Ristretti Orizzonti

 

Settimo appuntamento per la rassegna "Il libro nel bicchiere"

Sabato 9 febbraio al Bar Bologna è stato il turno di un libro di

donne dal coraggio di parlare di tutto

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

9 febbraio 2008

 

Continua la rassegna Il libro nel bicchiere, organizzata dal Consiglio di Quartiere 4 Sud-Est di Padova, in collaborazione con l’Associazione Alvise Cornaro e I Nuovi Samizdat. Sabato 9 febbraio al Bar Bologna Ornella Favero (direttore di Ristretti Orizzonti e presidente dell’Associazione Il Granello di Senape) e Marina Bolletti (insegnante e membro del Comitato esecutivo regionale veneto dell’Associazione Biblioteche Italiane, oltre che del Gruppo di ricerca sulle Biblioteche scolastiche del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Padova) hanno presentato il libro "Donne in sospeso: testimonianze dal carcere della Giudecca" (Il Granello di Senape, Padova, 2004).

 

Un gruppo di donne che sedute attorno a un tavolo nella Casa di Reclusione di Venezia parlano di tutto senza paura e con sincerità: di figli, uomini, sfighe…«Io dico sempre che la sostanziale differenza fra le donne e gli uomini reclusi sta nella concretezza. Gli uomini in carcere vivono in maniera poco reale, si riempiono la testa di illusioni, fanno un grossissimo affidamento su chi hanno all’esterno - spiega Ornella -. Le donne invece tengono molto più i piedi per terra, nonostante spesso non abbiano nessuno accanto».

 

Accanto al direttore siede una di loro, Paola, una di quelle che paura di dire le cose proprio non ne ha: «In carcere avviene letteralmente la spersonalizzazione dell’individuo, un processo che inizia addirittura a livello linguistico, con l’uso generalizzato di diminutivi; ad esempio, per qualsiasi tipo di bisogno non si usa dire che il detenuto/la detenuta deve fare "richiesta scritta", ma che deve presentare "la domandina". Ma è ogni aspetto dell’individualità e dell’autonomia a venir sminuito dall’istituzione totalizzante carcere, che da una parte ti tranquillizza con la lusinga che tu non ti devi preoccupare di nulla, e dall’altra però lavora affinché tu regredisca, abbassando così la soglia della consapevolezza di ciò che stai vivendo».

 

Secondo Paola "sopravvive" alla detenzione chi affronta il lento e faticoso processo della presa di coscienza del sé e dei rapporti con gli altri: «Le relazioni fra detenuti sono spesso improntate sulla falsità, il sistema carcerario lavora per insinuare sospetti, rivalità e gelosie in mezzo ai suoi abitanti. Anche i rapporti con gli agenti di sicurezza risentono di questo clima. Non c’è nulla di normale, di naturale. Parlando di affettività ad esempio -dice Paola - bisogna stare attenti anche a sorridere e vige la censura del semplice abbraccio fra compagni: se lo dai o lo ricevi puoi infatti essere accusato di atti osceni in luogo pubblico; ma se fosse un luogo pubblico – lancia la provocazione - sarebbe aperto, no?».

 

Una spersonalizzazione, quella del sistema penitenziario, che passa anche attraverso la privazione del sesso: «È una delle cose che mi sono mancate di più. Un essere umano ha dei bisogni fisiologici: mangiare, dormire, andare in bagno… fare sesso rientra fra queste necessità. Ovviamente sono innumerevoli i casi di omosessualità che nascono dalla situazione detentiva – racconta Paola – fenomeno che l’istituzione tenta di arginare togliendo porte e chiavi dai bagni delle celle! La privazione del sesso non può fare parte della pena: così si calpesta solo la dignità umana».

 

Per riuscire a rimanere vigili e presenti a se stessi, è importante mantenere i rapporti col mondo esterno e qui la nota dolente cade subito sui figli delle detenute che pagano quanto la madre pur essendo innocenti, figli che con il sopraggiungere della sua carcerazione vengono di fatto abbandonati: «C’è troppa sofferenza in una separazione del genere, troppo dolore: si può cercare di recuperare il rapporto, ricucire, rammendare a destra e sinistra, ma nulla sarà mai più come prima, la cicatrice rimane. I figli non ti perdonano mai, sono i giudici più implacabili e tante volte una madre in carcere finisce col temere più il giudizio del figlio che quello del giudice o della società».

 

Società che, una volta fuori, rappresenta una dura sfida da vincere; perciò, dice Paola: «Diventano di fondamentale importanza tutte le iniziative e i progetti che mirano alla creazione di ponti fra il dentro e il fuori, per agevolare gradualmente il re-inserimento socio-lavorativo di detenuti ed ex detenuti».