Sosta Forzata

 

Sosta Forzata, giornale della Casa Circondariale di Piacenza

(numero pubblicato nel mese di dicembre 2006)

 

Nel crepuscolo delle probabilità

Sotto l’albero ci siamo noi

Kristo Armand 30 anni - Albania

John 26 anni - Nigeria

Marino 50 anni - Italia

Rredhi Erald 25 anni - Albania

Lavderim Driza 26 anni - Albania

Mario 50 anni - Italia

Godspower - 26 anni Nigeria

Enzo 56 anni - Italia

Cinque cose che vorrei dire

Tardivo "mea culpa" sul Corriere on-line

 

Sosta Forzata compie tre anni. Auguri a tutti noi

 

Nel crepuscolo delle probabilità

 

Forse se questa nottata non fosse stata così lenta e difficile, non avremmo mai ricordato la citazione di Locke che il filosofo Giulio Giorello ci ha regalato in una tiepida sera di settembre.

Il crepuscolo delle probabilità; un’ immagine che ben rappresenta l’atmosfera difficile e ricca di incertezze in cui si sviluppa il nostro lavoro di comunicazione dal carcere. Una catena di dubbi mai risolti.

Chi sono queste persone che, di volta in volta, si avvicendano in redazione, che condividono con noi un pezzo della loro storia, che ridono e talvolta si commuovono, che discutono e raccontano della loro terra, della famiglia lontana, dei figli e delle donne. Chi di loro riuscirà a uscire dal triste circuito reato - carcere - speranza - ricaduta - carcere? Pensiamo ai volti e a tanti nomi spesso difficili da ricordare. Più di cento, ormai, in questi primi sei anni.

Indrit e Gianfranco sono diventati papà, lavorano, li sentiamo sereni; Djon con la sua voce inconfondibile e rumorosa è sempre affettuoso, ha incontrato una brava ragazza, guadagna bene; Massimo ha ritrovato la sua famiglia, Totò ogni tanto telefona. Quando c’è bisogno, arriva. Simpatico come sempre, eterno giovanotto. Enrico è un caro amico.

E gli altri? Di tanti non si sa più nulla ed è giusto così; la vita scorre, le esperienze si chiudono. Ma cosa faranno? Chi lo sa. Speriamo bene.

Quali sono gli ingredienti che permettono ad alcuni di venirne fuori mentre altri si abbandonano ad esistenze precarie o addirittura pericolose. L’intelligenza serve sicuramente. Ma non basta. Non basta nemmeno la volontà. Il lavoro è importante e anche la casa. Ma non sono sufficienti. Contano le relazioni, forse e, ancor meglio, la qualità delle relazioni. E poi un po’ di fortuna e una giusta dose di motivazione. Possibilmente una struttura forte, qualche valore prezioso salvato dal disastro. La lealtà, per esempio, la sincerità, la dignità.

E voi lettori chi siete? Voi, a cui i nostri redattori si rivolgono a volte con disarmante sincerità? Credete davvero che il carcere sia un luogo di relax per mascalzoni, potete anche solo per un minuto immaginare cosa significhi stare chiusi in una cella di tre metri x quattro per 16 - 20 ore al giorno, cucinare nel cesso, vedere sempre le stesse facce, lo stesso cubo grigio dell’aria, stare mesi e anni senza abbracciare una donna, piangere in silenzio nelle ore notturne, chiedere il permesso per tutto e aspettare ore e giorni prima di avere la risposta?

Il carcere non è il luogo epico dei film americani; è un posto di tensione e di grande sofferenza. Riuscirete a leggere con la testa sgombra queste storie, i ricordi che le persone recluse hanno ritrovato per voi? Saprete essere attenti e curiosi? Non per condannare né per perdonare o giustificare. Magari per capire o conoscere. Chi lo sa.

Ci muoviamo ancora nel crepuscolo delle probabilità ma crediamo con forza al proverbio indiano che recita " Oltre le nuvole ci sono mille soli che ti aspettano" In attesa del sole, Buone Feste.

 

Carla Chiappini

 

Sotto l’albero ci siamo noi

 

Sappiamo di non piacervi e riconosciamo le vostre buone ragioni. Ma l’ostilità penetra tra le mura fredde del carcere, inonda i corridoi e aggiunge fatica e depressione alle nostre giornate. L’indulto ha peggiorato le cose; anche chi si era dimenticato di noi, ha ritrovato la voce per invocare maggiore severità, maggiore sicurezza, pene certe.

Il nostro Sindaco continua a ignorare la richiesta di un Garante dei nostri Diritti e se, facesse un sondaggio tra i cittadini, la sua dimenticanza troverebbe ragioni e sostegno. Ma non è forse lecito immaginare che chi ci governa abbia forza sufficiente per sostenere sacrosanti principi già affermati nelle scelte politiche di tante altre città italiane?

 

Cosa ci resta da fare

 

Proviamo a rilanciare contro ogni ragionevole speranza e mettiamo sotto l’albero di Natale le nostre storie, i ricordi, i pensieri. Raccolti nelle interviste in redazione, scritti a penna nelle tante ore di cella, sollecitati da qualche riflessione di gruppo. In queste pagine ci siamo noi, non i nostri reati, noi come eravamo prima e come siamo ora. Ci sono esperienze che voi difficilmente potreste conoscere; luoghi e tempi lontani, perlopiù sconosciuti. C’è un gesto di apertura e di vicinanza da noi a voi per questo Natale e per il Nuovo Anno. Un regalo confezionato apposta per l’occasione con i colori di Mirò per coniugare la bellezza con la vita. Che sempre bella non è.

"Ogni essere umano è un essere unico, è un’esistente irrepetibile che, per quanto corra disorientato nel buio mescolando gli accidenti alle sue intenzioni, non ricalca mai le medesime orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso, non si lascia mai dietro la medesima storia…".

