Ristretti Orizzonti

 

Detenuti viaggiatori

di Francesca Carbone, redazione di Ristretti Orizzonti

 

23 dicembre 2006

 

Al Due Palazzi di Padova, proprio come negli altri carceri d’Italia, circa un terzo dei detenuti è straniero, quindi minimo un terzo di loro ha viaggiato almeno una volta nella vita.

E non si tratta solo dei classici viaggi della speranza dell’immigrato che si imbarca sulla prima carretta del mare convinto di trovare l’America: una storiella che ci piace raccontarci forse, ma che ha smesso di frullare nella testa della maggioranza degli stranieri già molti anni fa.

Molti - è vero – hanno scelto l’Italia nella speranza di costruirsi una propria stabilità economica e c’è chi l’ha fatto perché abbagliato dalla discutibile idea di impunità assoluta che i media amano così spesso affiancare all’immagine dello stivale, ma alcuni vi si trovano perché a loro piaceva il Bel Paese, punto e basta: la sua gente, il cibo, le città.

 

Sono in molti poi quelli approdati da noi spinti dalla voglia di scoprire cose nuove, dalla curiosità, dal desiderio di mettersi alla prova, diversi ci sono arrivati dopo aver vissuto in altri paesi. Magari certo, all’inizio hanno cercato appoggio da qualche parente o conoscente già stabilitosi, ma con lo spirito pratico con cui lo farebbe ciascuno di noi nella medesima situazione, e non perché in stato di assoluta indigenza, né necessariamente perché provenienti da famiglie che vivevano al di sotto della soglia di povertà: sono numerosi infatti i detenuti stranieri con origini, se non benestanti, comunque associabili ad uno standard di vita dignitoso.

 

E proprio i "tratti del viaggiatore" caratterizzano molti di loro, a partire dalla capacità di apprezzare i posti diversi da quello in cui sei nato, tipica di chi ha visto molti luoghi e ha capito che ogni paese ha cose belle e cose brutte.

Viaggiare ti cambia in modo definitivo: «È come una droga, quando cominci non puoi più farne a meno. Così piano piano perdi l’appartenenza - non il legame, quello mai! – alla tua terra, senza sentirti "a casa" però da nessuna parte. Abitare in tanti posti – raccontano, ti fa diventare un ibrido: né carne né pesce, e non c’è possibilità di tornare indietro». Ma alla domanda: "Se avessi un'altra vita lasceresti di nuovo il posto in cui sei nato?", la risposta, tutto considerato, è quasi sempre "sì": «Viaggiare è un’esperienza che ti apre il cuore e la mente, ti arricchisce in una maniera straordinaria. Se sono finito qua dentro vuol dire che ho sbagliato, ma non baratterei mai la libertà con la crescita personale e umana degli anni passati in giro per l’Europa».

 

La nostalgia e il rispetto per le proprie origini, la famiglia e i genitori si mischia così alla consapevolezza che tornare a vivere a casa ormai non è più possibile: «Da quando sono stato arrestato – ricorda un detenuto - una ragazza mi è sempre rimasta vicina: la fidanzata che avevo da adolescente, prima di partire per l’Europa, il primo amore. Mi scriveva, voleva che le telefonassi quando ero in permesso e se non lo facevo si arrabbiava moltissimo. Io però dopo averle chiesto: "Ciao, come stai?’", non sapevo più cosa dirle, non mi riconoscevo più nelle sue parole, in quel modo di pensare. "Io ti aspetterò, non importa quanto tempo ci vorrà", così mi diceva lei, e allora io cercavo di convincerla a rifarsi una vita, perché la mia pena era troppo lunga e che non aveva senso aspettarmi. È ovvio - continua - che sarei stato contento di saperla felice anche se a fianco di un altro, ma il primo motivo che mi spingeva a farla desistere dal suo intento è che io non sarei mai potuto tornare con lei, troppo diversi».

 

Se per i detenuti stranieri il viaggio di andata sapeva di speranze ed era colmo di aspettative, il viaggio di ritorno che li attende con l’espulsione a fine pena si colora di ansia: l’imbarazzo di tornare da "falliti" in un ambiente estraneo con figli ormai grandi, compagne di un tempo magari accanto a un altro uomo, genitori morti. La paura di ricadere nei vecchi giri… Alcuni di loro hanno vissuto più tempo all’estero che in patria, certi hanno studiato in Italia (a volte in carcere) e conoscono l’italiano meglio della loro lingua d’origine; c’è chi ha lavorato in regola nel nostro paese anche per decine di anni prima di finire al Due Palazzi. «Ecco perché è normale – commentano - che una volta re-impatriati molti ex detenuti facciano di tutto per tornare qui in Italia».