La nuova legittima difesa

 

La nuova legittima difesa: una modifica necessaria?

di Carlo Alberto Zaina (Avvocato)

 

Legislatura 14º - Disegno di legge N. 1899

"Modifica all’articolo 52 del codice penale in materia di diritto all’autotutela in un privato domicilio"

 

Art. 1.

(Diritto all’autotutela in un privato domicilio)

 

1. All’articolo 52 del codice penale sono aggiunti i seguenti commi:

«Nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:

a) la propria o altrui incolumità;

b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.

La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale».

Premessa

 

Si è fatto un gran discutere dell’esigenza di porre un freno all’aggressione che inermi cittadini patiscono costantemente da parte della criminalità (micro o macro non è questo il problema), dotando la società civile di strumenti legislativi, i quali permettano all’aggredito di fronteggiare l’ingiusta offesa che egli può patire, sia in relazione alla propria vita ed alla vita dei propri cari, sia in relazione ai propri beni e diritti.

Si è posto, soprattutto, l’accento – specialmente sull’onda di reiterati episodi di brutali e gravi fatti di sangue occorsi recentemente – sulla necessità che venga maggiormente e più efficacemente tutelato il domicilio privato e, comunque, la sfera dei luoghi di abitazione e lavoro che subiscono il numero più rilevante di attentati.

Il punto di partenza da cui il legislatore ha mosso il proprio iter è quello di un superamento ed una modifica del testo dell’art. 52 cp, che è stato giudicato, rispetto all’evoluzione criminosa maturatasi nel tempo, inattuale ed insufficiente, comunque, meritevole di una necessaria integrazione di natura specifica.

Significativa di tale orientamento è la relazione della proposta di legge S. 1899[1], con la quale l’On. Rossi ha sostenuto che in presenza di “fatti di cronaca, riguardanti violente aggressioni in abitazioni private o in pubblici esercizi a scopo di furto, è corrisposta, nella prova dei fatti, una lacunosa applicazione della scriminante.”

In buona sostanza, a dire dei firmatari della legge di modifica dell’art. 52 c.p., si sarebbe giunti – attraverso una rigorosa interpretazione della norma da parte della magistratura – “ad una sostanziale inapplicabilità della esimente da esso prevista”.[2]

Viene, così criticata (a torto) quell’impostazione giurisprudenziale, in base alla quale si è imposto un giudizio di proporzionalità (ed adeguatezza) della reazione dell’aggredito rispetto all’illecito atto di offesa commesso nei di lui confronti, affermandosi che “Ai criteri stabiliti dalla legge per valutare se una reazione ad una aggressione possa essere considerata lecita è stata data una interpretazione che ha di fatto trasformato un istituto diretto a tutelare le vittime in uno strumento che finisce con il giovare innanzitutto agli aggressori. All'aggredito sono imposte valutazioni che, in concomitanza di una aggressione, non sempre possono essere effettuate”.[3]

Sono queste affermazioni che inducono ad una riflessione e che meritano attento esame.

 

I principi dell'art. 52 cp previgente

 

Partiamo dai principi che la giurisprudenza ha elaborato in relazione all’art. 52 c.p.[4].

Il Supremo Collegio ha sempre posto l’accento, in maniera incontrovertibile su alcuni parametri, decisivi al fine di invocare l’esimente in parola.

Essi possono essere individuati nella:

  1. intenzionalità condizionata dell’azione tesa alla difesa di un diritto minacciato attualmente da un’offesa ingiusta;

  2. involontarietà del pericolo, nel senso che l’aggredito non deve avere creato volontariamente e scientemente la situazione di pericolo da cui egli si è dovuto difendere legittimamente;

  3. inevitabilità del pericolo, ovvero l’assenza di alternative meno gravi rispetto all’offesa utilizzata per difendersi.

  4. proporzionalità fra azione a difesa ed aggressione ingiusta.

1. Con riferimento all’intenzionalità (intesa anche sotto l’aspetto della mera previsione) si deve osservare che l’analisi del giudice deve investire il problema relativo alla condotta dell’agente.

Si deve, pertanto, verificare, se questi agisca cagionando l’evento (che può essere voluto o meno, oppure accettato e prefigurato astrattamente quale conseguenza dell’azione), in costanza della necessitò di difendere uno o più diritti ingiustamente offesi.

Si tratta di una valutazione che il giudice ha sempre dovuto operare con criterio ex ante.

In relazione, invece, alla difesa del diritto (o dei diritti) si deve rilevare come l’oggetto della tutela cui fa riferimento la norma in questione può essere qualsiasi diritto.

MANTOVANI[5], in tale categoria fa rientrare i diritti strictu sensu, nonché gli interessi tutelati giuridicamente.

Tesi confermata dalla giurisprudenza di legittimità con la pronunzia della Suprema Corte di Cassazione, Sez.II, 24/09/1997, n.4781, Merola Vilardi e altri[6], (conf. Cass. pen., Sez.I, 20/06/1997, n.6979, Sergi, Cass. Pen., 1998, 2351) - che ha ammesso l’efficacia della causa di giustificazione nei confronti di tutti i diritti, personali e patrimoniali - nonché da pronunzie di merito (V. ex plurimis Trib. Trapani, 19/07/1990, Federico, Riv. Pen., 1991, 933).