 

Adriana Cavavero in "Tu che mi guardi, tu che mi conosci" Milano 2003

 

Kristo Armand 30 anni - Albania

 

Flashback

 

Pane, zucchero e olio di girasole

 

Sono seduto nella mia cella davanti alla finestra, fuori sta diventando buio, il tempo è brutto, fa freddo, piove. Guardando dalla finestra penso al mio passato, la mia infanzia com’era, mi ricordo quando avevo 5 anni, ero un po’ timido, mi vergognavo perché ero povero, i bambini del quartiere a volte giocavano con me, a volte no. Allora andavo all’asilo; mia madre mi preparava ogni mattina due fette di pane con marmellata e a volte con zucchero e olio di girasole; quando ci sedevamo a mangiare i miei amici avevano pane e salame e poi anche la frutta che noi vedevamo solo una volta al mese, cioè quando i miei genitori prendevano lo stipendio. Mia madre lavorava in ospedale e mio padre faceva il camionista in un’azienda petrolifera. A volte mi prendeva con sé al lavoro e io ero contento, mi piaceva viaggiare, specialmente quando pioveva e poi il camion era il mio sogno, sognavo un camion tutto per me. Volevo diventare come mio padre.

 

A scuola con lo stomaco vuoto

 

Gli anni passavano e io crescevo, andavo a scuola, mi piaceva imparare cose nuove, mi piaceva leggere e scrivere ma come facevo a imparare se non mangiavo bene. Ci sono stati dei giorni in cui andavo a scuola con lo stomaco vuoto, poi non si sa quante notti ho dormito affamato. Mi ricordo un anno, era il mese di dicembre; il giorno di Natale mia madre piangeva di nascosto per non farsi vedere da noi. Non aveva i soldi per fare la spesa e per festeggiare l’anno nuovo; in casa c’erano delle arance che la mamma aveva messo da parte. Con mio fratello Edmond e mia sorella Marsela ci siamo seduti intorno al tavolo per mangiare e quella sera, la notte di Natale, abbiamo mangiato pane e arance.

 

La casa: una stanza e il bagno

 

La mia casa era piccola, una stanza e il bagno; pochi mobili, niente tv, né frigorifero, né lavatrive. Per guardare un film andavo da mia nonna che abitava a due isolati da casa mia e al sesto piano senza ascensore. Poi mi sono stufato di continuare a fare su e giù così stavo in casa con mio fratello. Una sera mio padre, tornando dal lavoro, mi disse: - Domani noi andiamo nella casa nuova -. Era contento. Ci spostiamo nel centro della città, un palazzo nuovo. L’aveva costruito l’azienda di mio padre perché allora le aziende costruivano case per i loro operai.

 

Dopo tre giorni arrivano i vigili

 

Così siamo entrati dentro; dopo tre giorni una mattina entrano i vigili e ci dicono che dobbiamo lasciare la casa perché non spetta a noi ma tocca invece a un altro. C’era un ingegnere che lavorava con mio padre, lui aveva cenato col nuovo direttore e aveva pagato per prendere la casa. Non c’è niente da fare; ci sbattono fuori di casa. Tutti i nostri arredamenti li abbiamo sistemati sotto il palazzo. Eravamo fuori ma fuori davvero. Non ci credevo. Guardavo la mamma che piangeva e mi giravo dall’altra parte perché non avevo cuore di stare lì a guardare. Mio padre quel giorno si è licenziato dal lavoro a causa della casa.

 

Nasce Martin: "il figlio della scala"

 

Durante quell’anno è nato mio fratello Martin che ora è in Italia, è sposato e ha una bambina. La gente che abitava lì vicino gli ha messi il soprannome "il figlio della scala" perché è cresciuto fuori, sotto le scale. Io andavo a scuola anche se ero affamato e dormivo fuori, ma nella mia testa c’era solo una parola: lavoro. Questa parola mi perseguitava tutti i giorni. Finché una volta non sono andato a scuola e sono andato a cercare lavoro per mia madre e i miei fratelli ma avevo solo 15 anni e come fisico non ero un granché, poi ero anche basso ma alla fine ce l’ho fatta: ho trovato lavoro in un’azienda agricola.

 

A quindici anni il primo lavoro di nascosto dai miei

 

I miei genitori non sapevano niente, loro erano sicuri che io andavo a scuola. A volte tornavo un po’ in ritardo; le mani mi sanguinavano, mi facevano male, zappavo la terra e le gambe non le sentivo più. Alla fine del mese mi pagano, io do i soldi alla mamma e le racconto tutto. Così lavoro ancora due anni e poi mi fermo perché mi stavo ammazzando di fatica e volevo sempre realizzare il mio sogno di diventare camionista. A questo pensavo continuamente. Intanto il Comune ci dà una casa monolocale dove nasce un altro fratello e una sorella. Siamo diventati sei figli: quattro maschi e due femmine, coi miei genitori eravamo otto persone in una casa monolocale troppo piccola. Però lì siamo cresciuti tutti. Dopo un po’ ho trovato lavoro in una ditta e ho cominciato a mettere da parte i soldi per fare un regalo a mia madre. Con un po’ di difficoltà sono riuscito ad accumulare i soldi per una lavatrice così la mamma non si doveva stancare più a lavare i vestiti a mano.

 

La lavatrice per la mamma

 

Quando ho portato a casa la lavatrice, la mamma non credeva ai suoi occhi; poi mi ha preso tra le braccia e mi ha baciato e dentro di me mi sentivo felice perché lì, in quel momento vedevo la mamma contenta. Questo è stato il giorno più felice del mio passato. Quanto al resto, è tutto pieno di sofferenze e di fatica. Questo è il mio passato e adesso che ci penso mi viene da piangere. Non è bastato il passato ma devo continuare a soffrire anche adesso che sono sposato e ho un figlio. Ora si è fatto tardi, fuori non piove più e devo andare a letto.

 

John 26 anni - Nigeria

 

Storia breve

 

Quando hanno ucciso mio padre

 

Da bambino tutto andava bene con la mia famiglia fino a quando hanno ucciso mio padre. Dopo la morte di papà ho smesso di andare a scuola non perché non c’erano più soldi per pagare ma perché non capivo più niente di quello che diceva l’insegnante. A 20 anni sono entrato in Italia con un mio fratello più giovane di me e ho cominciato a fumare marijuana con gli amici senza sapere che non è facile smettere. Un giorno sono andato a fumare in Piazza con mio fratello; subito sono arrivati i carabinieri per controlli di documenti. Io Povero Cristo senza documento e con il fumo in mia tasca sono finito nel carcere di Padova quella notte. Dal 7 gennaio dell’anno 2004 ho perso la comunicazione con mio fratello. Non so cosa è successo a lui.

