Radicali Italiani

 

Dietro le sbarre: numero speciale di "Diritto & Giustizia"

 

Intervista a Luigi Manconi

Intervista a Angiolo Marroni

Intervista a Stefania Craxi

Patologia del sistema carcerario. Il ricorso abnorme alla custodia cautelare e una presenza rilevante di detenuti in attesa di giudizio sono la causa del sovraffollamento

 

Intervista a Luigi Manconi, di Irene Testa

 

Lei è il garante dei diritti dei detenuti del comune di Roma, successivamente alla sua nomina è stata creata anche la figura del garante regionale per il Lazio. A parte la maggiore pertinenza territoriale di quest’ultimo, cosa distingue queste due figure? Ci sarà una collaborazione nell’ambito delle carceri romane tra i due garanti?

Al presente non è possibile dirlo, perché entrambi gli uffici sono un’istituzione recentissima.

Non abbiamo né l’uno, né l’altro, un’esperienza alle spalle tale da consentire di evidenziare differenze o distinzioni di compiti, di prospettive, di competenze.

Credo che si tratti, alla resa dei conti, di una funzione assai simile, fino probabilmente a coincidere. Abbiamo a disposizione una grande occasione per cooperare insieme e per lavorare addizionando energie e risorse, perché né l’ufficio presso il Comune, né l’altro ufficio presso la Regione, dispongono di mezzi adeguati ad una domanda che è enorme.

Io credo che, a parte l’ovvia constatazione, la mia competenza riguarda le carceri del territorio romano, e la competenza dell’ufficio presieduto da Marroni riguarda l’intera regione.

Si tratta di trovare le forme di cooperazione, affinché la coincidenza aiuti entrambi e non ostacoli nessuno.

 

Quali sono le competenze del comune di Roma rispetto all’amministrazione penitenziaria?

Le competenze sono molte. Riguardano tutte quelle attività relative alla popolazione detenuta che in qualche modo rientrano sotto la responsabilità del comune stesso.

Quest’affermazione di principio è peraltro di competenza istituzionale, per un verso possiamo dire: riguarda l’intera esistenza del detenuto perché vanno dall’assistenza sanitaria agli aspetti ricreativi, dalla tutela dei diritti alla possibilità di avere un sostegno una volta usciti dal carcere. Questa è la competenza astratta di cui gli uffici in questione possono curarsi, ci si scontrerà certamente con una debolezza più evidente per quanto riguarda il mio ufficio, meno evidente per quello regionale.

 

Cos’è questa differenza?

Fa riferimento alla base giuridica istitutiva dell’ufficio. Nel caso dell’ufficio presso il Comune la base giuridica è effettivamente gracile, la possibilità di poter disporre di potere reale è affidata per un verso alla nostra capacità, ma per un verso ben più consistente al ruolo d’autorità politico morale che l’amministrazione può svolgere, e al grado di cooperazione che saremmo in grado di realizzare con l’amministrazione penitenziaria.

 

Lei ha sostenuto diverse iniziative radicali (tra cui quella per l’indultino) pensa che questa piccola conquista sia sufficiente per ovviare al fenomeno del sovraffollamento? Cos’altro proporrebbe?

L’indultino secondo valutazioni attendibili ha portato all’uscita dal carcere di circa 4mila detenuti. È una cifra irrisoria rispetto alle esigenze. L’indultino è stata una soluzione di bassissimo compromesso, incapace totalmente di funzionare come misura d’eccezione e tanto meno come misura strutturale. Non ha risposto a nessuna delle due aspirazioni cui poteva tendere, né come provvedimento d’emergenza che quindi riducesse di una quota significativa la presenza nelle carceri, né l’avvio di una strategia che portasse a ridurre questa presenza, non attraverso un provvedimento una tantum. Si è trattato strettamente di un pannicello caldo, questo credo sia il termine più giusto, non poteva essere in grado, né lo è stato, di porre rimedio alla febbre di cui soffre il carcere nel suo complesso.

 

L’ultimo provvedimento di amnistia su proposta di Legge sua e dell’onorevole Luigi Saraceni risale al 1990. A distanza di quattordici anni sarebbe, secondo lei, opportuno e sensato riproporla?

