capire come l’alcol piano piano possa distruggere una persona e non pensate, come ho fatto io, di uscirne da soli! Se avete questo problema non esitate a chiedere qualsiasi tipo di aiuto: Ser.T., club e associazioni di aiuti per problemi alcol correlati. Una volta intrapresa la strada della disintossicazione non abbandonatela mai perché anche se pensiamo di essere forti in realtà siamo molto deboli e a rischio di continue ricadute.

 

 

Dalla Romania: solo andata Un ragazzo che sogna l’Italia

 

di Virgil

 

Cari lettori mi chiamo Virgil ed anche se ho solo 22 anni vorrei raccontarvi una mia esperienza di vita: un viaggio. Fin dall’età di 14 anni, quando sano scappato da casa per la prima volta, ho fatto molti viaggi nei paesi intorno alla Romania; vi parlerò dell’ultimo viaggio, il più lungo: Romania-Italia. Era il 24 dicembre del 2000, mi trovavo in discoteca. Lì ho incontrato un amico di famiglia che era appena ritornato dall’Italia. Abbiamo incominciato a parlare e gli ho chiesto notizie di questo Paese: come si viveva e se era possibile per gli stranieri trovare lavoro. Le sue risposte erano positive e mi sollecitava ad andare in Italia, spiegandomi come poter passare clandestinamente le dogane.

Dopo mezz’ora sono rientrato a casa e ho riflettuto sulle parole di questo amico. L’indomani, il giorno di Natale, mi sono svegliato alle sette, ho preparato dei panini, ho preso dei cibi in scatola, qualche tuta, qualche maglione, le sigarette, e una carta geografica; ho infilato tutto nello zaino, l’ho nascosto fuori dalla porta, ho salutato i miei dicendo che andavo in chiesa e sono partito. Effettivamente sono passato dalla chiesa, ho acceso due candele e poi mi sono diretto verso la stazione dei treni. Lì ho preso il treno per Budapest, dove sono arrivato verso mezzanotte, e ho cercato un treno che arrivasse alla stazione più vicina al confine con la Croazia.

Sono giunto in un piccolo paesino e a piedi sono arrivato alla dogana. Erano circa le 18.30, ma era già buio. Sono entrato in un bar, ho preso un caffè e, con indifferenza, ho cercato di osservare il posto per capire come muovermi. Le due frontiere, ungherese e croata, sono attraversate da un fiume e unite da un ponte. Aiutato dal buio della notte, ho attraversato il ponte nella sua parte inferiore, reggendomi con le mani ai ferri del ponte, ed i piedi nel vuoto, proprio come nei film. Avevo tolto le scarpe per non bagnarle, ed in effetti mi sono bagnato solo un po’ i piedi. Sono arrivato sull’altra sponda del fiume e percorrendo una stradina di campagna parallela alla strada che portava alla dogana Croata, sono giunto oltre il posto di blocco, superando la frontiera.

Ero ormai in Croazia. Ho proseguito a camminare rasentando l’autostrada; di notte camminavo e di giorno mi riposavo dove capitava, tra i cespugli, nei boschi, nelle case abbandonate, sulle panchine dei parchi e delle fermate degli autobus. Infine sono arrivato a Zagabria. Sono andato in stazione con la speranza di trovare qualche mio connazionale per ricevere un aiuto; non avendolo trovato, sono entrato in un supermercato per prendere qualche cosa da mangiare.

Passando davanti ad un cortile, ho visto alcuni vestiti che erano stesi ad asciugare, ho preso un paio di jeans e sono ritornato verso l’autostrada riprendendo il cammino. Dopo tre-quatto giorni di cammino arrivo nei pressi della dogana Croazia-Slovenia. Erano le undici di mattina quando sono arrivato e ho aspettato che facesse buio su una collina. Alle otto di sera, quando c’era più traffico nella dogana, ho ripreso il cammino attraversando i boschi circostanti. Il bosco era molto intricato, tra un albero e l’altro c’erano delle fittissime piante rampicanti. Ho fatto molta fatica per attraversarlo, strisciando sul terreno per non fare rumore. Sono uscito proprio di fronte agli uffici Croati. Ho temuto di essere scoperto, ma il buio della notte mi ha protetto.