La giurisprudenza ha, infatti, posto l’accento sul fatto che l’istituto della legittima difesa è ammessa in tutte le ipotesi in cui diritti personali o patrimoniali vengano aggrediti ingiustamente, così da trovarsi in una condizione di pericolo attuale e a siffatta aggressione consegua un comportamento difensivo diretto a neutralizzare tempestivamente la situazione di pericolo in atto, per evitare che essa si traduca o continui a tradursi in lesioni di beni giuridicamente tutelati.

L’offesa mossa a colui che invoca la legittimità della propria azione di difesa, come si è detto deve apparire ingiusta.

Sul punto specifico, l‘ingiustizia dell’aggressione va intesa in senso ampio, cioè trascendente il concetto di stretta antigiuridicità e coinvolgente qualsiasi condotta che venga commessa senza che sussistano altre cause di giustificazione e che provenga anche da soggetti incapaci o che derivi da comportamenti classificati come colposi.

Essa, pertanto, non viene ancorata al concetto di azione “contra jus”.

2. In relazione al concetto di involontarietà del pericolo, va affermato che è pacifico il principio che colui che si difende non deve avere dato adito alla possibilità di essere aggredito, tenendo una condotta che sia la ragione dell’aggressione asseritamente ingiusta.

Si è, infatti, consolidato nel tempo l’orientamento in base al quale l'involontarietà del pericolo, pur se prevista esplicitamente solo per lo stato di necessità, deve ritenersi essenziale anche per la legittima difesa.

Il S.C. 18/06/1985 Mancino, Giust. Pen., 1986, II, 215 ha riaffermato un principio, già sancito in precedenza e cioè che se il reagente determina volontariamente la causa che lo ha messo in condizione di pericolo, la spinta alla difesa proviene dal fatto proprio e non dalla necessità.

Così non fu ritenuta sussistente l’esimente in parola per mancanza dell'estremo della involontarietà del pericolo, a chi si è posto nella condizione ritenuta pregiudizievole per aver accettato una sfida con conseguente esposizione volontaria all'evento dannoso che si poteva evitare (cfr. Cass. pen., 08/10/1982, Toselli, Giust. Pen., 1983, II, 500).

3. Non può tralasciarsi, indi, di considerare la cd. inevitabilità del pericolo, consistente nell’impossibilità per l’agente di fruire di alternative meno gravi rispetto all’offesa utilizzata per difendersi nel caso concreto.

Tale aspetto appare rilevante, in quanto prodromico indubbiamente al thema disputandum della proporzionalità fra l’offesa e la reazione dell’aggredito.

Si deve, infatti, sottolineare la circostanza che la valutazione del giudicante deve involgere preliminarmente ad ogni altra, diversa ed ulteriore considerazione, il fatto che la persona potesse o meno difendersi in un modo differente rispetto a quello cui egli ha fatto ricorso.

Tale considerazione parte dal presupposto che l’interessato dovesse effettivamente difendersi necessariamente e postula l’apprezzamento delle opzioni concrete (non teoriche) cui si potesse fare ricorso.

La necessitò, pertanto, deriva da variabili indipendenti che mutano da situazione a situazione e possono attenere sia a motivi concernenti la persona, il luogo od i mezzi.

In proposito si è affermato che “Poichè la difesa legittima presuppone il pericolo attuale di una offesa ingiusta e consiste in una reazione la cui efficacia scriminante implica l'inevitabilità del pericolo attuale, la necessità di difesa, e la proporzione tra questa e l'offesa, non è giustificabile il fatto commesso quando l'offensiva si è esaurita”[7].

Deriva da quanto precede, la considerazione che si debba tenere sempre presente che il limite imposto dallo stato contingente viene ad estrinsecarsi nell’art. 55 c.p. (il quale riconosce per implicito la necessità di difendersi)[8]

E’ poi, evidente il fatto che il concetto di inevitabilità è intimamente collegato con quello precedente di involontarietà.

Laddove, infatti, si verta in una situazione nella quale vi sia uno scontro fra soggetti che reciprocamente si aggrediscano, nessuno di loro può invocare la necessità di difesa in una situazione di pericolo che ha contribuito a determinare e che non può avere il carattere della inevitabilità. (cfr. Cass., Sez.I, 10/10/1995, n.11264, Cicconi, Giust. Pen., 1996, II, 363).

4. Va, da ultimo esaminato, quello che è stato ritenuto (a torto, sia consentito dirlo forte e chiaro) il punctum dolens della struttura giuridica di una norma, che per chiarezza e modernità è stata invidiata e copiata in molti ordinamenti, e cioè la proporzionalità fra azione a difesa ed aggressione ingiusta.

Con simile accezione non si è solo sottolineata la necessità che esista un bilanciamento che renda omogenee l’offesa arrecata e l’offesa minacciata, ma si è anche ricompreso il principio – peraltro più pertinente al concetto di inevitabilità, sopra espresso – di assenza di alternativa tra reagire e subire, nel senso che l’offeso, per il quale sussista la necessità di difendersi, non può sottrarsi al pericolo senza offendere l'aggressore. (Cfr. Cass. pen., Sez.I, 21/04/1994, De Giovanni, Cass. Pen., 1995, 1834).

