Giornalismo dal carcere

 

 

Figlie, mogli, madri: l’affettività è donna

 

Oltre il muro n° 1 - 2002

 

L’istituzione carceraria, luogo di reclusione e pena, è nata con una connotazione tipicamente maschile e tale è rimasta per anni; solo in tempi relativamente recenti l’evolversi della società, l’emancipazione femminile ne hanno fatto un luogo per ambo i sessi.

Per secoli si era ragionato di noi donne esclusivamente in termini di madri, mogli esemplari, vere vestali del focolare domestico, lontanissime da vizi, infrazioni, reati tipicamente maschili. Forse una volta era veramente così, ma da qualche tempo anche per noi si sono aperte le porte delle galere creando non pochi problemi sia alle istituzioni che a noi stesse.

Infatti molte si sentono doppiamente condannate: dalla legge per i reati commessi, dalla società per aver tradito quell’immagine, forse stereotipata, ma comunque tuttora presente. Nonostante questo, l’essere donne ci appartiene ancora: la nostra sensibilità, il nostro senso materno, i nostri sacrifici non possono certo essere soffocati dal nostro essere detenute.

Amore in tutte le sue espressioni è, assieme al desiderio di libertà, un impulso innato in noi tutte, nessuno riuscirà mai a soffocare questi istinti. Magari il carcere non sarà il luogo ideale per esternare nel modo migliore la nostra affettività, anzi, essendo parte di quel piccolissimo spazio ove ci è ancora consentito difendere la nostra privacy, ne siamo anche particolarmente gelose con tutto ciò che ne consegue, tenteremo comunque di aprire i nostri cuori, certe di non venire fraintese da chi avrà la pazienza di leggerci.

Ognuna di noi ha una storia a se stante, sia giuridica che personale, però tutte viviamo il nostro mondo di sentimenti, di emozioni, d’amore; spesso siamo travolte da situazioni più grandi di noi, ma rimaniamo pur sempre donne e quindi figlie, mogli, madri (anche se spesso di pregiudicati), abbiamo desiderio d’affetto, moti d’amore, voglia di tenerezza.

Nonostante il luogo in cui ci troviamo, qualche opportunità per coltivare questi sentimenti ci è permessa: una volta alla settimana possiamo avere i colloqui con i nostri familiari, con la stessa cadenza possiamo telefonare, poi c’è la corrispondenza ed infine i rapporti interpersonali con le compagne, a volte vere amicizie.

In questo istituto possiamo dirci fortunate perché i colloqui si svolgono, già da tempo, stando sedute attorno ad un tavolo con i familiari, senza nessun divisorio che ci separi, così ci si può sfiorare, sentire il calore dei propri cari, addirittura tenersi le mani, c’è insomma un po’ di quel contatto fisico che è molto appagante. Con un po’ di fantasia ci si può immaginare ad un picnic o ad un tavolino di un bar, sono piccole cose forse, ma importantissime.

A volte magari non riusciamo a proferire parola, ad essere noi stesse tanta è la tensione di quei momenti, e pensare che ci eravamo preparate per giorni, ripetendoci cosa dire, cosa chiedere, mille parole in testa, invece scena muta ed una emozione dirompente dentro. Si ritorna in cella pensando al prossimo colloquio o si ricorre alla corrispondenza tentando di rimediare.

Anche per le telefonate è la stessa cosa: giorni d’attesa, tanta emozione, mille argomenti da affrontare, magari al dunque si riesce perfino a scherzare, però i dieci minuti (tempo massimo concesso) volano in un baleno.

Ecco, forse, la nostra affettività si esprime talvolta in scoppi di ilarità senza nessun senso apparente, spesso in mestizie, in malinconici silenzi, in sofferti desideri di carezze (da ricevere, da dare), soprattutto in sogni ad occhi aperti. Soprattutto in numerose lettere a tutti coloro cui vogliamo bene, con il forte desiderio, con la certezza che tutto questo prima o poi finirà ed anche noi torneremo a volare.