Sono rientrato nel bosco e ho continuato a camminare verso la Slovenia. Appena dopo la dogana c’era un parcheggio per i camion. In un lato erano impilate delle gomme di trattore. Mi sono infilato dentro e, fumando, ho atteso che facesse notte fonda e che il traffico diminuisse, sperando così di correre meno rischi. Lì vicino c’era un gruppetto di case. Passando davanti all’ultima ho preso una bici e ho incominciato a correre. Avrò fatto circa 20-25 chilometri, ero molto stanco: mi sono fermato in un bar per chiedere un po’ d’acqua. Ho domandato informazioni, per sapere se la strada che passava davanti al bar portasse in Italia.

Naturalmente hanno subito capito che ero un clandestino, mi hanno offerto lo stesso un caffè e mi hanno indicato la strada per andare a Lubiana. Il cammino sarebbe stato molto lungo: la distanza era di circa 110 chilometri e avrei impiegato ben tre giorni, ma io non lo sapevo. Il paesaggio era collinoso, su una collina ho visto una casetta che mi sembrava abbandonata, ho pensato di rifugiarmi lì per riposare. Sono entrato: forse era una casetta per le vacanze perché era rifornita di tutto. Ho fritto delle patate, mi sono disteso sul letto e ho dormito. Verso sera ho ripreso il cammino, portando via un giubbotto pesante. Ero riposato e ho pedalato tutta la notte, fermandomi ogni tanto solo per fumare. Verso le cinque del mattino sono entrato in un parco di una cittadina e ho dormito su una panchina. Il rumore dei passanti mi ha svegliato, ho fumato due sigarette e ho ripreso a pedalare. Di tanto in tanto mi fermavo in qualche bar a comprare un caffè o a riposare.

Il giorno dopo sono arrivato alla periferia di Lubiana e mi sono fermato in un campo di nomadi; lì ho venduto la bici per pochi spiccioli, ho mangiato con loro e uno di essi mi ha accompagnato con l’autobus alla stazione di Lubiana. Lì ho cercato qualche rumeno, ne ho trovato uno che viveva presso la Caritas e mi ha portato con lui. Nella struttura ho ricevuto dei buoni pasto e un posto dove alloggiare; mi hanno anche fornito di vestiti. Sono rimasto loro ospite per due giorni, volevo portare con me anche il rumeno Vasile, perché conosceva molto bene la strada, infatti accompagnava i clandestini in Italia. Lui però non aveva intenzione di lasciare Lubiana, ma mi ha spiegato la strada più sicura che dovevo percorrere.

Ho preso l’autobus e sono sceso cinque chilometri prima della dogana italiana di Fernetti. La zona era molto montuosa, sono salito sulle montagne con una neve alta mezzo metro, sono arrivato in cima, mi sono scavato un rifugio nella neve: il mio amico Vasile mi aveva detto che in questo modo avrei avuto più caldo e non mi sarei bagnato. Mi sono infilato in due sacchi di plastica, uno per i piedi e l’altro per la testa lasciando un buco per il viso e in questo modo ho aspettato che facesse buio. All’imbrunire ho incominciato a scendere verso la dogana. Lungo il percorso ho anche intravisto le postazioni della polizia di frontiera, fortunatamente non c’era nessuno. Mi sono guardato intorno, mi sembrava tutto tranquillo e quindi ho continuato a scendere e tranquillamente ho oltrepassato la dogana slovena.

Nascosto tra i cespugli sono rimasto alcune ore nella zona franca ad osservare la dogana italiana per cercare di capire come attraversarla. Vedevo parecchie strade e non capivo quale fosse quella giusta, inoltre un muro alto circa tre metri con una rete fino all’altezza di cinque metri separava il terreno dalla strada. Essendo disorientato, ho cercato di raggiungere, scavalcando il muro, la strada che passava sotto il ponte, ma mi sono accorto che portava nel parcheggio dei tir dove la Finanza effettuava i suoi controlli.

