Ristretti Orizzonti

 

Manicomi e carceri: due istituzioni totalizzanti

con molte dinamiche in comune

A cento anni dall’inaugurazione dell’ex manicomio di Padova, riflessioni

sul bisogno di escludere che ci viene dai mostri che abbiamo dentro

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

20 luglio 2007

Cadeva esattamente un mese fa l’anniversario dell’inaugurazione dell’ex manicomio provinciale di Brusegana a Padova. Una struttura che si è sempre distinta nel triste panorama italiano per essere estremamente all’avanguardia. Nella costruzione ci si ispirò al primo dei tre grandi della psichiatria padovana, Tebaldi, il quale già un secolo e mezzo fa chiedeva manicomi aperti nelle cui stanze passasse l’aria e la luce, l’abolizione delle docce correzionali e dei metodi violenti e coercitivi, e l’adozione della "cura morale". Con Belmondo, primo direttore dal 1906, il manicomio si caratterizzò subito per l’assenza di camiciole, manicotti e altri sistemi di contenzione fisica, e dal 1947 al 1971 sotto la guida di Barison (il terzo grande della psichiatria patavina), vide l’assunzione dei primi medici, l’adozione delle cartelle cliniche, della diagnostica e, vera rivoluzione, l’introduzione del servizio sociale e degli psicologi. Il professore anticipava così l’idea di lavoro d’equipe pluriprofessionale, per far fronte alle diverse dimensioni della malattia. Fondamentale era la conoscenza delle famiglie e della comunità di appartenenza, perché ad ogni equipe competeva una porzione di territorio, nel rispetto della logica di continuità terapeutica tra "dentro e fuori" e della prevenzione. Barison che curava tramite l’incontro: "Quello che funziona è l’essere qui ora e insieme", amava dire.

A Padova tutto ciò esiste molto prima della legge 180 del 1978, la cosiddetta Basaglia; molto prima anche della 41 del 1968.

 

La storia del manicomio di Padova è incredibile e sconvolge per la sua modernità, lo sa bene Laura Baccaro, psicologa e referente del Centro studi Barison, che racconta come quella del Centro (riconosciuto con delibera del direttore generale Rao nel 2005) sia un’idea nata nel 2001/2002 dal dott. Costantin, allora a capo del Dipartimento Socio-Sanitario dei Colli, ora direttore dei Servizi Sociali assieme al dott. Fasolo, allora direttore del Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale: «Stiamo recuperando la biblioteca storica scientifica dell’ex O.P. sino ad ora non accessibile, abbiamo recuperato le cartelle cliniche dell’Ospedale che erano state spostate a Occhiobello, e abbiamo iniziato a lavorare affinché questo in cui ci troviamo, divenga da luogo chiuso un luogo di cultura e scambio». "Dai non luoghi all’esserci con" è il nome di questo progetto di recupero della memoria di tutti quelli che hanno abitato il complesso. «Nel 2002 abbiamo realizzato un’esposizione delle opere dei ricoverati qui ai Colli dai primi del ’900 agli anni ’90. A novembre invece, sarà presentato un libro - che mi vede co-autrice assieme a Vittorio Santi e s’intitola come il progetto - che raccoglie le voci di chi nell’ex manicomio ci ha lavorato. Inoltre – continua la Baccaro – stiamo procedendo all’archiviazione in dvd e a quella quantitativa delle cartelle cliniche, con l’obiettivo di rientrare in "Arcanamente", programma per la schedatura analitica di cartelle cliniche degli ex ospedali psichiatrici, promosso dal Ministero dei Beni Culturali». Al Centro Studi Barison altri due i progetti in cantiere: ridare voce alle donne che sono state ricoverate nel secolo scorso, partendo dalle lettere a loro indirizzate - mai spedite o ricevute - e ricostruendo la loro vita prima e dopo il manicomio; l’altra idea è quella di ricostruire la storia dei militari passati per il complesso psichiatrico di Brusegana.