 

Non trovo più mio fratello

 

Quindi io non posso uscire dall’Italia o tornare al mio paese senza sapere come è finita con lui. Per questo motivo ho deciso di rimanere in Italia. Con l’aiuto di un’amica stavo bene, lei faceva tutto per me. Sfortunatamente sono stato fermato dalla polizia per normali controlli; la prima cosa che mi hanno chiesto è il documento. Io Povero Cristo senza documenti sono finito in manette. Alla questura loro hanno trovato che io ero stato fermato una volta col fumo. Subito mi hanno mandato in carcere e sono stato condannato a 8 mesi di reclusione. (Grazie alla legge Bossi-Fini e senza aver commesso altri reati).

 

Non riesco a essere espulso

 

Non riesco a comunicare con nessuno in carcere, per questo motivo ho chiesto l’espulsione. So che l’espulsione significa condannarmi di più ma io non avevo altra scelta. Alla fine la risposta è stata che senza documento non possono mandarmi in Nigeria. Ho passato momenti difficili in carcere. Non so come comportarmi. Ma il dolore più grande è stato quando è arrivato l’indulto, pensavo di beneficiarne ma oggi sono ancora in carcere. Alla notte piango e faccio finta di dormire. Sono sei mesi adesso che ho passato in carcere…*. Ti ringrazio di aver ascoltato la mia storia.

 

*Nei puntini bisognerebbe trascrivere la richiesta di aiuto di John ma ritenendo che fosse una questione sua, abbiamo deciso di non pubblicarla. Per il resto la trascrizione è assolutamente fedele allo scritto che ci è stato consegnato.

 

Karen Blixen racconta una storia che le raccontavano da bambina. Un uomo, che viveva presso uno stagno, una notte fu svegliato da un gran rumore. Uscì allora nel buio e si diresse verso lo stagno ma, nell’oscurità, correndo in su e in giù, a destra e a manca, guidato solo dal rumore, cadde e inciampò più volte. Finché trovò una falla sull’argine da cui uscivano acqua e pesci: si mise subito al lavoro per tapparla e, solo quando ebbe finito, se ne tornò a letto. La mattina dopo, affacciandosi alla finestra, vide con sorpresa che le orme dei suoi passi avevano disegnato sul terreno la figura di una cicogna. "Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò o altri vedranno una cicogna?" si chiede Karen Blixen. Noi potremmo aggiungere: il percorso di ogni vita si lascia alla fine guardare come un disegno che ha senso?

 

Adriana Cavavero in "Tu che mi guardi, tu che mi racconti" Milano 2003

 

 

Marino 50 anni - Italia

 

Cenni di trama

 

Mi chiamo Marino, ho 50 anni. Il fisico è ancora giovanile. I miei progetti, sogni erano tutt’altro. Già da ragazzino mi interessava la meccanica, mi dilettavo a riparare biciclette, motorini. I pezzi di ricambio me li procuravo "micio micio bau bau" (non c’è traduzione ma non è difficile capire). Andare a scuola era un’ossessione. Il mio primo lavoro regolare fu dopo le medie con una paga settimanale. Siccome non bastavano mai i soldi sconsideratamente intrapresi un’altra attività: il contrabbando di sigarette. Da ragazzo iniziai a vedere un guadagno molto più facile ma rischioso. Tenevo il lavoro come copertura, non rendendomi conto delle conseguenze che andavo a incontrare. Non mi curavo del male che facevo a me e ad altri; l’importante era avere il portafoglio pieno per cui lascia il lavoro "progetti e sogni". Un parente mi diede una possibilità per tornare in carreggiata, per rincorrere quello che avevo sempre sognato: avere un’officina. Accettai. Ma siccome vivere nell’ozio mi piaceva, abbandonai subito l’idea e scelsi la strada della delinquenza.

Iniziano così ad aprirsi, per me, le porte del carcere. Inizia l’odissea; prima causa è sicuramente la mia mancanza di volontà. Poi mancano le strutture per un reinserimento sociale: le parole non sono rimedi.

 

Rredhi Erald 25 anni - Albania

 

Flashback

 

Da bambino…

 

Tornare a quel tempo che ho vissuto da bambino non è molto facile ma, vedendo oggi come soffrono i bambini nel mondo, posso dire che la mia vita da bambino è stata meravigliosa. La mia famiglia non è una famiglia ricca ma neanche povera perché i miei genitori hanno fatto di tutto per crescere noi al meglio possibile. Ricordare quell’età non mi è facile ma i miei nonni mi hanno raccontato tante cose di quel periodo. La maggior parte del tempo la passavo a giocare con i miei amici a casa e poi mi divertivo quando aiutavo il nonno a tagliare la legna. Ricordo le favole che mi raccontava il nonno e io che gli chiedevo di non smettere finché non dormivo. Come ho detto per tutto questo ringrazio la mia famiglia. Ricordi particolarmente felici non li trovo ma c’è un ricordo che è nello stesso tempo felice e triste.

 

La tragica fine del tacchino

 

Mi ricordo eravamo sotto le feste di Capodanno e come chiede la tradizione, da noi si usa il tacchino come carne. Per quell’occasione mio padre aveva comprato un tacchino e io per pochi giorni mi sono preso cura di lui. Gli davo da mangiare e da bere. In quei momenti sono stato il bambino più felice del mondo.

Mi ricordo che un giorno prima di Capodanno mio padre mi chiese di dare da mangiare al tacchino per l’ultima volta perché poi lui gli doveva spezzare il collo. Io mi sono messo a piangere e pregavo mio padre di non fare questa cosa perché volevo che il mio tacchino restasse vivo. Per farmi smettere di piangere mo padre mi disse che l’anno prossimo mi avrebbe comprato un altro tacchino più grande e io l’avrei potuto tenere per sempre. Quello è per me un brutto ricordo e solo più tardi ho capito che il tacchino va servito per Capodanno. Non so cosa dirvi ancora; so che questo ricordo rimarrà sempre nella mia mente.