Va da sé che, comunque, che l’aspetto di maggiore rilievo concerne il rapporto fra male inflitto all’aggressore e male fronteggiato, di modo che si giunga a valutare se il primo sia inferiore, uguale, accettabilmente o sperequatamene superiore al secondo.

Questo è sempre stato il parametro delibativo che ha spiegato effetti sia in presenza di minaccia a beni omogenei (ad es. patrimonio contro patrimonio, etc.), sia a fronte di di disomogeneità dei beni in contrasto (vita contro patrimonio ad esempio).

In quest’ultimo caso, intuitivamente di maggior impegno e difficoltà, peso rilevante è stato assegnato alla valutazione discrezionale del giudice, il quale però, ha sempre illuminato, rinvenendo un paradigma a fini decisori “nella gerarchia della fonti espressa dall’ordinamento giuridico e nella stessa Costituzione”[9].

Nonostante le difficoltà insite nell’esercizio di giudizi discrezionali, l’equazione ha sempre garantito una sostanzialmente corretta applicazione della norma, intendendosi in tal modo anche la necessità che l’esame relativo alla sussistenza della causa di giustificazione (non si dimentichi mai che la condotta dell’aggredito, pur ottenendo il riconoscimento giuridico esimente, cioè l’ esclusione della punizione che normalmente verrebbe inflitta – e che è prevista - , mantiene sempre il connotato di illiceità astratta) non ha mai derogato al principio dell’onere della prova e ricusando facili forme di presuntività (inaccettabili in campo penale).

E’ sempre stato, quindi, conforme ad una cultura ed ad una civiltà giuridica e giudiziaria, il dovere di verificare, ai fini del riconoscimento della legittima difesa, la presenza della proporzione tra difesa ed offesa.

Ove questo rapporto si fosse risolto in senso negativo, per eccesso nell'uso dei mezzi adoperati dall'aggredito nel difendersi, al giudice è sempre rimasto il dovere di differenziare tra eccesso dovuto e negligenza, imperizia, imprudenza ed, in genere, a colpa nella valutazione dell'entità dell'offesa o della misura della difesa, ed eccesso consapevole e volontario.

Le varie pronunzie – soprattutto di legittimità – hanno sempre focalizzato la indefettibilità della massima prudenza, onde verificare questo discrimine, il quale con grande disinvoltura può tramutare un atto apparentemente legittimo, in un reato di natura addirittura dolosa

Per Cass., Sez.I, 05/08/1992, Muggirono, Giust. Pen., 1993, II, 299 “La scelta deliberata di una determinata condotta, ancorchè reattiva, la quale superi i limiti imposti dalla necessità della difesa, e non per precipitazione, imprudenza od errata valutazione delle circostanze di fatto, bensì per consapevole determinazione, esclude l'eccesso colposo perchè radica la volontarietà dell'evento, che diviene semplicemente punitivo, trovando nella precedente azione altrui pretesto, non causale”.

La proporzionalità, quindi, in primis, come canone per valutare la condotta specificatamente tenuta e le conseguenze effettivamente cagionate, a tutela del diritto sottoposto ad attentato, rispetto al comportamento ingiusto ed illecito che ha messo a repentaglio tale diritto.

Nel concetto di proporzionalità, poi, però, particolare importanza ha sempre rivestito la graduazione degli strumenti che gli antagonisti hanno usato nel caso concreto, per portare l’offesa materiale.

Utilizzare un’arma, laddove non vi sia possibilità diversa, nei confronti di una persona a propria volta armata e che manifesti l’inequivoca intenzione di utilizzarla, brandendola in modo inequivocabilmente minaccioso o puntandola rientra nel concetto di proporzionalità.

In giurisprudenza si è sostenuto significativamente che “In tema di legittima difesa il giudizio di proporzione tra necessità di difesa e reazione difensiva non può mai prescindere dalla natura e dall'entità del pericolo di offesa, che incombe realmente sull'aggredito e ciò soprattutto quanto la reazione si sia manifestata attraverso strumenti micidiali, potendosi essa ritenere proporzionata nell'ipotesi in cui appare l'unica possibile per fronteggiare il pericolo; ne deriva che nel caso di unica disponibilità del mezzo di difesa, in concreto adoperato, non si può dare valore risolutivo - ai fini dell'esclusione dell'eccesso - al solo accertamento della singolarità del mezzo disponibile, quando sia indubbio che possa essere usato con modalità diverse e talune di queste appaia proporzionata e adeguata al pericolo stesso.” (cfr. Cass. pen., 02/03/1990, Mazzella, Giust. Pen., 1990, II, 615).

 

La nuova norma quale espressione dellautotutela

 

A fronte di una causa di giustificazione codificata, cioè in presenza di una legittimazione codificata della violazione dell’altrui diritto, il nuovo art. 52 inserisce, invece, una vera e propria forma di autotutela che stravolge la natura della originaria disposizione di legge.

Si tratta, infatti, come sostenuto nel corso dei lavori parlamentari del “diritto all'autotutela in un privato domicilio, e quindi si crea un vero e proprio diritto, una situazione giuridica soggettiva”.[10]

Non viene evocato più il conflitto di diritti paritari, ma viene riconosciuto in capo all'individuo un diritto all'autotutela che supera la nozione e la concezione della proporzione, la quale, viceversa, è alla base della disciplina che oggi regge il nostro ordinamento.