Sono tornato indietro, ho lasciato alle mie spalle il ponte ove intravedevo dei poliziotti, ho scavalcato un altro muro e sono entrato in autostrada; quando ho potuto l’ho attraversata per prendere la direzione Trieste-Venezia: ero sicuro in questo modo di dirigermi verso l’Italia. Ho iniziato a camminare sull’autostrada. Dalla parte opposta c’era un posto di blocco di carabinieri che vedendomi sono entrati subito in macchina per raggiungermi. Ho capito immediatamente che venivano a cercarmi e vedendo la linea ferroviaria lì vicino, ho scavalcato il recinto e ho iniziato a camminare sui binari fino a S. Giorgio di Nogaro.

Sono entrato in stazione e ho chiesto quanto costava un biglietto per Modena, avevo solo venti marchi e non erano sufficienti, volevo acquistare un biglietto per Venezia, ma l’impiegato quando ha visto i marchi mi ha indirizzato alla banca. Allora, non sapendo dove fosse una banca, mi sono deciso a fare l’autostop. Un vecchietto mi ha preso sulla sua macchina per due chilometri, siamo entrati in un bar dove ho preso un caffè e là ho conosciuto la mia ragazza. Così ebbe inizio la mia avventura in Italia.

 

 

Diario di un viaggio. Odissea di un trasferimento

 

di Sergio

 

Non tutti i viaggi si fanno con i mezzi usati normalmente. Ricordo perfettamente che, tanti anni fa, fui costretto ad affrontare uno spostamento di cui personalmente avrei fatto a meno. Mi trovavo ristretto in un carcere del Nord Italia da diversi mesi, quando all’improvviso, in una fredda e piovosa mattina di fine inverno, fui chiamato dall’ufficio matricola per un motivo che ora non ricordo più, ma ha poca importanza, visto che lo scopo della chiamata, come potremo vedere, non aveva niente a che fare con problemi legali o altre faccende che potrebbero interessare questo ufficio. Appena entrato notai altri detenuti, come me “parcheggiati” in una piccola sala di “attesa”. Anch’io fui messo in quel posto. Mi devo fermare per cercare di spiegare il luogo in cui mi trovavo: muri sporchi, imbrattati da scritte che non starò ora ad elencare.

Tanti come me sanno di che cosa sto parlando. Dopo essermi guardato intorno, fissai la mia attenzione sulle persone che stavano aspettando e chiesi a uno di loro, che già conoscevo di vista, il motivo della sua attesa in quel posto, ma lui non mi seppe rispondere. Così passarono i minuti e anche la prima ora. Nel frattempo arrivarono ancora alcuni ragazzi; ormai eravamo una decina in quel buco, sempre più stretti, fumavamo tutti, un po’ per l’attesa, un po’ per la tensione che si era venuta a creare per il fatto che nessuno sapeva niente di concreto. La seconda ora era già avanzata quando la porta si aprì su una divisa con dentro un omone male rasato che cominciava a scandire nomi e cognomi, con una lentezza che non nascondeva la sua stanchezza. Eppure la giornata era appena cominciata.

Quando l’omone finì di elencare tutti i nomi, fu praticamente aggredito da alcuni di noi: chiedevamo il perché della nostra permanenza in quel posto. Come risposta ci fu detto che dovevamo essere trasferiti in altri carceri per motivi di sovraffollamento. Iniziarono delle proteste da parte nostra che furono immediatamente bloccate con la chiusura della porta, che si riaprì dopo cinque minuti, quando fummo invitati ad uscire uno ad uno. Nel corridoio ci aspettava la seconda sorpresa: un certo numero di carabinieri con delle catene in mano. Fu di nuovo fatto l’appello. Nel frattempo un lavorante detenuto portava delle sacche che chiamavano zaini, ove vennero infilate le poche cose che ognuno di noi poteva portare. Ci dissero che il resto delle nostre cose sarebbe arrivato successivamente; ci dichiararono anche quanti soldi ognuno di noi aveva e ci chiesero di firmare. Dopo questa formalità toccò ai carabinieri. Uno dopo l’altro fummo incatenati e alla nostra richiesta di sapere almeno dove saremmo andati, ci fu detto che dopo, sul treno, ce l’avrebbero detto. Eravamo tutti preoccupati: la parola treno significava un viaggio.