L’affollamento è una delle manifestazioni patologiche più gravi. Questa manifestazione oltretutto ha effetti e conseguenze anche più gravi di quello che si crede: una ricerca curata da Andrea Boraschi, Elina Lo Voi e da me, ha studiato la correlazione tra casi di suicidio in carcere e l’affollamento degli istituti, questa correlazione è strettissima, al punto che la percentuale va tutta a crescere nelle carceri affollate. Il problema del sovraffollamento è un problema banalissimo, da affrontare in termini radicali. Siamo in presenza di un affollamento dovuto in primo luogo a una presenza rilevantissima di detenuti in attesa di giudizio, quindi un ricorso alla custodia cautelare assolutamente abnorme rispetto a quelle che sono le condizioni tassative che il codice penale pone. Queste condizioni tassative com’ è noto sono: il rischio che si ripeta il reato, il pericolo di fuga, il rischio d’inquinamento delle prove. Se si applicasse rigorosamente questa norma è ovvio che si ridurrebbe significativamente la percentuale di detenuti in attesa di giudizio, e con questo la popolazione complessiva.

 

Come vedrebbe un maggiore ricorso alle pene alternative, così peraltro previste dalla Legge Gozzini rimasta ancora poco applicata?

Ci sarebbe da ampliare notevolmente le opportunità, anche con l’introduzione di nuove norme. Si tratta di applicare anche più intelligentemente le norme già esistenti riguardanti il ventaglio delle possibili misure alternative, perché, benché se ne dica, il nostro ordinamento resta uno dei più avari, meno flessibili. Oltretutto la provvidenziale, sacrosanta, mai abbastanza benedetta legge Gozzini ha subito in questi decenni tali e tanti provvedimenti limitativi, emendativi, da uscirne gravemente stravolta.

 

In passato lei ha affrontato il problema della tossicodipendenza giungendo a conclusioni antiproibizioniste e auspicando per i tossicodipendenti un recupero esterno al carcere. Non pensa che anche il massiccio ricorso alla reclusione per questi soggetti, oltre ad impedirne il recupero comporti un ulteriore sovraffollamento?

Sicuramente è così. Io ritengo che il soggetto che abbia imputazioni esclusivamente correlate al traffico per uso personale o di gruppo di sostanze stupefacenti, non debba in alcun modo essere recluso in carcere. Una modifica radicale della legislazione consentirebbe di ridurre ulteriormente il numero dei detenuti tossicodipendenti. Gran parte dei detenuti tossicomani sono detenuti in quanto autori di reati strumentali, ovvero finalizzati all’acquisizione della dose o del danaro necessario ad acquistare la dose. Da questo si può dedurre che una legalizzazione anche parziale, forme di riduzione del danno applicate su scala nazionale, l’istituzione di luoghi come addirittura la Spagna del centro-destra ha prodotto, dove sia consentito l’uso personale di sostanze stupefacenti, questo ridurrebbe il numero dei tossicomani indotti a farsi criminali dalla loro condizione di tossicodipendenza, il che aiuterebbe la società nel suo complesso, ridurrebbe le tensioni sociali, ridurrebbe gli allarmi collettivi, porterebbe ad una riduzione del tasso di micro delinquenza nelle nostre città, salverebbe alcune zone della città che oggi sono abbandonate a luoghi di spaccio.

 

La normativa prevede che in ogni istituto carcerario vi sia un presidio nuovi giunti al fine di prestare assistenza psicologica ai detenuti appena entrati. Tuttora sono poche la carceri dotate di quest’organo. Com’è la situazione nelle carceri romane e altrove?

La situazione è estremamente diseguale, il numero di questi presidi è ridotto, ma soprattutto il personale addetto a questi presidi è insufficiente. Non va dimenticato che l’ultima finanziaria ha tagliato di ventiquattro milioni d’euro la spesa per l’assistenza sanitaria penitenziaria, e questo ha dato un’ulteriore forte botta alla possibilità di prestare assistenza a quei detenuti, in particolare i nuovi giunti.

 

Nelle carceri abbiamo un’alta incidenza di casi di suicidio, l’Associazione "A buon diritto" da lei presieduta si è occupata a fondo del problema. Che cosa emerge da questo studio?

Come si sa, in percentuale elevatissima, la maggioranza dei suicidi si toglie la vita nei primi sei mesi di permanenza in carcere. Ma è cresciuto il numero di coloro che si tolgono la vita nei primi sei giorni di carcere. Quindi quella dell’assistenza nuovi giunti, del sussidio psicologico e sociale, della presenza di tutela, è a mio avviso la più interessante e produttiva delle opportunità che andrebbero sviluppate, perlomeno per contenere un fenomeno che conosce ormai una stabilizzazione a livelli così alti.