 

Lavderim Driza 26 anni - Albania

 

Flashback

 

Da bambino

 

Ero un bambino che voleva giocare con i cugini e i fratelli e piano piano crescevo e mi piacevano i nuovi giochi che facevamo tra amici ed ero anche un bambino simpatico - almeno così mi hanno detto. (ndr: è ancora molto simpatico coi suoi quasi due metri di altezza e un sorriso sempre pronto) Ero anche curioso dei giorni che passavano e mi domandavo come sarà il domani.

 

Cosa facevo

 

Mi ricordo che andavo all’asilo e portavo anche il mio fratello più piccolo di me e giocavamo lì fino a quando veniva il papà e ci portava a casa e poi uscivo e giocavo vicino a casa. Poi io vivevo in campagna e non c’erano tante cose da fare.

 

Le persone importanti per me

 

Le persone più importanti per me erano mia madre e mio padre e i miei 4 fratelli. E anche i miei nonni materni perché quando veniva l’estate io e mio fratello andavamo dai nonni, stavamo lì due o tre mesi e ci divertivamo tanto.

 

Un ricordo felice

 

Quando è nato il mio fratello più piccolo; eravamo in quattro e siamo diventati cinque figli. Vedevo mio fratello crescere ed ero il bambino più felice del mondo (ndr: anche oggi Driza adora i bambini e parla con gioia del suo nipotino).

 

Un ricordo triste

 

Dopo la nascita di mio fratello la mia mamma si è sentita male ed è stata ricoverata in ospedale per un mese e mezzo. Quel periodo non passava mai senza la mamma; anche perché avevamo in casa il fratello piccolo e non potevamo vedere la mamma per tutto il tempo. E questo è rimasto un ricordo tristissimo, ve lo giuro.

 

A scuola

 

Mi piaceva quasi tutto perché imparavo a scrivere e leggere, disegnare e fare i calcoli e mi sentivo crescere ed era una sensazione che mi piaceva molto.

 

Cosa non mi piaceva

 

Non mi piaceva un insegnante che abitava vicino alla mia casa perché quando non andavo a scuola e non facevo i compiti lui passava davanti alla mia casa e raccontava tutto a mio padre. E poi quando andavo a scuola sgridava non solo me ma anche i miei amici, in poche parole era un insegnante cattivissimo.

 

Le mie materie preferite

 

Le materie preferite erano matematica, storia e letteratura ma, per mia sfortuna, non potuto andare avanti a studiare perché i miei fratelli più grandi sono emigrati in Grecia e io ho lasciato la scuola per aiutare mia madre in campagna.

 

Un brutto ricordo di scuola

 

Il mio brutto ricordo a scuola è stato quando ho sentito che un mio compagno era moto annegato in un canale dove noi facevamo il bagno quando non potevamo andare al mare. E da allora io ho l’incubo dell’acqua profonda e penare che sono cresciuto vicino al mare e non posso nuotare… è un ricordo bruttissimo che secondo me non ci sono parole per descrivere.

 

Da ragazzo: il primo amore

 

Il mio primo amore mi è capitato quando ho visto una bellissima ragazza del nord dell’Albania che è venuta a stare un paio di mesi dalla sua zia che abitava nel mio paese. Era anche la cugina di un mio compagno di scuola. Io vado a trovare il mio compagno di scuola e, quando la vedo, lo giuro, mi innamoro subito. Ci siamo conosciuti meglio fin che la zia ha capito che ci eravamo innamorati e ha cominciato a mettere il bastone tra le ruote. Io ero veramente innamorato ma lei non voleva sentire ragioni e ci ha separati veramente. Ve lo giuro che lì stavo per rovinare la mia vita e quella dei miei. È vero quel proverbio che dice che il primo amore non si scorda. A proposito il nome di quella ragazza era Raimonda.

 

Intervista a Driza

 

Cosa ti ha spinto a venire in Italia?

Non so se ricordate ma nel 1997 c’è stata la guerra civile in Albania, le banche ci hanno rubato tutti i risparmi ed è cambiato tutto. Prima stavamo bene, io lavoravo in campagna con i miei genitori e i miei fratelli ci aiutavano mandando soldi dalla Grecia. Poi è successo il disastro; molti di noi hanno perso tutto. Io stavo crescendo, vedevo i miei compagni che tornavano dall’Italia con le macchine, i soldi e ho voluto andare anch’io. Avevo 17 anni. Mi sono imbarcato a Valona su un gommone di 13 metri; eravamo 48 persone. La prima volta siamo dovuti tornare indietro perché il mare era mosso ma, al secondo tentativo ce l’abbiamo fatta. Ero terrorizzato perché ho molta paura dell’acqua da quando è affogato un mio compagno di giochi ( vedi sopra tra i ricordi di Driza). In un’ora e mezza siamo arrivati a Lecce dove abbiamo trovato degli italiani che ci dovevano portare a Taranto e io ho speso tutti i soldi per quel trasporto.

 

Da Taranto alla Sicilia

 

A Taranto ero preoccupato perché non avevo più una lira per raggiungere i miei parenti in Sicilia ma ho incontrato proprio un paesano che mi ha aiutato. In Sicilia ho fatto il pastore vicino a Militello. Stavo bene e mi pagavano regolarmente. Quasi tutti i soldi che guadagnavo li mandavo a casa perché i miei avevano dovuto pagarmi il viaggio.

 

Dalla Sicilia in Lombardia

 

Poi è arrivato in Italia anche il mio fratello grande ed è venuto al nord, in Lombardia. Anche io mi sono trasferito a Saronno; da gennaio a marzo con altri paesani in un bosco protetto da teloni di cellophane e facevo ogni giorno 24 chilometri in bicicletta per andare a lavorare. Poi mio fratello ha trovato casa a Broni e mi ha chiamato da lui. Ho lavorato come muratore e poi in una azienda di prefabbricati. Avevo ottenuto il permesso di soggiorno.