Terminate le ultime formalità ci consegnarono un sacchetto di carta dicendoci che conteneva il nostro pranzo. Personalmente non ho mai guardato cosa contenesse quel sacchetto. Uno dopo l’altro fummo avviati verso l’uscita, accompagnati dai carabinieri. Impediti dalle catene nei movimenti, i polsi stretti dagli schiavettoni, le spalle curve sotto il peso degli zaini, ci fecero salire su un furgone. Ammucchiati nel fondo per ragione di spazio (eravamo in dodici), la porta si chiuse…

Il viaggio stava per iniziare.

Per una ventina di minuti fummo sballottati e finalmente, dopo questa prima sofferenza, sentimmo il motore che si fermava. Dopo un po’ la porta si aprì e ci fecero scendere. Ci trovavamo in una stazione ferroviaria. Molto velocemente, quasi per la vergogna che qualcuno ci vedesse, ci fu detto di salire su un vagone del treno che stava aspettando sul binario in prossimità di dove ci eravamo fermati. Cominciavano i problemi: legati come eravamo, con quel carico sulla spalla, fu un impresa salire su quel vagone; più di una volta si rischiò la caduta per terra. Comunque con un po’ d’attenzione tutti riuscimmo a salire senza danni. Appena entrato nel vagone fui colpito da un senso di nausea. Non era un vagone normale ma un carro adibito al trasporto detenuti. Devo fermarmi un attimo per spiegare in quale posto fossi capitato: lo spazio era limitato, c’era un lungo corridoio stretto su un lato, sull’altro delle piccole celle ove fummo immediatamente rinchiusi. Senza luce, in uno spazio così ristretto, anche una persona temprata non si sarebbe sentita a suo agio; per questo, alcuni di noi, protestarono, senza esito comunque. La scorta, quando veniva chiamata, era abituata a questo genere di reclami e ormai non ci faceva più caso.

Si sentì un po’ di confusione, poi il treno si mise in movimento. Naturalmente non sapevamo ancora niente della nostra destinazione. C’era qualcuno che si agitava e che chiedeva di potere parlare con il capo scorta per motivi più che giustificati, ma ci fu risposto che per il momento non era disponibile. Eravamo partiti per una destinazione ancora ignota e penso che, per tutti noi, l’importante fosse sapere dove saremmo andati a finire. Per questo fu di nuovo richiesta la presenza del capo scorta, quasi con rabbia, e, questa volta quell’uomo si degnò di concederci un po’ del suo prezioso tempo. Arrivò con una carta in mano ove aveva scritto una lista di nomi. Con la domanda: “Cosa c’e?”, ci fece capire che era seccato di dover dare delle informazioni, ma era lì e nessuno l’avrebbe fatto andare via senza sapere la sua destinazione. Il mio compagno di catene fu il primo a chiedere dove fosse destinato, disse il suo cognome e il carabiniere, con uno sguardo sul foglio e uno sul mio compagno, rispose che era stato trasferito a Volterra.