La nuova dizione dell’art. 52, con l’introduzione dei commi 2 e 3, prevede che nei casi previsti dall'articolo 614 del codice penale, primo e secondo comma, sussista il rapporto di proporzione di cui al primo comma dell'articolo 52 (sempre del codice penale) se taluno, legittimamente presente in uno dei luoghi indicati, usa un'arma o altro mezzo[11].

E’ la legge, quindi, che sostiene esservi proporzione; perché lo dice il legislatore (e lo dice in astratto).

Il privato cittadino, quindi, può usare un'arma, la può usare a difesa di un diritto patrimoniale, e la può usare anche per offendere, fino al sacrificio della vita altrui, se si deve tutelare un diritto patrimoniale.

La prima osservazione è che si è creato un concetto di legittima difesa a due velocità.

Da un lato, permane il concetto generale, portato dal comma 1° che nega la punibilità di chi ha commesso il fatto, in capo al quale, però, continua ad incombere l’onere della prova in punto alla dimostrazione della proporzionalità della propria risposta al pericolo sofferto.

Tale concetto si applica a tutti i soggetti che non si vengano a trovare in uno dei casi previsti dall’art. 614 c.p.[12] .

Il che vale a dire che se una persona reagisce – all’interno della propria abitazione - gode di un regime di inversione dell’onere della prova, sicchè fruisce di un orientamento di natura processuale ad esclusivo proprio favore, senza dovere dimostrare di avere agito in uniformità al principio di proporzionalità.

L’esimente di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 52 c.p. gli verrà riconosciuta quasi automaticamente, sol che si reputi l’assenza di desistenza e l’effettivo pericolo di aggressione (elemento in re ipsa in ogni forma di rapina o reato consimilare che si consumi all’interno di un luogo chiuso).

Questa enorme differenziazione, che pare fortemente irragionevole (perché mai un pensionato, derubato all’esterno di un ufficio postale, non potrebbe avvalersi della condizione di luogo cui può fare riferimento chi venga aggredito nella propria abitazione?) solleva dubbi di costituzionalità della norma.

E’ accettabile che due vicende analoghe (se non identiche nei propri elementi costitutivi) debbano essere sottoposte ad un vagli delibativo, da parte del giudice penale, il quale deve, però, a seconda dei casi applicare regole di attribuzione, assunzione e valutazione della prova del tutto opposte tra loro?

E’ corretto che l’onus probandi muti a seconda di condizioni di tempo e luogo, in presenza di situazione oggettivamente identiche?

In proposito, deve osservarsi che già in corso di dibattito parlamentare è stata proposta un questione pregiudiziale di costituzionalità, respinta, la quale sottolineava, sotto altro profilo rispetto a quello esposto dianzi, che “è altresì evidente la violazione dell'articolo 3 della Costituzione, quale conseguenza nell'equiparazione di comportamenti diversi solo in quanto avvenuti nello stesso luogo: come ribadito in più occasioni dalla Corte costituzionale, infatti, deve considerarsi violato il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge sia quando si trattano in maniera diversa situazioni eguali sia quando, come nel caso in esame, vengono trattati in maniera eguale situazioni tra loro differenti, salvo che la scelta legislativa non contrasti col principio di ragionevolezza,”[13]

 

E’, però, proprio lo stravolgimento dei termini applicativi, il profilo che suscita maggiori preoccupazioni.

Lo stesso relatore della legge (on. Rossi) senza metafore, precisa come si intenda modificare radicalmente, con lo strumento normativo, la natura della disposizione di legge che, da causa di giustificazione, diviene ex novo manifestazione di autotutela.

“La proposta di legge, così come quelle ad essa abbinate, ha il pregio di individuare con esattezza i confini del cosiddetto diritto di autotutela nella legittima difesa, facendovi rientrare tutte quelle condotte che sostanzialmente sono dirette ad evitare una aggressione alla persona o al patrimonio”.

Si tratta di un’impostazione che non può essere per nulla condivisa affatto.

Un contegno che, infatti – come si è avuto modo di dire in precedenza – è considerato illecito e, pertanto, rimane illecito, ma viene contingentemente ed eccezionalmente tollerato, nel senso che l’autore del fatto non viene sottoposto alla pena (usualmente prevista per tale condotta), solo in presenza di condizioni di fatto codificate, del tutto anomale ed insolite, diviene incredibilmente lecito ed, anzi, equiparato all’esercizio di un vero e proprio diritto in via di espansione, in quanto sottoposto ad una condizione.

E’ sempre esistita codicisticamente una situazione normativa composita ed articolata, che, in caso di errore di fatto sull'esistenza dei presupposti della legittima difesa - la cosiddetta legittima difesa putativa – prevede una causa di giustificazione (valutata a tutela della persona aggredita attraverso la previsione dell’articolo 59 del codice penale), mentre nel caso di errore di diritto su legge extrapenale, che abbia cagionato errore sull'ingiustizia dell'offesa, è applicabile, analogamente, la causa di non punibilità prevista dall'articolo 47 c.p. .