Poi mi è venuta un’ernia al disco e il padrone mi ha licenziato per cui ho perso prima il lavoro, poi il permesso di soggiorno e non ho potuto nemmeno pagarmi la fisioterapia. Ho chiesto aiuto ai sindacati, mi hanno fatto tante promesse e poi niente.

 

La lingua italiana

 

Quando sono venuto in Italia capivo già bene l’italiano perché in Albania vedevamo la televisione e poi c’erano parecchi italiani che venivano a caccia da noi.

 

Le donne

 

Dell’Italia mi piacciono le donne ma non vorrei sposare un’italiana perché qui i matrimoni finiscono in fretta; un giorno tua moglie si stanca di te e tu perdi tutto i bambini, la casa e devi continuamente pagare… (ndr: questa cosa è molto poco apprezzata dagli stranieri che incontriamo in carcere. Soprattutto sono spaventati dall’idea che da noi i bambini vengono quasi sempre affidati alle mamme. Driza in particolare dice che al suo paese se due coniugi decidono di separarsi, si mettono d’accordo senza ricorrere a tribunali, avvocati e psicologi. Almeno questa è la sua esperienza personale…).

 

L’Italia vista dal carcere

 

Adesso in carcere mi sto facendo dell’Italia un’idea troppo brutta.

 

Un tempo l’arte dello scrivere si prefiggeva un intento terapeutico, quello di donare la catarsi e l’ unità tematica a un’anima. Oggi può mettere a nudo, ma raramente guarisce. Come i terapeuti hanno ignorato il loro impegno nella poiesis, così i poeti hanno dimenticato la loro funzione terapeutica. Nel nostro secolo non ci volgiamo alle arti per guarire.

 

James Hillman "Le storie che curano" Milano 1984

 

Mario 50 anni - Italia

 

Riflessione in solitudine

 

La televisione per stordirci

 

Sono sveglio da poco. La televisione già accesa ad alto volume scorre sotto gli occhi di tutti: le solite parole, i soliti slogan, le offerte speciali secondo un copione mille volte già visto e subito; ma ormai è Natale, il supermercato delle offerte è in aumento. Che sia diventato anche questo un mezzo per stordirci? Non importa, basta crederci.

I soliti echi, i soliti rumori ricoprono l’odore della mia coperta impolverata, ma ormai ci ho fatto l’abitudine e, quando fa freddo, mi trovo quasi a mio agio. Ci navigo dentro cercando di raddrizzarmi le lenzuola prima che cadano del tutto, in un gesto che sa tanto di pigrizia, noia e rassegnazione. Ma a chi importa la mia condizione? Uno arriva qui, vede, si abitua e impara a controllare anche il disgusto e a trattenere il fiato quando serve, quando pensa a un cesso normale. Non è solo miseria quello che colpisce, è la normalità che ognuno riesce a inventarsi. Si passa presto dall’aria cattiva al malumore.

Nessuna prigione al mondo può sviluppare sentimenti di bontà. La tensione dipende solo dalle attese. La luce della mia finestra disegna scacchi chiaroscuri; io li inseguo a occhi aperti con la mia immaginazione fino al punto più lontano; come quando, da bambino, i miei litigavano - e litigavano di continuo - io mi rifugiavo sulla mia finestra a fantasticare. Chiudevo gli occhi e li riaprivo solo quando era svanito ogni rumore. Solo allora provavo un senso di sollievo e di vuoto. Solo allora mi sentivo in pace. Anche oggi c’è una finestra da cui fantasticare; solo che non si vede niente, solo un muro, un freddo cane e un gelo al cuore. Ed è Natale.

Viene da chiedersi perché ci sono persone come me, capaci solo di rifiutare ed essere rifiutati. Forse quando in tasca i soldi sono pochi, il Natale è un giorno ancora più triste, un’altra umiliazione. Si ha un bel dire che "è solo un pensiero" ma un pensiero che costa poco è anche un pensiero da poco e chi riceve un pensiero da poco non può essere contento, neanche a Natale. Difficile rassegnarsi. Ricordo che, da bambino, c’era la messa notturna, a mezzanotte e bisognava andarci. Mi è rimasto un odore d’incenso, le grandi candele, due ore di monologo e un freddo cane.

Mi hanno battezzato, ho fatto catechismo e la cresima col vestito nuovo. Dovevo andare in chiesa senza sapere perché. Quand’ero più grande ci dovevo andare da solo e, una volta giunto a casa, mio padre m’interrogava sul Vangelo per scoprire se veramente c’ero stato. Quando non sapevo rispondere erano botte!

Così mi misi a studiare l’organo perché i monologhi mi annoiavano. La religione a scuola era obbligatoria; ti alzava la media, andavo benino. Quando mi appassionai alla musica ricevetti un voto più alto ma la materia era diventata facoltativa e non serviva più. Rinunciai ma continuai a suonare e i miei voti divennero più alti. Forse ero diventato simpatico al prete.

Si racconta che Gesù bambino sia nato da una vergine, che abbia fatto camminare gli storpi, che abbia guarito i malati, moltiplicato il cibo, camminato sulle acque e altri miracoli. Per questo l’hanno messo sulla croce, per i nostri peccati. Ma è risorto. Può sembrare un film. Ma è tutto vero… C’è chi crede nell’aldilà, in un’entità superiore, in un Dio per tutti; ci sono gli alieni, i Sai Baba, i testimoni di Geova, la statuina che piange sangue e molti altri…

Io credo che non si debba credere a tutto. Io credo in quello che vedo: nella naturalezza della vita e della morte, credo nella scienza, nella coerenza, nell’esperienza e anche negli errori, nel buonsenso, nell’intuito e nell’arte.

 

Mi piacerebbe credere anche in una giustizia sociale e nell’amore

 

I miei genitori si erano sposati in chiesa. Bisogna credere nei valori, nella famiglia, per tutta la vita - dicevano. Eppure quando - per fortuna - si sono divisi, le urla non riuscivano a coprire gli insulti nell’ufficio dell’avvocato. Poi il silenzio, più niente…

Nel senso che non ho più trovato posto nelle loro vite e nelle loro rispettive e successive famiglie.