 

Tanta parte della sua azione politica ha avuto come oggetto il fenomeno dell’emigrazione. In Italia i centri di permanenza temporanea sono sempre più delle vere e proprie carceri per emigrati. Anche in rapporto ad una sempre più alta emergenza terrorismo, come vede questi centri?

Bisogna ricordare che i centri di permanenza temporanea non hanno nulla a che vedere con reati penali. Nemmeno il più sfegatato dei supporter dei CPT ne utilizza lo strumento a fini di lotta contro il terrorismo, perché nei CPT non sono reclusi i sospettati di terrorismo, non sono reclusi imputati di reati penali, ma sono reclusi semplicemente coloro che sono responsabili di un illecito amministrativo, ovvero ingresso e soggiorno irregolare nel nostro paese.

 

E la loro gestione?

I CPT sono una mostruosità giuridica. Il fatto che in tutta Europa siano così, non attenua l’anomalia, non possono essere definiti carceri. Sotto il profilo del linguaggio giuridico non può essere definita detenzione la permanenza in quei luoghi, benché si usa la pudica forma di detenzione amministrativa. Non sono prigioni, ma se da questi posti ci si allontana si viene ripresi e a quei luoghi coattivamente restituiti. Nei fatti siamo in presenza di carcere, ecco dove sta il profilo d’incostituzionalità che mi auguro la Corte Costituzionale stia per affermare. Si tratta di una violazione dell’articolo 13 della Costituzione, una limitazione della libertà personale per chi non ha commesso reato penale e in assenza di una sentenza della magistratura. Oltretutto in questi CPT non esiste un regolamento, il che li rende luoghi ancora più inquietanti perché non ci sono forme di garanzia.

 

Che cosa pensa a proposito del potere di grazia e della battaglia che Marco Pannella e i Radicali hanno intrapreso su questo fronte.

Sono totalmente d’accordo con quella battaglia. Sono d’accordo anche con l’impostazione giuridica data da Pannella a quella battaglia. Temo che quella battaglia non produca gli effetti sperati: per una serie di ragioni non tutte agevolmente ricostruibili. Credo significativamente al peso della cultura cattolica. Siamo in un paese dove si fatica di più che in altri, non solo ad applicare, ma persino ad immaginare forme di sanzione diverse dalla detenzione nella cella chiusa. Questa è una realtà di cui solo in parte mi faccio una ragione.

 

Infine, in sintesi, il suo giudizio sociologico sulla condizione della gestione della pena in Italia?

Conta, come dicevo, la cultura cattolica, una cultura penitenziale, che deve molto anche a una tradizione oscurantista, inquisizionista, pur se questa stessa cultura è stata riscattata da un rinnovamento veramente significativo che fa sì che oggi, quella stessa cultura cattolica sia invece all’avanguardia nel sostenere un’idea diversa della pena. Ma si è come solidificata nel senso comune, questa concezione penitenziale, sacrificale, inquisizionista della pena che prevede la massima applicazione. Una seconda possibile interpretazione della gestione penale attuale è che questa non è basata su una concezione pragmatica come dovrebbe essere, come il diritto moderno ha voluto che fosse, ovvero la pena che abbia come suo scopo prioritario quello di prevenire il ripetersi del reato.

Il garante per i diritti dei detenuti della Regione Lazio. Una figura istituzionale, con un potere di persuasione nei riguardi dello Stato, e di iniziativa su questioni generali.

 

Intervista a Angiolo Marroni, di Irene Testa

 

Dottor Marroni, lei è stato da poco nominato, dalla Regione Lazio, Garante per i diritti dei detenuti. Cosa significa questa carica, e che poteri ha?

Il Garante è una figura istituzionalmente definita e decisa dal Consiglio Regionale del Lazio. Questo dà a tale figura un’autorevolezza ed una responsabilità molto ampia: essa dovrà rispondere ad una istituzione, la Regione, e per essa a tutti i cittadini del Lazio, non solo detenuti.