Donna & reclusa

 

Donna, essere donna non è facile, mai! Ancor più quando si è donne detenute. Sono però consapevole che, nonostante tutto, l’altra metà del cielo ci appartiene, a tutte noi donne. Nostro è il suo azzurro sereno, nostra la luce, i colori, ma anche le nubi, la pioggia, il vento, la tempesta perché nostri sono i sentimenti, le emozioni, come nostre sono la sofferenza, il sacrificio, le rinunce… l’amore.

Per me, donna e reclusa, l’affettività è tutto questo: un turbine di intense emozioni che può innalzarmi fino al cielo della felicità o sprofondarmi nell’inferno della disperazione.

Bisogna ammettere che, pur da detenuta, mi è possibile non soffocare la mia affettività avendo la possibilità di periodici colloqui e telefonate che permettono un confronto immediato con i miei sentimenti.

La vera valvola di sfogo però sono le lettere: la cosa più bella in assoluto! Infatti non hanno orari, non impedimenti, nessuno può interromperle. A loro puoi affidare tutto, desideri, emozioni, paure, lacrime. Tramite la carta puoi confessare, scoprire, farti scoprire, giocare, litigare, far pace; far compagnia, voler bene, conquistare, amare, soffrire.

In una lettera ti puoi raccontare, inventare, fantasticare, immaginare, viaggiare, volare, evadere! Tornar qui e sorridere. Tutto si può in questi fogli di piccola grande libertà. Puoi anche stuzzicare, provocare e ritirarti, buttarti e ripensarci, sedurre, farti sedurre, far l’amore... far sesso...

Ah, il sesso! Ecco il punto dolente per noi recluse, credo sia una parte integrante dell’affettività, uno stimolo umano, un desiderio legittimo, ma proprio nel momento in cui, forse, avremmo più bisogno di essere rassicurate anche in questo, ci viene negato.

Palliativi ne esistono, eccome, ma palliativi appunto come l’autoerotismo o l’omosessualità. Sull’autoerotismo non voglio soffermarmi, appartiene alla sfera più intima di ciascuna di noi. Dell’omosessualità ne posso accennare per averla osservata, vissuta in terza persona. Ho conosciuto compagne che hanno avuto di queste esperienze, magari solo per bisogno d’amore, di attenzioni, per sentirsi importanti, per poterne parlare, per "provarci", per essere alla moda o per passate delusioni. Anche questa è una piccola libertà, ognuna se consapevole è libera di scegliere come meglio vuol "farsi" la carcerazione, purché il tutto sia nel rispetto delle altre compagne. Quello che non sopporto è la prevaricazione, il volerci provare a forza, questo no, non lo sopporto!

E pensare che le donne gay (vere) spesso sono goffe, timide, prevedibili, mi farebbero tenerezza e sorridere se non fosse che in carcere è meglio non attirare mai la loro attenzione, perché potrebbero diventare ossessive, appiccicose, morbose, gelose, a volte violente. Roba da rinchiudersi in cella per sfuggire alle loro avance o, ancor meglio, farsi trasferire di carcere.

Invece dovrebbe vigere il rispetto perché il fatto di essere detenute non comporta a priori la rinuncia dei propri valori, della propria dignità, del proprio "vivere", non è per intolleranza o pregiudizio che dico questo, ma per la libera scelta che ognuna deve poter fare.

Credo però che l’affettività sia anche voler bene a se stessi, perdonarsi, pazientare, smettere con il vittimismo, con le lamentele, con la diffidenza ed il sospetto. Accettare finalmente la pena quale logica conseguenza dei nostri sbagli; sono sicura che questo ci aiuterebbe a vivere meglio qui dentro ed a ricostruire il nostro futuro.

Personalmente so che pur conoscendo difficoltà, disagi, sofferenze, sacrifici, piccole e grandi rinunce, starò male solo se e quando mi accorgerò di non aver più niente da dare, ma forse anche allora avrò pur sempre un sorriso, una carezza, un ciao per tutti voi.

 

Christine

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