Così sono rimasto solo, anche se ero molto giovane forse perché sono il risultato dell’errore, di un matrimonio sfortunato. Penso, però, che entrambi sono stati coraggiosi perché, a quei tempi, il divorzio era considerato una disgrazia, qualcosa di cui vergognarsi. In passato so di essere stato molto critico nei loro confronti; oggi non più perché forse posso capire quanto sia stato difficile.

Non avendo avuto una famiglia propria ho voluto costruirne una più volte; ma, senza modello a cui ispirarsi, non è stato facile. Non c’è niente da fare: non ci si libera mai delle cicatrici dei primi anni.

Per ritornare al mio ricordo di chiesa, ho avuto un’insegnante che mi accompagnava a vedere gli affreschi. Diceva che mi avrebbe fatto bene perché apprezzare le cose belle purifica l’anima e impedisce di pensare solo a se stessi. Non sono sicuro di aver recepito bene quell’insegnamento.

Oggi c’è chi reclama minareti - scandalo e imprecazioni; c’è chi ha reclamato per il suono delle campane - nessuno scandalo e comprensione. Le moschee sono piene di fedeli, gli Imam pullulano, le chiese sono mezze vuote. Cosa succede? Ci sono guerre, tsunami, l’aids, i terroristi, genocidi, falchi e colombe: tutto questo per volontà del Signore… Chi commette peccati si confessa da solo. Il prete dà sempre le stesse risposte dal confessionale.

Anche la televisione ha confezionato un confessionale. Si possono vedere giovani poco vestite che piangono e ridono e cambiano voce, come fossero parte di un esorcismo in prima visione. Un enorme successo; tutti curiosi, tutti a guardare. Ma ti prego, grande fratello, ora ti chiedo un grande regalo per questo grigio Natale, solo una preghiera, non ne posso più e, con me, molti altri… A tutti, comunque, auguri da Mario.

 

Godspower - 26 anni Nigeria

 

Stralci di vita

 

Quando ero bambino la vita era molto bella, giocavo con gli amici a scuola e anche fuori. La persona più importante della mia vita era la mamma. Un ricordo felice è quando lei mi ha comprato la bicicletta che per me era un grande regalo. Il tempo più triste è quando è morto mio padre. A scuola mi piaceva molto imparare ma non mi piaceva la matematica e la geografia era la mia materia preferita. Ho tanti amici ma l’unico che mi piace è Mogan; solo lui è l’amico più vicino. La mia prima ragazza è Victoria, adesso si è sposata. Il mio primo lavoro è stato l’operaio.

La mia vita adulta è passata bene fino a questo momento. Avevo tanti sogni ma è difficile realizzarli. Per quello sono arrabbiato perché non c’è qualcuno che mi aiuta ad andare avanti.

 

Enzo 56 anni - Italia

 

Ci consegna la sua lunga storia insieme a un biglietto con una frase scritta a caratteri cubitali: "La mia vita è iniziata 56 anni fa molto bene ed è terminata oggi molto male". La sintesi è efficace; del lungo racconto abbiamo sintetizzato alcuni passaggi che ci sono parsi più significativi.

 

Mi chiamo Enzo, e la mia esistenza è iniziata 56 anni fa a Milano; figlio unico di due genitori meravigliosi… Ero sempre vestito bene, curato in ogni particolare e la mia infanzia trascorreva serena accanto alle persone più importanti e stupende che avevo. Sino al giorno in cui ho iniziato ha frequentare il primo anno di scuola elementare.

Non mi piaceva studiare anche se i maestri mi reputavano un ragazzino molto capace. Questo era il dramma di mia madre che era molto ligia e severa in materia di studi. Il primo anno si è concluso drammaticamente con una bella bocciatura con grande disperazione della mamma che, in quel periodo, ha perso qualche chilo. A quel punto ho deciso, per amor suo, di studiare e in seguito ho mantenuto il mio proposito. Un giorno la mamma fu ricoverata in ospedale per una grave patologia cardiaca e, a quel punto, considerando che mio padre a causa del suo lavoro non poteva accudirmi, mi portarono dai nonni materni. Stavo bene anche con loro ma il mio pensiero era sempre rivolto alla persona a me tanto cara.

Lì ho terminato la 5° elementare con discreto risultato e grande soddisfazione di mia mamma che in quel periodo sembrava essersi ristabilita, tant’è che ritornai a casa tra le persone che amavo. Purtroppo la mia felicità durò ben poco a causa del nuovo ricovero in ospedale e del nuovo trasferimento presso altri parenti che vivevano in una zona molto a rischio di Milano; lì ho incominciato a frequentare cattive compagnie, bigiavo la scuola e tante altre cose. Con ciò non avevo dimenticato la promessa fatta e, alla I° media, nonostante le numerose assenze, fui promosso. Ero contento perché avevo dato una gioia a mia mamma; l’ultima, perché da lì a poco poverina è morta con la mia mano stretta tra le sue.

 

Dopo la morte della mia mamma

 

Ho avuto un trauma per la mancanza della persona che amavo di più al mondo e questo ha suscitato in me un senso di ribellione e un senso di solitudine; tutto ciò che mi ero proposto è svanito con la sua morte. Mio padre, poverino, faceva quello che poteva ma, a causa del suo lavoro, era sempre assente e io mi sentivo molto solo. Ho interrotto gli studi; intanto il tempo trascorreva tra il lavoro e una vita ai confini della legge, la stessa vita che poi ha segnato il mio destino.

Ero impiegato presso una ditta di istallazioni telefoniche, un lavoro che mi entusiasmava e, in quel periodo, ho conosciuto il mio primo vero amore. Si chiamava Anna, una ragazza bellissima con dei valori morali molto elevati, un amore grande ma - purtroppo - non sufficiente a redimermi. L’altra faccia della mia vita prese il sopravvento. Non potevo più fare a meno del lusso, dei soldi e delle belle macchine, anche se a quel tempo non avevo ancora la patente. La mia esistenza si svolgeva in prevalenza di notte; frequentavo altre donne, ero un bel ragazzo e le opportunità non mi mancavano. Decisi di lasciare il lavoro e quella ragazza stupenda.