Non persi tempo neanche io. Speravo in quel momento che, nella disgrazia, sarei capitato meglio di lui. La risposta fu per me come una mazzata: dovevo andare a Caltanissetta, in Sicilia. In quell’istante sentii il mondo che mi crollava addosso, non ascoltavo più, ero completamente con i miei pensieri, con la mia confusione, la mia incertezza su come mi sarei trovato in quel posto. Ma non sapevo ancora cosa avrei dovuto passare prima di arrivare lì. Quanti pensieri mi passavano per la testa! Non riuscivo ad accettare ancora il fatto che comunque non ci fosse niente da fare per rimediare a quella situazione, cercavo una scappatoia che non esisteva, non volevo rassegnarmi così. Uscii da questo stato dopo un po’ di tempo, non so esattamente quanto tempo fosse passato e quanti chilometri avessimo percorso, anche perché, come già ho accennato, eravamo chiusi in una cella, senza alcuna apertura verso l’esterno. E il treno continuava la sua corsa verso l’ignoto…

Si parlava fra di noi, anche se pochi erano invogliati al dialogo. Cercavamo di tirarci su il morale a vicenda ma in quel momento credo che le parole fossero inutili. Sentivamo solamente il rumore delle ruote sui binari di un treno che corre. Anche se non c’erano comodità, tentai di riposare, più per stanchezza mentale che fisica. Non ricordo quanto tempo rimasi con gli occhi chiusi, ma li aprii subito quando ebbi l’impressione che ci stessimo fermando. Infatti, pian piano, il treno rallentò, poi si fermò. Si sentì un altoparlante in lontananza che annunciava ai signori passeggeri che erano arrivati alla stazione di Firenze. Di nuovo confusione, rumori di catene, porte che si aprivano, nomi che venivano elencati e, finalmente, anche la porta della nostra cella si aprì.

C’era il solito carabiniere che velocemente ci incatenò, poi ci fece cenno di uscire dalla cella. Ci invitò a prendere i nostri zaini; fu un’impresa impediti come eravamo, ma con pazienza ci riuscimmo; fummo avviati verso l’uscita, altra impresa scendere da quel vagone senza rompersi le ossa, ma la fortuna ci aiutò. Immediatamente fummo fatti salire su un furgone che aspettava in prossimità del binario e, completata quest’operazione, il nostro mezzo si avviò. Dopo una ventina di minuti il furgone, dopo averci sbattuti a destra e a sinistra, arrivò a destinazione. La porta si aprì, fummo fatti scendere. Ci trovavamo in un cortile interno, fra un muro di cinta e un portone immenso. Eravamo arrivati alle Murate, il vecchio carcere di Firenze. I carabinieri ci consegnarono alle guardie che ci dissero di entrare. Valicato il portone, fummo rinchiusi in una cella, ma quasi subito la porta si riaprì e, uno alla volta, ci fecero uscire. C’erano una moltitudine di guardie nel corridoio, una di loro mi disse di seguirlo. Mi portò in una stanza per la solita perquisizione.

Mi consigliò di prendere esclusivamente le cose necessarie visto, che l’indomani mattina sarei ripartito di buon ora. Non vedevo l’ora di stendermi su una branda perché lo stress mi aveva fatto venire un terribile male di testa. Finalmente fui accompagnato in una sezione che, a sentito dire, era il transito: ci venivano messi i detenuti di passaggio. Un’altra porta si aprì, entrai in quella cella… L’odore di chiuso mi fece venire la nausea. Tutto era sporco, ma ero troppo stanco per fare lo schizzinoso, perciò mi buttai sulla branda senza chiedere altro che di addormentarmi al più presto. Così fu.

Sentii la porta che si apriva di nuovo, una guardia mi disse di prepararmi: dovevo partire dopo un’ora. La notte era passata velocemente, troppo velocemente, ma mi alzai e con lo sguardo cercai i servizi. Vidi una turca e al di sopra un rubinetto: tutto era lercio, maleodorante, comunque mi lavai la faccia il meglio possibile. Sapevo di avere poco tempo, infatti, dopo un attimo, la guardia aprì la porta e mi disse di seguirlo; mi riportò nella stanza in cui ero stato la sera prima. C’erano già altri due disgraziati, ragazzi che avevano fatto la prima parte del viaggio con me. Dopo esserci salutati il discorso si fermò sulle nostre destinazioni.