Trattandosi di un istituto a livello regionale, il potere di cui è investito non può essere esercitato nei confronti dell’amministrazione dello Stato. Verso questo interlocutore quale è lo Stato, ovvero il Ministero di Giustizia e l’amministrazione penitenziaria, al Garante Regionale è dato comunque un potere di persuasione, un potere di intervento più che altro politico. A pensarci bene poi non è un potere così esiguo, dal momento che si tratta di un potere concesso da un’istituzione pubblica e che potrà essere esercitato anche attraverso richieste formali. Il Garante avrà inoltre poteri di iniziativa, la legge infatti lo prevede su questioni generali. Nulla vieta poi che il Garante possa indire un incontro, una conferenza, un convegno per affrontare questioni generali, e per porre interrogazioni e appelli all’attenzione del Parlamento nazionale ed anche del Parlamento europeo.

 

È previsto anche l’accesso ai media?

Sì, è previsto il ricorso ai mezzi di informazione, il Garante può esercitare una funzione anche esterna, attraverso tutto ciò che è consentito dal nostro ordinamento nei confronti di tutti verso l’amministrazione penitenziaria. Ovviamente io auspico una collaborazione serena e leale. Devo dire che, dalle prime impressioni che sto ricevendo dall’ amministrazione penitenziaria e da parte della polizia penitenziaria non vedo reazioni negative. Certo, mi rendo conto che questa figura crea ulteriori problemi a questa parte dello Stato, però non vedo negatività, tant’è che, a questa iniziativa si risponde bene, dobbiamo dialogare, dobbiamo collaborare.

 

E per quanto riguarda il rapporto con la magistratura di sorveglianza?

È vero purtroppo che la magistratura di sorveglianza non vive all’interno del carcere in modo continuato, come fanno i volontari, come fanno gli stessi operatori penitenziari. È oberata da moltissime incombenze, da moltissime richieste di interventi di varia natura, e questo rende più difficile conoscere i detenuti, non solo attraverso i fascicoli, ma attraverso la conoscenza diretta della persona e della sua evoluzione. Tuttavia bisognerà avere un rapporto corretto di leale collaborazione con la magistratura di sorveglianza e di rispetto reciproco. È molto importante e giusto dare rispetto, è giusto anche ricevere rispetto. E questo vale anche per il Garante, naturalmente.

 

Se l’amministrazione penitenziaria è gestita dal Ministero di Grazia e Giustizia, a livello regionale quali sono i compiti e i poteri del Garante?

A differenza dei poteri limitati che ha nei confronti dell’amministrazione penitenziaria, questa figura ha poteri più forti, più penetranti nei confronti dell’amministrazione regionale. Mi riferisco a quelle che sono le competenze più specifiche della Regione che hanno un riflesso sul carcere. La legge prevede dei poteri sia di intervento, sia di denuncia sia di avvio di procedimenti amministrativi nei confronti della parte dell’amministrazione regionale che non fa il suo dovere, o che si ritiene che non lo faccia.

 

Quali sono, dunque, le competenze della Regione che partecipano al sistema carcerario?

Una tra le più discusse ultimamente è certamente quella della sanità. Ci sono grosse difficoltà con le strutture sanitarie esterne, e per certi versi anche difficoltà grosse con strutture sanitarie interne. Quando si pensa alla relazione tra detenuto e salute, si pensa sempre alla tossicodipendenza, all’aids, ma non si pensa mai che in carcere ci sono uomini, donne e minori che possono avere anche malanni minori ma non meno gravi, come ce li abbiamo noi che viviamo fuori dal carcere. Si può dire patologie "normali", che però comportano diagnosi, analisi, specialisti e ricoveri. Tante cure che per un detenuto, in realtà, è molto più complicato ricevere, così come è molto complicato, per chi dirige un carcere, garantirle. Questo perché la sanità esterna, quella delle ASL, non è ancora in condizioni, e forse neanche lo desidera molto, di seguire un detenuto come un cittadino qualsiasi del proprio territorio. Tra l’altro all’ASL di Rebibbia c’è in costruzione un ospedale che dovrebbe essere destinato ai detenuti, speriamo lo si concluda presto!

Accanto a questo problema della sanità che colpisce molto la sensibilità di tutti, c’è un problema molto grosso che colpisce un po’ meno l’immaginario, ma è altrettanto tremendo: è quello del lavoro. Del lavoro non se ne parla quasi mai, però il lavoro in carcere è un punto di fondamentale importanza. Non possiamo sempre pensare al detenuto che ha messo i soldi da parte e sta attendendo la libertà per goderseli o ha arricchito la famiglia. Noi dobbiamo pensare che la maggioranza dei detenuti è povera gente, nel senso che non ha una lira, con famiglie complicate: molte volte l’unico reddito di cui dispongono è quello del detenuto lavorante, e addirittura ci sono dei detenuti che attraverso i loro salari riescono a mandare un po’ di soldi a casa.