 

Il carcere minorile: la fine dei sogni

 

A distanza di poco tempo fui arrestato e feci il mio primo ingresso al carcere minorile, lì si sono vanificati tutti i miei sogni e i miei progetti di diventare o un pilota d’aerei o un tecnico specializzato in telefonia. Uscito dal carcere sotto la responsabilità di mio padre, tornai a casa con sani propositi e nuove speranze. Lì trovai una ragazza della mia età che aiutava mio padre nelle faccende domestiche e, a distanza di poco tempo, divenne la ragazza con cui scambiavo effusioni amorose. Un bel giorno rimase incinta; non ero innamorato di lei ma mi assunsi ugualmente tutte le responsabilità e la sposai. Ero giovane, molto irresponsabile e avevo paura di non essere un buon padre.

 

I miei figli

 

La nascita di mio figlio mi rese, però, molto felice e l’attaccamento per lui fece sì che riprendessi a lavorare e a condurre una vita regolare. Ironia della sorte, una sera il destino mi ha fatto incontrare di nuovo i ragazzi con cui avevo commesso i miei sbagli. Ero combattuto tra due fronti: famiglia e bella vita. Non ero innamorato di mia moglie e, forse, se lo fossi stato, avrei desistito ma purtroppo ripresi la vita di prima. Il tempo trascorreva tra carcere, tentativi di lavoro in proprio, bella vita e figli; sì figli, perché nel frattempo ne era nato un altro. Con i miei ragazzi ho sempre avuto un ottimo rapporto, erano i miei affetti più cari, non ho mai fatto mancare nulla ma la mia vita era quasi sempre fuori casa alla ricerca di qualcosa, forse amore.

 

La mia attuale compagna

 

Questo non tardò ad arrivare. Nel 1974 conobbi la mia attuale compagna e mi innamorai subito di lei perdutamente; decisi così di separarmi e formare una nuova famiglia. Avevo un po’ paura perché i miei figli vivevano a casa di mio padre insieme a mia moglie e temevo che la mia nuova compagna fosse contraria a che io li vedessi di frequente ma sbagliavo perché quell’angelo non solo mi incitava ad andarli a trovare ma si sacrificava anche alla domenica per darmi l’opportunità di trascorrere del tempo con loro e con mio padre.

Questo amore aveva cambiato totalmente la mia vita; avevo smesso di frequentare la cattive compagnie e avevo ripreso il lavoro aiutando la mia compagna nel suo negozio d’abbigliamento. Tutto procedeva nel migliore dei modi, avevo conquistato anche la fiducia e il bene di sua mamma, ero "ai settimi cieli".

 

Dentro e fuori dal carcere: un’altalena snervante

 

Purtroppo, nel 1976 ritornai di nuovo in carcere sino al 1977 per scontare una pena residua. Il destino a volte gioca brutti scherzi e, durante la mia permanenza in carcere, il negozio fallì sommergendo la mia compagna di debiti. Questa fu una cosa per cui mi arrabbiai molto. A quel punto avevo già deciso di risolvere a modo mio tutti i problemi ma l’avversione della mia compagna verso i miei metodi illegali mi ha fatto desistere. Detto fatto ci rimboccammo le maniche e legalmente pagammo tutti i debiti con molta fatica e privazioni, ma felici. Intanto il tempo trascorreva e il mio amore per lei cresceva sempre più.

A un certo punto, però, le cose cominciarono a complicarsi e dovetti chiudere la ditta che avevo aperto nel 1981. Io soffrivo perché non potevo dare alla mia compagna quello che si meritava; allora progettai, a sua insaputa, una truffa consistente ai danni di persone facoltose. Andò bene ma nell’agosto 1984 mi arrestarono. Uscii dopo sei mesi per decorrenza dei termini. Mia moglie, nonostante il dispiacere per quello che avevo fatto, mi aveva seguito con amore e, una volta uscito, riprendemmo la nostra vita felice.

Nel 1986 aprii un’altra ditta che mi ha dato molte soddisfazioni… Le cose andavano benissimo sino al giorno in cui feci un favore ad una persona che mi costò quattro anni di custodia cautelare. Persi tutto quello che avevo. Tranne l’amore. Ero furibondo perché avevo costretto la mia compagna ad affrontare sacrifici enormi seguendomi per tutta la carcerazione con tanta dedizione anche perché sapeva dell’ingiustizia in cui ero incappato... Non auguro a nessuno quello che ho passato anche a livello affettivo; durante la carcerazione ho perso mio padre senza poterlo vedere vivo per l’ultima volta poiché il permesso scortato arrivò lo stesso giorno della sua morte. Questo è un altro fatto per cui mi arrabbiai. Sono uscito e la mia vita ha continuato il suo corso. Intanto il percorso del mio procedimento andava avanti…. Pensavo di non ritornare più in carcere ma, nel novembre 2005, l’ultima Cassazione ha confermato la sentenza andando contro agli altri annullamenti. Non me l’aspettavo anche perché nel frattempo avevamo iniziato una piccola attività in proprio .

 

Mia moglie mi ha accompagnato alla soglia del carcere

 

Comunque anche in questa occasione mia moglie è stata determinante, consigliandomi di costituirmi per terminare definitivamente i miei debiti con la Giustizia quantificati in dieci anni e tre mesi… È stata lei ad accompagnarmi sino alla soglia del carcere, incurante dei sacrifici che doveva ancora sopportare per non farmi subire, oltre alla mancanza di libertà, altre privazioni. Fruisco di sei colloqui mensili e sino ad oggi non ne ho perso uno. Questo è amore e io sono molto orgoglioso d’essere amato da un angelo. Questa è la sintesi della mia vita e questa è l’ultima parentesi carcerari. Altre non ce ne saranno più perché la libertà e i sacrifici della persona che amo non hanno prezzo

 

Alle mogli, ai figli, alle mamme e ai papà, ai fratelli e agli amici delle persone detenute nel carcere di Piacenza un pensiero pieno di affetto e l’augurio di un natale sereno e un annuo nuovo pieno di speranza.