La nuova formulazione dell’art. 52 c.p., pone, invece, in primo piano, quale questione giustificante l’applicazione della legittima difesa, quella concernente “il modo in cui si possono difendere alcuni beni ed i limiti entro i quali questi beni possono essere difesi”. [14]

Non si tratta, pertanto, di un ampliamento dei casi di (peraltro, criticabile) applicazione della difesa legittima, quanto piuttosto – come detto – della creazione di una situazione giuridica patentemente diversa a seconda di quali siano i beni giuridici minacciati ed i luoghi teatro dell’assalto predatorio di malviventi, in costanza di vicende attualmente identiche.

Ritiene chi scrive che, stabilendo ex legge una presunzione assoluta rispetto ad una valutazione di proporzionalità (presunzione che quindi non è più valutabile in concreto dal giudice) tra la difesa di un bene patrimoniale e la difesa della vita o della persona o dell'incolumità personale, si venga a delineare una norma che appare sia irragionevole ed irrazionale, sia in totale contrasto con la Costituzione.

Né si può affermare che la condizione di detenere legalmente un’arma possa apparire decisiva, scriminando la condotta concernente il suo uso.

E’ evidente che il legislatore, con il riferimento alla detenzione legittima, ha inteso rivolgersi specificatamente al campo delle armi che necessitano un’autorizzazione di polizia ed in special modo alle armi da sparo.

Ciò non toglie, quindi, che detenere lecitamente un’arma, sia condotta che non coincide necessariamente con un suo utilizzo corretto.

Va, infatti, posto il problema se ad usare l’arma nel contesto di un’azione di cd. difesa di un diritto, in un contesto locativo del genere di quelli individuati dai commi 2 e 3 del nuovo art. 52 c.p., sia persona diversa dal legittimo detentore, cioè persona con lui convivente, o casualmente presente sulla scena della vicenda.

Quid iuris in tale occasione?

Stando al dettato della norma che crea una posizione di legittimazione qualificata, imponendo un collegamento di assoluta pertinenza giuridica alla situazione fattuale di possesso dell’arma, si dovrebbe essere portati ad escludere che il soggetto che si impossessi dell’arma (altrui) onde fronteggiare l’illecita minaccia, si ponga sul medesimo piano antigiuridico degli aggressori (o dell’aggressore).

Si tratta di una interpretazione – in questo caso – volutamente strictu sensu, posto che è mia intenzione rilevare come, (se effettivamente lo scopo del legislatore era quello di ridurre al massimo l’esercizio del potere discrezionale, da parte del giudice), il legislatore abbia fallito tale chimerico scopo, atteso che l’elemento della libertà di valutazione in capo al giudicante non potrà (né mai dovrà) risultare compromesso od escluso.

Certo è che, il problema che – ad exemplum – si è appena sollevato non potrà affatto essere eluso.

Si pone, poi, ulteriormente, altro dubbio sulla richiamata condizione detentiva, ove l’uso dell’arma involga un’arma bianca,

Non a caso, infatti, la detenzione di taluni coltelli (ma il discorso può essere ampliata a bastoni, mazze da baseball etc.) viene sanzionata ai sensi dell’art. 4 L . 110 del 1975, sotto la dizione di “arnesi atti ad offendere”.

Si tratta di ipotesi contravvenzionale punita con pene minime (arresto o ammenda), posto che l’offensività della condotta in sè appare di scarsa portata.

Anche in questi casi come si può codificare aprioristicamente la condizione di legittimità della detenzione?

Soprattutto in relazione a quegli arnesi, diversi dalle armi bianche, che possono essere detenuti a qualsiasi titolo, quindi, anche senza un’apparente concreta ragione, si potrà ritenere che il legittimo possesso assuma un valore decisivo e discretivo?

Giovi, inoltre, osservare che il tanto conclamato elemento di novità, che consisterebbe nell’estensione della tutela anche ai “beni propri o d altrui” (che ha richiesto un’indicazione ad hoc, contenuta nella lett. b) del co. 2°), non può essere per nulla ritenuto tale.

Il principio della difesa del patrimonio, infatti, è stato giurisprudenzialmente accolto a sancito da tempo.

Basti ricordare, per tutte, una recente pronunzia della Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, (sentenza n.20727/2003, udienza del 14/03/2003)[15], la quale ha statuito che l'uso della violenza è giustificato in caso di legittima difesa, e cioè ogniqualvolta gli atti di violenza costituiscano l'unico modo per impedire l'aggressione al patrimonio e purché vi sia proporzione tra il danno che si potrebbe subire e la reazione.

La Suprema Corte ha chiarito che la legittima difesa si applica anche ai diritti patrimoniali - è pacifica la sua applicazione in caso di minaccia ai diritti fondamentali come la vita umana - purché vi sia una proporzione tra il danno che si potrebbe subire e la reazione posta in essere: il comportamento di chi si difende deve cioè costituire l'unico mezzo per impedire l'aggressione al patrimonio e non rappresentare occasione per una ritorsione.

Nel caso in questione, si è ritenuto che l’imputato avesse agito per legittima difesa, tuttavia eccedendo i limiti imposti dalla legge, e per questo è stato configurato il c.d. "eccesso colposo in legittima difesa".

Conclusivamente si deve ribadire la preoccupazione per l’introduzione di una norma che appare inutile, nella forma e nella sostanza.