Anche se la gente è infastidita perché dicono: "ma come: chi commette crimini deve avere un lavoro e gli incensurati no?". In realtà bisogna considerare che si tratta sempre di un lavoro a bassa qualificazione e a basso reddito che non è in concorrenza con il mercato esterno.

Senza pensare ora al lavoro all’esterno, il carcere si mantiene anche grazie al lavoro dei detenuti. Il fatto che non ci siano i fondi adeguati nel dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non vuol dire che quel lavoro viene fatto da altri: non viene fatto, e il carcere nelle sue strutture decade. Questo è un punto fondamentale. Il lavoro interno, quello del fabbro, del falegname, del pittore è un lavoro che i detenuti desiderano. Lo Stato dà pochi soldi al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, per il lavoro interno.

 

E il lavoro all’esterno?

È doveroso anche garantire un lavoro esterno. Premesso che non tutti i detenuti possono accedervi per motivi di condizione penitenziaria e per le norme di sicurezza verso la pericolosità sociale, comunque dall’esterno deve provenire una domanda.

Per il lavoro sono nate delle forme di associazionismo, cooperative integrate etc. La legislazione, anche quella Regionale, ha stabilito che tra i soggetti deboli non ci sono soltanto i portatori di handicap, ma anche i detenuti. Sono nate diverse cooperative, alcune hanno una gamma di offerta di lavori molto ampia, che funzionano. Tra queste c’è la "Coop. 29 giugno", la "Pantacop", la "Sintaxerror", la "Artemisia" ... Molte di queste non sono più strutture assistite, sono realtà che stanno sul mercato, garantiscono reddito ai soci detenuti che lavorano, sono salari previsti dai contratti collettivi.

 

Ma il garante potrà intervenire anche sulla formazione?

La Regione ha già fatto su questo fronte alcuni passi su questa strada che bisogna continuare a percorrere. Per esempio nel settore informatico, nella cura del verde, nell’assistenza sociale o in altre attività particolari, perché la formazione è cosa che accompagna il lavoro. La Regione dispone di un budget considerevole anche da parte della Comunità Europea, e il Garante può sollecitare l’utilizzo di questo budget per la formazione anche in carcere.

 

La sanità, il lavoro, la formazione… Non pensa che i diritti del detenuto siano in realtà spesso violati anche a un livello più fondamentale?

È vero, forse il più grave di questi problemi è il garantire la dignità del detenuto. Sembra un’espressione molto generica, ma che tocca molti aspetti della vita privata, intima, del detenuto. Molti fattori compromettono la dignità umana: il sovraffollamento, le fatiscenti condizioni delle strutture, oltre a certi atteggiamenti poco rispettosi di questa intimità. Il fatto è che il detenuto non perde per legge la dignità: sono le circostanze che spesso lo portano a perderla.

Nel Lazio ci sono 14 istituti, ma bisogna tener conto anche di quei detenuti che sono stati trasferiti a scontare la pena fuori dalla Regione. Anche qui bisogna tener conto del principio della territorialità; i familiari che devono raggiungere il congiunto fuori dalla Regione si accollano notevoli sacrifici e costi. Immaginate quante madri di famiglia che con prole al seguito devono spostarsi per chilometri...

 

Ma non c’è una norma precisa che stabilisce che i detenuti non possono essere trasferiti oltre i duecento km?

Questo è un altro aspetto che andrebbe curato.

 

Il Garante potrà incontrare i detenuti in regime d’isolamento?

Credo di no. Non può per un motivo generale: il detenuto in isolamento non può incontrare nessuno.

 

E i detenuti potranno inviare le loro lettere all’ufficio del Garante?

Certamente! Senza alcuna formalità.

 

Per quanto riguarda i sieropositivi in carcere?

Questa è un’altra questione, importante e difficile. Bisognerebbe prima di tutto capire meglio entro quale soglia di sieropositività si debba ritenere opportuna la carcerazione. Ma il problema non si risolve se, messi in libertà, i detenuti sieropositivi si ritrovano senza una struttura disposta ad accoglierli ed aiutarli.