 

Cinque cose che vorrei dire

a una signora bionda in coda alla cassa

di un supermercato del centro

 

È una signora elegante e vivace non più giovane e non ancora anziana che, in una banale mattina d’autunno, con un tono di voce insolitamente alto comincia a inveire contro il governo, le tasse e, in un crescendo inarrestabile, contro l’indulto - fonte di ogni male. In una location piuttosto inadeguata: la coda alla cassa del supermercato in ora di punta. La sua indignazione raccoglie una serie imprevedibile di consensi, esplicitati, accennati o appena sussurrati. Ma pur sempre consensi. Ho pensato che forse era faccenda di mala-informazione e che era giusto farle sapere qualche cosa in più.

Le persone uscite con l’indulto erano e sono persone ormai vicine al "fine pena": nel giro di tre, due, un anno o un mese soltanto sarebbero uscite comunque. Senza tanto clamore e inevitabilmente. In tutti i paesi civilizzati la pena ha un inizio e una fine.

Esiste una legge - incredibilmente disattesa - che prevede la possibilità che le persone detenute dopo aver scontato una parte della pena, a seconda della gravità del reato, siano gradualmente riammesse nella società mediante le cosiddette "misure alternative": semilibertà, affidamento in prova e detenzione domiciliare per permettere loro di ricostruirsi una vita regolare. Purtroppo, per una evidente inefficienza del sistema, solo un numero modesto di persone detenute riesce a usufruire di questa opportunità e, tra queste, la percentuale di coloro che subiscono una revoca e devono, quindi, tornare in carcere, si aggira intorno all’1-2 %. Si può, quindi, ragionevolmente supporre che, se lo Stato Italiano fosse in grado di applicare le sue stesse leggi, la gran parte delle persone uscite con l’indulto, di questi tempi, avrebbe comunque già lasciato il carcere. Magari all’interno di progetti di reinserimento studiati ad personam.

È facile, d’altronde, immaginare che Lei non sappia - e questa ignoranza sicuramente La assolve - in quale stato di sovraffollamento si trovassero gli istituti di pena del nostro paese prima dell’indulto. Sono certa che se avesse potuto anche una sola volta vedere come vivevano le persone detenute fino al giugno di quest’anno, beh sono veramente sicura che avrebbe capito il senso di un provvedimento che se non ha risolto i tanti - troppi problemi delle nostre carceri, sicuramente li ha alleggeriti. Almeno un po’. E, La prego, si tranquillizzi: non si trattava di clemenza o di buonismo, per carità, era solo l’ennesima italica emergenza.

Sono certa, d’altro canto, che Lei, da buona cittadina, conosce la Costituzione del Suo Paese e sa bene che nel testo fondante della nostra democrazia, la pena detentiva ha funzione "rieducativa" e non di punizione o peggio ancora di vendetta. Ma non dubiti: è ancora e sempre un castigo molto pesante le cui implicazioni si allargano, col passare del tempo, a macchia d’olio. Non è mai solo privazione della libertà ma diventa, di volta in volta, solitudine, crisi degli affetti, povertà, indebolimento della salute fisica e grande sofferenza.

E in ultimo Le vorrei dire che tra le tante - troppe magagne di questo nostro difficile e deludente Paese, l’indulto sarà quella che, a Lei personalmente con ogni ragionevole probabilità, darà meno problemi. Mi creda. Ma prima di salutarla e di farle gli auguri sinceri di Buon Natale, vorrei aggiungere che avrei tanto voluto parlare un po’ con Lei e sono certa che ci saremmo capite. Magari con calma e non lì, in coda alla cassa di un supermercato. Buon Natale.

 

Carla Chiappini

 

 

 

Tardivo "mea culpa" sul Corriere on-line del 13 dicembre 2006

 

Quel tiro all’indulto

 

Sarà colpa della fretta, vista la tarda ora in cui la notizia è arrivata. Sarà anche il frutto di indicazioni investigative che si sono dimostrate, nel giro di poche ore, fragili e fuorvianti. O anche, a voler concedere un’ulteriore attenuante, l’aspetto di verosimiglianza che tutta la storia, a cominciare dal profilo del suo protagonista, ha messo in mostra. Fatto sta che colpisce la facilità con cui tutti i telegiornali e i giornali, compreso il nostro, hanno accolto la tesi della colpevolezza del tunisino ingiustamente accusato di aver fatto strage della sua famiglia in provincia di Como. E colpisce anche la reiterata attitudine a caricare il provvedimento di indulto approvato quest’estate di valenze negative che vanno ben al di là della sua reale portata. Come se l’indulto fosse la causa di una criminalità vecchia e nuova che sconvolge l’Italia da ben prima dell’applicazione di quel provvedimento. Discutere dell’indulto è ovviamente lecito e persino doveroso. È demagogico invece stabilire un nesso logico ed emotivo permanente tra l’indulto e qualunque manifestazione criminale insanguini l’Italia. O gridare all’infamia dell’indulto per ogni omicidio commesso in Italia. È sbagliato creare mostri, sempre. Ma anche fare di una legge un mostro. Sbagliato. E troppo facile.

 

L’Associazione di volontariato "Oltre il muro" diventa editore di Sosta Forzata

 

La nostra giovane associazione, nello scorso mese di dicembre, ha registrato presso il Tribunale di Piacenza il giornale del carcere "Sosta Forzata" che diventa, dunque una testata autonoma. Nel dare ai lettori questa importante comunicazione, intendiamo esprimere la nostra più sentita gratitudine a Don Davide Maloberti direttore del "nuovo Giornale" che ci ha permesso di uscire in allegato al settimanale diocesano e che ci garantisce anche per i prossimi numeri una diffusione altrimenti inimmaginabile. E poi grazie di cuore alla Fondazione di Piacenza e Vigevano che ha finanziato la stampa di questo numero natalizio e al Centro di Servizio per il Volontariato di Piacenza che ha promosso e sostenuto il progetto editoriale fin dal primo numero. Grazie al Comune di Piacenza, all’Associazione La Ricerca, alla Direzione della Casa Circondariale e agli operatori dell’area trattamentale. Buon Feste.

 

Valeria Parietti presidente di "Oltre il Muro"

 

Scrivere a:

"Sosta Forzata" presso Svep, Via Capra 14 29100 Piacenza

Associazione di Volontariato "Oltre il muro" presso Svep, via Capra, 14 29100 Piacenza.

 

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