Ristretti Orizzonti

 

Reportage

La "Casetta Piccoli Passi" dove si incrociano vite,

sogni, speranze e dolori dei detenuti e dei loro cari

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

25 maggio 2008

 

La possibilità del permesso premio è l’occasione per i detenuti di vivere tutti gli affetti negati in carcere; Padova è fortunata perché ha una casa di accoglienza che rende questo possibile, una struttura che molte città le invidiano. La "Casetta" Piccoli Passi in via Po 261/263 (a pochi chilometri dal centro in località Limena), è gestita dal Gruppo Operatori Carcerari Volontari (O.C.V. di Padova), associazione costituitasi il 28 novembre del 1978 e a cui nel 1999 il Comune ha concesso in comodato una palazzina mal ridotta, poi restaurata dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo: «Per anni era stata adibita ad uffici del dazio e vi aveva abitato un uomo che quando arrivammo noi era ormai vecchio, solo e stanco, spaventato da quella casa a due piani con tutto quello spazio sia davanti che sul retro» ricorda Eleonora Dalla Pasqua, oggi direttrice della "Casetta".

 

Una ventina di volontari si turnano dalle 9 alle 13 di mattina, e dalle 13.30 alle 18.30. Alle dieci di sera il cancello si chiude, ma la struttura (protetta 24 ore su 24), continua ad essere sorvegliata da un guardiano, che vi rimane tutta la notte: quattro camerette, due bagni, un’ampia sala da pranzo: «Nel ’99 mancavano mobili, lampadari, tende…praticamente – dice la direttrice - i due appartamenti erano vuoti, li abbiamo riempiti noi, un gruppo di volontari che ancora oggi lavorano assieme».

 

Al piano terra c’è anche una sala da pranzo, un ufficio e una cucina spaziosa, «Quando arriva la famiglia al completo sappiamo già che la prima cosa che chiederanno è quella di poter scaldare il pranzo preparato a casa per il figlio o per il marito» spiega Eleonora. Parcheggiano la macchina, e scendono con borse piene di tutte quelle che una volta - prima del carcere - erano le cose preferite dei loro uomini.

I Piccoli Passi accoglie tutti, senza distinzione fra detenuti italiani e stranieri: l’unico divieto è quello di bere vino e altri alcolici all’interno della struttura, e l’obbligo è quello del rispetto degli orari per i familiari.

 

Sul prato dietro la casa Cinzia, da Verona in visita al suo compagno, gioca con due cani: «Mi hanno permesso di portarli qui con me», dice sorridendo felice, «e poi guarda qui quanto verde: non ce l’ hai neppure a casa tua un giardino del genere!». Ottimo secondo lei anche il rapporto con gli altri ospiti: «La sera si cena tutti assieme, si ride e si chiacchiera». In giornata la raggiungeranno anche i figli e la sorella. «Questo posto è il massimo», le fa eco Giorgio, il suo ragazzo: «La famiglia ti viene a trovare e i bambini giocano all’aperto; mangiamo qui fuori, facciamo grigliate….per chi come me non conosce Padova e non saprebbe dove andare in permesso, è davvero il non plus ultra». Ma non sono le comodità e i servizi a rendere così speciale la "Casetta", ci sono infatti altre strutture di accoglienza a Padova con camere anche molto belle.

 

Il fatto è che questa di via Po è una vera e propria casa, in cui, nelle parole di Eleonora: «avviene il miracolo dell’incontro in un luogo privo di sbarre fra genitore e figlio, figlio che ha sbagliato ma che rimane pur sempre figlio». I Piccoli Passi, come tutte le case vere, racchiudono - sotto lo sguardo discreto dei volontari - mille incontri di occhi, tante parole mai dette, domande non fatte, risposte e promesse. E come tutte le case vere testimoniano richieste e gesti intimi e personali: «Abbiamo assistito alla scena di un ragazzo che, appena sceso dalla macchina, è corso ad abbracciare un albero; altri si alzano in piena notte per poter guardare le stelle, altri ancora ci domandano che venga loro assegnata una camera sulla strada, per poter sentire il rumore delle auto che corrono…», racconta ancora Eleonora.

 

Gli stranieri - specie i nordafricani - la salutano con un bacio sulla fronte, il gesto d’affetto riservato solo alle madri: «La figura paterna e materna per questi ragazzi è completamente assente - spiega lei – papà e mamma sono lontani, magari pure poveri, e allora, in questa loro profonda solitudine, in più d’uno mi domanda: "posso abbracciarla?" ».

E proprio come un bravo genitore, Eleonora vigila su chi viene a trovare i suoi ospiti, ci tiene a incontrare e conoscere parenti, cugini, amici e amiche varie, che a volte attraversano non solo tutta l’Italia, ma interi continenti per arrivare in Via Po: «Una volta – ricorda - abbiamo ospitato la moglie di un detenuto che veniva dalla Malesia: che persona stupenda! È stata con noi quindici giorni: non ce l’avrebbe mai fatta ad affrontare la spesa di un albergo.».

 

Tutti chiamano Eleonora "Mamma", tutti tranne Mario. «È per via dell’età…potrebbe essere mia sorella!". Mario ha finito la sua pena dopo la bellezza di 52 anni trascorsi in carcere, finalmente libero gli è stata assegnata una casa dal Comune di Padova, e mentre attende il contratto di locazione soggiorna ai Piccoli Passi. «Sono uscito in permesso per la prima volta dopo 29 anni e 6 mesi passati consecutivamente dietro le sbarre: è stata una sensazione incredibile poter stare con mia nipote e la sua famiglia. Però – aggiunge –a casa i carabinieri suonavano ogni giorno nel cuore della notte e ovviamente svegliavano tutti, bambini compresi. Perciò preferisco stare qua e che sia la mia famiglia a venirmi a trovare».

 

Eleonora è autrice di un libro sulla sua vita, come lo definisce lei un’opera omnia che raccoglie tutti i suoi pensieri, racconti, poesie, romanzi. Si intitola "Più nomi Una donna" (Cleup, 2007), e riserva diverse pagine all’esperienza della "casetta". Ne riportiamo qui di seguito un estratto, perché particolarmente rappresentativo delle emozioni e del vissuto che le mura dei Piccoli Passi custodiscono: Un giorno, una donna tutta vestita di nero mi chiede: "lei è mamma?"; io rispondo di sì, mi guarda intensamente forse come solo due occhi di madre sanno fare, mi guarda e tace, lacrime cadono dai suoi occhi stanchi, continua a guardarmi, poi prende per mano suo figlio e dice: "vede, questo mio figlio è l’unico che mi è rimasto, ed è molto ammalato; avevo altri due figli che sono morti, questo è quello per cui io vivo; vede: fatica a respirare, ha avuto molti interventi, io so quanto lui soffre; è la prima volta dopo tanti anni che noi ci vediamo, io abbraccerò questo mio figlio ma la prego, se anche lei è mamma, lo riaccompagni in carcere anche prima dell’orario previsto: sento il mio cuore battere sempre più forte, non vorrei che lui se ne andasse via prima del tempo, ma non posso dare un grande dolore a questo mio unico figlio magari cadendo a terra svenuta. La prego, non ce la faccio più: anche la felicità è difficile da sopportare".