Uno di loro andava all’Asinara, isola della Sardegna che aveva la funzione di colonia agricola: il ragazzo era abbastanza contento anche perché, ci disse, non avendo famiglia, doveva lavorare per potersi comperare il necessario per il suo mantenimento in carcere. L’altro invece era un po’ preoccupato, doveva andare a Lecce, ma essendo del Nord Italia e avendo famiglia si chiedeva come avrebbe fatto per potere vedere i suoi cari, vista la distanza che l’avrebbe separato dalla famiglia. Ma i suoi problemi erano secondari per me, avevo anch’io i miei da risolvere. Mentre aspettavamo, altre persone furono condotte nella sala di attesa, alcuni provenivano della sezione, alcuni da altri carceri. Alla fine arrivammo ad essere una ventina, ammucchiati in quello poco spazio: chi fumava, chi urlava, chi si era seduto in un angolo. Meno male che questa situazione durò poco. Arrivò la guardia che cominciò ad elencare di nuovo i nostri cognomi e, uno alla volta, fummo invitati ad uscire. Fuori c’erano i soliti carabinieri che, con grande impegno, ci incatenarono di nuovo. Oramai cominciavo a farci l’abitudine, questo pensavo dentro di me.

Perciò feci buon viso e cattiva sorte. In gruppo da quattro salimmo di nuovo sul nostro furgone e, quando fummo al limite della capienza, la porta fu chiusa… si ripartiva. Dopo una lunga attesa il treno si mise in moto, il rumore delle ruote sulle rotaie diventò assordante, ma penso che tutti noi desiderassimo la stessa cosa: arrivare al più presto a destinazione. Ci sarebbe ancora voluto un bel po’ di tempo. Nella cella c’era poca conversazione, il quasi buio non favoriva certo il dialogo e la stanchezza mentale di tutti non aiutava la socializzazione; perciò ognuno stava per conto suo. Comunque il tempo passava, ogni tanto il treno si fermava, si sentivano delle persone salire e scendere: voleva dire che alcuni detenuti ci lasciavano, essendo arrivati a destinazione, e altri salivano per cominciare il loro viaggio.

Nel mio scompartimento qualcuno sembrava dormire, ma non credo che lo facesse veramente; era più probabile che gli occhi fossero chiusi per cercare di riordinare i pensieri. Cercai anch’io di concentrarmi, ma non ci riuscivo, ero troppo confuso. Qualcuno chiamò i carabinieri per poter andare al bagno e dopo un po’ altre voci si aggiunsero per chiedere la stessa cosa; lo feci anch’io. Uno per volta i carabinieri ci fecero uscire per andare in quel posto, dico così perché non si può chiamare bagno il posto dove entrai. C’era un forte odore di urina, un semplice buco nel pavimento, ma la cosa peggiore era che non ci furono tolti gli schiavettoni per potere fare quello che si doveva. Io rinunciai dopo il primo tentativo e penso che quasi tutti abbiano fatto lo stesso, chi ci avesse provato avrebbe dovuto essere un mago. Comunque, anche se per un attimo, ci venne data l’occasione per stare un po’ in piedi.

Il tempo passava, il treno continuava la sua corsa. Dopo diverse ore, tra una fermata e l’altra, il convoglio prima rallentò, poi si fermò. Forse eravamo arrivati a destinazione. Ci fu il solito “casino”, e dopo un bel po’, la porta si aprì. Fummo di nuovo incatenati (ormai era diventata un’abitudine) e come sempre avviati verso l’uscita. Si sentì in lontananza un carabiniere che parlava di Napoli. Dunque eravamo in quella città. Solito tran tran per scendere dal treno, e il solito per salire sul furgone che aspettava sul binario, ma questa volta c’erano tre furgoni: voleva dire che eravamo di più. Le voci intorno a noi avevano cambiato cadenza, erano più colorite, più allegre, ma a me importava poco. Anche il sole fece una fugace apparizione.