 

Ricordando i cento anni dell’ex manicomio padovano, una voce che si fa sentire è senz’altro quella delle numerose assistenti sociali che vi hanno lavorato. In molte ricordano i diversi suicidi di pazienti seguiti all’entrata in vigore della legge Basaglia: «Il risultato – sostengono specie quelle della "vecchia guardia" - è stato di lasciare la gestione della malattia sulle spalle delle famiglie, che, specie per i casi più gravi, non ce l’ hanno fatta allora ad accudire il congiunto e non ce la fanno oggi. Alla fine pazienti e famiglie si arrendono e si lasciano andare». Raccontano che prima della 180 l’ex ospedale psichiatrico di Padova aveva intessuto una strettissima rete con tutti gli attori del territorio, per cui per esempio l’equipe si recava a domicilio da quanti stavano troppo male per ammettere la loro stessa malattia, tornandovi più volte per aiutarli a riconoscerla. «La gran parte degli psichiatri oggi neppure sa che faccia hanno i familiari dei pazienti, perché a casa loro non ci vanno mai. Dunque non si instaurano rapporti di fiducia e tanto meno si può lavorare sulla prevenzione. I malati poi non si curano in quindici giorni!». E sembra essere proprio quest’ultima la critica più severa all’attuale concezione territoriale della cura, secondo cui si cerca di limitare il ricovero in reparto alla fase dell’acuzie - dunque alle prime due settimane - per facilitare l’immediato re-integro del paziente nel territorio.

 

«Prima della Basaglia la cura si protraeva, e il successivo re-integro era sempre più difficile, il muro che divideva l’ospedale psichiatrico dalla città sempre più insormontabile, tant’è che molti pazienti non ne sono più usciti e alcuni sono praticamente nati e morti lì dentro. È anche a causa di quest’alienazione che molti si sono suicidati, quando hanno dovuto fare i conti con il re-inserimento in società previsto dalla 180», controbatte Giada Boldetti, psichiatra Responsabile Livello Riabilitazione Primo Servizio di Padova. E pur riconoscendo che subito dopo lo smantellamento degli O.P. la popolazione si era effettivamente sentita spiazzata, e pur confermando che quando il paziente non accetta la malattia è lo psichiatra che deve andarlo a cercare, mentre non sempre ciò avviene, la Boldetti sostiene che accanto alla consapevolezza e alla gestione della propria malattia, i pazienti hanno bisogno di raggiungere un’autonomia occupazionale-lavorativa nonché abitativa, all’interno della società. «I manicomi e gli O.P. (come vengono rinominati a seguito dell’applicazione della legge del 1968) – ricorda la psichiatra - erano isole a sé stanti, compreso quello di Padova, per quanto avanzato: le città li usavano per tenersi al riparo da tutte le emarginazioni, tanto che in alcuni casi ci finivano dentro dalle prostitute agli alcolizzati. Credo piuttosto che parte dei problemi di oggi – continua – risieda nel fatto che a livello di società tutta manca la tolleranza verso queste persone, lo sforzo di capirle nei loro bisogni, al di là di quello che dicono». Esiste ancora uno stigma che identifica i malati mentali nella testa della gente come degli incurabili, imprevedibili, strani, pericolosi: «E questo avviene esattamente perché c’è separazione, non ci si conosce. A queste persone – rimarca la Boldetti - deve essere lasciato un posto in società. Il lavoro per esempio, è un’aspirazione di tutti, loro non fanno eccezione: se il mercato occupazionale non si basasse meramente sulla logica della massimizzazione del profitto, per i malati di mente ci sarebbe posto e dunque integrazione. In più, tante delle voci che li ossessionano ricordando loro quanto sono inutili, probabilmente li lascerebbero più in pace…».

 

Non ha dubbi neppure Laura Baccaro, che risponde citando Guarino quando afferma che la libertà è terapeutica: «La necessità di "chiudere" – spiega la psicologa del Dipartimento Socio Sanitario dei Colli – è un bisogno nostro, non della patologia. Così alla persona malata il manicomio non offre altro che una relazione istituzionalizzata, derivante da un’istituzione totalizzante. Questo produce alienazione e meccanismi del tipo: "Mi vuoi malato e io sono come mi vuoi"».

 

Immediato il paragone con la realtà del carcere: «Se prendiamo il caso dell’istituzione penitenziaria – continua la Baccaro - troviamo che le stesse dinamiche si ripetono: noi membri liberi della società abbiamo bisogno dei detenuti per scacciare i mostri che ci abitano dentro, per esorcizzare le nostre paure e i nostri mali. Ecco perché non permettiamo ai carcerati, proprio come ai malati di mente, di liberarsi dai loro ruoli e di "esserci": la verità, è che noi i non luoghi li vogliamo e li chiediamo a gran voce».