Essa, lungi dal rendere meno oscuri i temi dell’adozione legittima di azioni armate a tutela di diritti personali e patrimoniali propri ed altrui, da parte di soggetti, ingiustamente vittime di criminose aggressioni, amplia, invece, l’ambito delle incertezze, dando corso ad una previsione inutilmente ripetitiva di concetti pacificamente accettati in giurisprudenza e dottrina.

Viene, inoltre, minato il piedistallo di civiltà dell’istituto costituito dalla valutazione di proporzionalità tra le opposte condotte, criterio e regola di giudizio irrinunciabile e non sostituibile da principi predeterminati, e, come tali, algidamente casistici e teorici, in quanto assolutamente avulsi dalla fattispecie concreta.

Stabilendo la presunzione che la reazione dell'aggredito sia, sempre e comunque, considerata proporzionale all'offesa minacciata, quando il fatto avvenga nel domicilio dell'aggredito o nel suo luogo di lavoro, si sostiene che la cd. presunzione automatica, possa, sottraendo al giudice, limitatamente a questi casi, la valutazione della proporzione fra offesa e difesa, ridurre conseguentemente tempi e modalità di accertamento dei fatti.

Non si sentiva, quindi, la necessità delle modifiche così come introdotte, proprio perché, come detto, esse involgono, neppure tanto di riflesso il principio dell’onus probandi, creando il doppio binario già ricordato, con grave disparità di trattamento fra casi analoghi, in presenza di luoghi diversi.

Meglio sarebbe stato informarsi ai principi contenuti nell’art. 30 del progetto Nordico in tema di difesa legittima, che recita:

“E’ scriminato il fatto commesso da chi è stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa, tenuto conto dei beni dei beni in conflitto, dei mezzi a disposizione della vittima e delle modalità concrete dell’aggressione.

Non è scriminato il fatto di chi ha preordinato a scopo offensivo la situazione da cui deriva la necessitò di difesa”.

Note

 

[1] - Senatori Gubetti ed altri: Modifica all'articolo 52 del codice penale in materia di diritto all'autotutela in un privato domicilio (Approvata dal Senato) (A.C. 5982 ); e delle abbinate proposte di legge Luciano Dussin ed altri; Cè ed altri; Perrotta (A.C. 4115-4926-5417)

 

[2] V. resoconto sedute n. 736 del 24 Gennaio 2006 della Camera dei Deputati in www.camera.it

 

[3] idem

 

[4] Art. 52 Difesa legittima (testo ante modifica).

Non e' punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessita' di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.

 

[5] Diritto penale, CEDAM Pd, 1990, pg. 257

 

[6] Giust. Pen., 1998, II, 261 Cass. Pen., 1998, 2350

 

[7] Cass. pen., Sez.I, 15/04/1999, n.9695, De Rosa, Cass. Pen., 2000, 1951

 

[8] Art. 55 Eccesso colposo

Quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall'ordine dell'Autorita' ovvero imposti dalla necessita', si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto e' preveduto dalla legge come delitto colposo.

 

[9] MANTOVANI, Diritto penale, CEDAM Pd, 1990, pg. 262

 

[10] V. resoconto sedute n. 736 del 24 Gennaio 2006 della Camera dei Deputati in www.camera.it già cit.

 

[11] ART. 1. (Diritto all'autotutela in un privato domicilio).

1. All'articolo 52 del codice penale sono aggiunti i seguenti commi:

"Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:

a) la propria o altrui incolumità;

b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.

La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale".

 

[12] Art. 614 Violazione di domicilio

Chiunque si introduce nell'abitazione altrui, o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volonta' espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi s'introduce clandestinamente o con inganno, e' punito con la reclusione fino a tre anni.

Alla stessa pena soggiace chi si trattiene nei detti luoghi contro l'espressa volonta' di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno.

Il delitto e' punibile a querela della persona offesa.

La pena e' da uno a cinque anni, e si procede d'ufficio, se il fatto e' commesso con violenza sulle cose, o alle persone, ovvero se il colpevole e' palesemente armato.

 

[13] La Camera , premesso che:

il provvedimento in esame prevede, all'articolo 1, comma 1, lettera a), che sia proporzionale, e dunque legittimo, l'uso della violenza per difendere «1a propria o altrui incolumità» e, alla lettera b), che sia parimenti lecito l'uso di un'arma legittimamente detenuta per difendere beni patrimoniali, propri o altrui, quando non vi sia desistenza e vi sia pericolo di aggressione;