Il viaggio verso il carcere fu tremendo, sbattuti come pacchi sulle parete del veicolo da un autista che sicuramente non rispettava il codice della strada, ma eravamo a Napoli! Dopo una mezz’ora ci fecero accedere ad un cortile interno, eravamo a Poggioreale. Di nuovo solita trafila per essere messo in una cella vastissima, con tante brande a castello. Mi sistemai in una branda inferiore, avendo avuto la fortuna di essere passato per primo alla perquisizione. Feci il letto e mi addormentai subito, senza preoccuparmi più di tanto dell’indomani. La mattina mi svegliai presto, anche perché c’era una grande confusione in quella camera; ci fu portata la colazione: un po’ di latte annerito con del caffè che non sapeva di niente. Mi ricordai così che erano passati due giorni dal mio ultimo pranzo. È vero, ci davano dei sacchetti, ma come ho scritto prima non ho mai mangiato quella roba. Con la colazione ci dissero di prepararci per la partenza, cosa che tutti noi facemmo con la massima fretta. Zaini, catene, carabinieri, tutto era diventato quasi normale per noi, tutti rassegnati al nostro destino.

Di nuovo il famigerato furgone, il treno e la partenza da Napoli per il profondo sud. Era un viaggio che volevo finisse al più presto, ero stanco di essere in giro tra celle di transito e vagoni; volevo farmi una doccia, riposare, non sopportavo più lo spostamento, le condizioni di vita a cui eravamo sottoposti. Dopo diverse ore si arrivò di nuovo in una stazione, non sapevo ancora di essere a Reggio Calabria; si era fatto buio dovevano essere almeno le 22.00. In fretta, questa volta, ci portarono in carcere. Ci fu anche risparmiata la solita perquisizione; ci misero in una grandissima camera che serviva da transito. Dopo un po’ la porta si riaprì e, con mia grande meraviglia, due lavoranti portarono ogni ben di Dio: cibo in abbondanza, oltretutto molto buono.

Ci dissero che tutta quella roba ci veniva offerta dai nostri compagni della sezione – facevano sempre così con tutti quelli che passavano in transito –. Grazie a loro si mangiò molto bene quella sera. Ricorderò sempre l’ospitalità che altri detenuti avevano avuto nei confronti di noi transitanti. Ho saputo più avanti che era abitudine loro usare, con tutti quelli che passavano per Reggio Calabria, la stessa ospitalità. Con la pancia piena, dormii molto bene quella notte; parlando con altri, seppi che l’indomani avrei affrontato l’ultima parte del mio viaggio.

La mattina seguente mi alzai molto presto; ero contento di essere arrivato alla fine, lo stress mi aveva reso nervoso, la mancanza di tante cose essenziali mi dava parecchi fastidi, non mi lamentavo ma ero stufo di quella situazione. La porta si aprì per l’ultima volta. Una guardia mi chiamò, mi disse di seguirlo, mi consegnarono lo zaino, e tre carabinieri mi fecero da scorta, mi fecero salire sul sedile posteriore di un taxi, usato come veicolo di Stato, fra due carabinieri e partimmo. Per arrivare a Villa San Giovanni, all’imbarco del traghetto, ci volle poco tempo e, dopo un istante, fummo nella “pancia” della nave. Anche l’attraversamento dello stretto non fu tanto lungo, durò una mezz’ora, e capii che ero arrivato a Messina. Sapevo che si sarebbe proseguiti senza sosta per Caltanisetta. Almeno potevo vedere il paesaggio mentre la macchina correva sulla strada; non ero mai stato in Sicilia prima d’ora ed era molto bello tutt’intorno a me: campi di aranci e di limoni a perdita d’occhio, colline tondeggianti, arse dal sole, con poca vegetazione. Pensai dentro di me che la Sicilia doveva essere molto bella, peccato che fossi incatenato.

Dopo qualche ora si arrivò a destinazione. Ero in giro da pochi giorni ma mi sembrava di avere viaggiato per un’eternità. Un portone si aprì, mi fecero scendere: ero arrivato nella mia nuova “residenza”.

 

 

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