in particolare, sarebbe lecito l'utilizzo della violenza, con armi di qualsiasi tipo, oltre che per difendere la propria o altrui incolumità, anche quando vi sia il mero pericolo di aggressione a beni di carattere patrimoniale, seppur messa in atto da persona disarmata, solo che non vi sia desistenza da parte dell'aggressore;
tale previsione si pone in contrasto con l'articolo 2 della Costituzione, il quale dispone che « la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo», tra i quali evidentemente rientra il diritto alla vita e all'incolumità personale;
la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, all'articolo 2, comma 1, prevede che «Il diritto di ogni persona alla vita è protetto dalla legge» e che «nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale, pronunziata da un tribunale»;
l'articolo 2 della suddetta Convenzione, al comma 2, specifica altresì che «La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario»;
quanto previsto dalla Convenzione europea (sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950) rientra pienamente nella attuale formulazione degli articoli 52 (difesa legittima) e 54 (stato di necessità) del nostro codice penale, il cui testo è stato un preciso punto di riferimento per la predisposizione di norme analoghe in numerosi codici penali stranieri nonché, più in generale, per i più autorevoli studiosi di diritto penale, in Italia e all'estero;
gli attuali articoli 52 e 54 del codice penale, vanto della dottrina e dell'insegnamento giurisprudenziale italiano, hanno nel tempo mantenuto la loro attualità e sono stati considerati pienamente conformi ai principi costituzionali e alle Convenzioni internazionali, sottoscritte e ratificate dal nostro Paese, proprio in quanto fanno riferimento al principio di proporzione, che non solo non è mai stato colpito da pronunce di incostituzionalità, ma che, anzi, è stato un riferimento fondamentale per evitare che la causa di non punibilità, prevista dall'articolo 52 del codice penale, in tema di legittima difesa, potesse essere dichiarata costituzionalmente illegittima;
la proposta di legge in esame introduce una irragionevole e incostituzionale presunzione in quanto considera, sempre e comunque, proporzionata all'offesa minacciata la reazione dell'aggredito nei casi in cui il fatto avvenga nel proprio domicilio (o nel suo luogo di lavoro), sottraendo al giudice la possibilità da valutare la proporzionalità tra offesa e difesa e riducendo, quindi, in maniera illogica, le modalità di accertamento dei fatti;
la proposta di legge in esame, stravolgendo i principi insiti nell'articolo 52 del codice penale, crea quindi una situazione per cui il concetto di «proporzione» è «presunto», anche in presenza di un mero, e generico, pericolo all'aggressione di beni patrimoniali, se avviene in un contesto di violazione del domicilio (o di altro luogo ove sia esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale), ponendo conseguentemente sullo stesso piano la vita umana e un bene di carattere patrimoniale;

quanto previsto dal testo all'esame della Camera si pone in aperto contrasto con l'inviolabilità del diritto alla vita, riconosciuto e garantito dall'articolo 2 della Costituzione;

è altresì evidente la violazione dell'articolo 3 della Costituzione, quale conseguenza nell'equiparazione di comportamenti diversi solo in quanto avvenuti nello stesso luogo: come ribadito in più occasioni dalla Corte costituzionale, infatti, deve considerarsi violato il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge sia quando si trattano in maniera diversa situazioni eguali sia quando, come nel caso in esame, vengono trattati in maniera eguale situazioni tra loro differenti, salvo che la scelta legislativa non contrasti col principio di ragionevolezza, delibera di non procedere all'ulteriore esame della proposta di legge.

 

F.to Pisapia ed altri

 

[14] On. Rossi V. resoconto sedute n. 736 del 24 Gennaio 2006 della Camera dei Deputati in www.camera.it già cit

 

[15] Si reputa interessante riportare la sentenza della S.C., anche per attestare il rigore intellettuale dell’applicazione della norma.

F. M. è stato condannato dal GIP presso il Tribunale di Palermo perché riconosciuto colpevole del delitto ex art. 586 in relazione agli artt. 83 e 590 cp [1], con attenuanti generiche ritenute prevalenti sulle contestate aggravanti e con riduzione conseguente alla applicazione del rito abbreviato.

La competente Corte d’appello ha confermato la sentenza di primo grado.

Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato e deduce erronea applicazione dell’art. 52 cp [1], erronea applicazione dell’art 55 cp [3], nonché mancanza e manifesta illogicità di motivazione.

Sostiene che i giudici di merito, pur ricostruendo correttamente l’accaduto, hanno escluso che ricorresse la scriminante della legittima difesa, in ciò errando radicalmente, in quanto il F., dopo l’ennesima rapina nella sua tabaccheria, uscì repentinamente in strada e, allo scopo di impedire la fuga dei malviventi, esplose alcuni colpi con l’arma detenuta regolarmente. I primi colpi furono esplosi in aria a scopo intimidatorio, i successivi in direzione della parte inferiore dell’autovettura dei malviventi nel tentativo di forarne le gomme ed ostacolare la fuga. Un colpo tuttavia attinse tale M. G., che si stava dirigendo verso l’autovettura a bordo della quale erano i suoi complici, provocando lesioni. Se dunque questa fu, pacificamente, la dinamica del fatto, è assolutamente errata la qualificazione giuridica elaborata dal giudice di primo grado. La Corte di appello, a sua volta, dopo .aver premesso di non condividere tale qualificazione, non ne propone una alternativa e, con ciò, incorre nella prima anomalia. In realtà, il F. fece uso dell’unico strumento che aveva a disposizione e lo utilizzò in maniera adeguata. l’istituto della legittima difesa è pacificamente applicabile anche ai diritti patrimoniali. La sussistenza della scriminante non consente di formulare la ipotesi di reato ex art. 586 cp. Non si comprende dunque a quale titolo venga affermata la responsabilità del F., quasi che debba trattarsi di una sorta di responsabilità oggettiva. Inoltre la Corte territoriale, dopo avere escluso la applicabilità dell’art. 52 cp, afferma che, se anche si volesse ritenere sussistente la aggravante de qua, non potrebbe ritenersi escluso l’eccesso colposo, con la conseguente applicabilità delle disposizioni concernenti, appunto, i delitti colposi. Un tal modo di procedere è meritevole di censura: il giudice non può, ricorrendo ad una fictio juris, riconoscere la sussistenza degli elementi della legittima difesa che ha precedentemente escluso, per poi disinvoltamente sostenere il superamento colposo dei limiti stabiliti per il suo esercizio. L’eccesso colposo consiste nell’eccesso dell’uso dei mezzi, dovuto a negligenza, imperizia, imprudenza. Sul punto manca qualsiasi motivazione e dunque trattasi, ancora una volta, di responsabilità attribuita a titolo oggettivo.

Il ricorso è parzialmente fondato.

È innanzitutto incontestabile che la legittima difesa possa essere applicata anche ai diritti patrimoniali, i quali possono essere difesi anche ricorrendo ad atti di violenza, purché sussista proporzione tra il danno che si potrebbe subire e la reazione posta in essere. È poi necessario che il comportamento del soggetto aggredito costituisca l’unico mezzo per impedire l’aggressione al patrimonio e non rappresenti occasione per una ritorsione (ASN 198105819-RV 149337). Ebbene, sulla base della ricostruzione operata dai giudici di merito, non può dubitarsi del fatto.

a) che il patrimonio del F. era stato aggredito e leso (i rapinatori si stavano allontanando con la refurtiva),

b) che, tuttavia, il danno causato dal reato avrebbe potuto essere neutralizzato, attraverso il recupero del denaro rapinato (se il F. fosse riuscito a bloccare la fuga dei malviventi),

c) che, considerata la situazione (numero degli aggressori e strumenti a loro disposizione), il ricorrente fece uso dell’unico mezzo efficace in suo possesso: una pistola (necessaria, sia per interrompere la fuga dei rapinatori, sia per indurli a restituire il maltolto).

Dunque, in astratto, i presupposti per la sussistenza della scriminante ex art. 52 cp sussistevano. Conseguentemente non è corretta la condanna dell’imputato per il delitto di cui all’art. 586 cp, che, come è noto, punisce con le pene previste per la aberratio delicti (ma aumentate, se si tratta dei delitti ex artt. 589 e 590 cp) la condotta di colui che, commettendo un delitto doloso, cagioni involontariamente, morte o lesioni di un terzo. Invero, non rimane integrata la fattispecie ex art 586 cp nella ipotesi in cui il soggetto tenga, in presenza di una causa che elide in radice la antigiuridicità del suo operato (nel caso in esame la legittima difesa), una condotta integrante l’elemento oggettivo del reato doloso (nel caso in esame, quello di danneggiamento) cui sia eziologicamente legato l’evento più grave (morte o lesioni).

Il F. volle danneggiare l’auto dei rapinatori, ma lo fece, come si sostiene nella sentenza impugnata, per impedire che costoro fuggissero con il denaro che gli avevano sottratto e, così operando egli era per le ragioni sopra esposte- scriminato.

Sussiste invece, sempre sulla base della ricostruzione dell’accaduto operata nella fase di merito, l’eccesso colposo in legittima difesa.

Infatti, se, da un lato, è certamente esatto sostenere (come si è appena fatto) che il F. adoperò l’unico strumento efficace che aveva a sua disposizione (un’arma da fuoco), dall’altro, va detto che è altrettanto vero che detto strumento, per la sua micidialità, avrebbe dovuto essere impiegato con grande avvedutezza, prudenza e con la consapevolezza di possedere adeguata perizia nel suo maneggio. Dalla motivazione della sentenza impugnata emerge che il F., dopo aver fatto fuoco in aria, iniziò a sparare contro le ruote dell’auto dei banditi, mentre era ferma, quindi continuò, quando questa si era ormai messa in movimento ed, in tale frangente, attinse il M. che verso l’auto si stava dirigendo. È evidente allora che la condotta del ricorrente, adeguata e "prudente" nella prima fase (colpi in aria, colpi contro la parte inferiore di un bersaglio fermo), divenne avventata nella seconda fase (colpi in direzione di un’auto in movimento) e fu in tale seconda fase, secondo i giudici di merito, che il M. rimase ferito. Appare dunque corretto affermare che, nell’esercizio della legittima difesa, il F. superò colposamente i limiti stabiliti dalla legge (art. 52 cp), cagionando il ferimento della vittima.

Ne consegue che sul piano sanzionatorio va applicato il trattamento previsto dal corrispondente reato colposo (art.590 cp), ma senza l’aumento previsto dall’art. 586 cp (come invece fatto in sede di merito). La sanzione può essere determinata direttamente da questo giudice di legittimità, facendo uso dei criteri esplicitati dal giudice di merito (concessione di attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulle aggravanti e diminuente conseguente al rito abbreviato); essa va quindi fissata in giorni 20 di reclusione.

 

P.Q.M.

 

la Corte , qualificato il fatto contestato come eccesso colposo in legittima difesa, ridetermina la pena in giorni 20 di reclusione, sostituiti con euro 774,00 di multa. Rigetta nel resto.

 

 

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