 

Quando stima che sarà appieno funzionale, dunque, l’istituzione da lei presieduta in qualità di Garante?

Attualmente siamo in fase preliminare. Dopo il voto in Consiglio sulla mia persona la procedura è avviata, ma non ancora conclusa. Lo sarà una volta definita e si dovrà elaborare quanto prima un programma di attività che sarà costruito con il contributo di tutti. È chiaro inoltre che il Garante sarà al più presto dotato, dal Consiglio, di una strumentazione adeguata e di tutti i mezzi necessari per poter funzionare al meglio. I suoi collaboratori saranno scelti tra soggetti con una certa attitudine, che abbiano sensibilità e si impegnino per questo tipo di problematiche. Contemporaneamente si dovrà provvedere a una sede autonoma. È giusto che sia autonoma perché l’istituzione deve avere una sua riservatezza, una sua caratterizzazione anche logistica nella città, in modo che possa essere facilmente raggiungibile da tutta la popolazione del Lazio, dai detenuti e dalle famiglie di questi.

Rivedere il concetto di pena. Un sistema carcerario punitivo incompatibile con il nostro stato di civiltà

 

Intervista a Stefania Craxi, di Irene Testa

 

Come valuta il panorama politico di questo particolare momento?

Quello che vedo è che questo Paese, che è comunque una grande nazione, sta subendo un declino che dura da mesi, a cui nessuno sembra poter rimediare. Il panorama politico è evidentemente deludente, ma credo che ci sia di più in questo Paese: una decadenza morale che non c’entra con il moralismo, ma attacca la società italiana a tutti i livelli e quindi si riflette sulla politica. Vedo che la politica è assente, e nel Paese governano le lobby finanziarie, industriali, dell’informazione, dei burocrati, dei magistrati.

Mi piacerebbe che questo Paese ritorni in mano a industriali, artigiani, contadini e professionisti, purché non rimanga in mano alle lobby. Quella dei magistrati in questi anni è stata particolarmente dannosa.

 

Cosa pensa riguardo l’affermazione che la politica o meglio i gruppi politici e il netto, seppur confuso, bipolarismo che si delinea sembrano aver deluso le aspettative degli italiani?

Io credo che questa legge elettorale ingozzi la politica in due colli d’oca. Noi non siamo un paese di tradizione bipartitica, quindi non vedo come dei poli così disomogenei, come quelli che si sono creati con questo meccanismo elettorale, possano riuscire a governare il Paese. Non ci riesce il centro-destra, che comunque un programma l’aveva formulato, non credo ci possa riuscire un centro-sinistra che ancora non è in grado di mettere in piedi un programma, visto che comunque tutti quanti devono fare i conti con le ali estreme. Questo Paese è sempre stato governato dal centro-sinistra che, comunque, era l’espressione moderata dei cattolici liberali e delle aree laiche.

 

Suo padre sarebbe andato in Iraq?

Questo è molto difficile da dire, nel senso che mio padre ha perseguito tutta la sua vita verso una politica di pace, di sviluppo del mediterraneo, anche perché vedeva che senza sviluppo non ci poteva essere pace. Vedeva il grande divario tra Nord e Sud. Vedeva la cecità delle grandi nazioni occidentali che, quando potevano farlo in periodi di grande sviluppo, non hanno fatto nulla per colmare questo divario.

Detto questo, mio padre non ha vissuto l’11 Settembre che è stato un atto di guerra vero e proprio , quindi è molto difficile fare valutazioni. Ma di certo oggi, non si tirerebbe indietro di fronte a una responsabilità che coinvolge tutta la Comunità Internazionale.

 

Quante donne vorrebbe nel prossimo governo?

Tante. Credo che questo Paese cambierà il giorno che saranno le donne a deciderlo.

 

E quali?

Nel panorama politico non sono molte, sono poche quelle che mi piacciono, Emma Bonino sicuramente è una di queste. In questo momento le donne che in Italia rappresentano la politica interna sono pochissime, la minor percentuale rispetto a tutto il resto d’Europa. Questo un po’ perché l’organizzazione familiare per le donne resta ancora difficile, un po’ perché noi donne non sappiamo fare i conti con il potere.

 

Che opinione ha di certa magistratura politicizzata? Pensa sia un fenomeno esteso?

Che esista la magistratura divisa in correnti politiche è una realtà. Basta leggere qualche rivista di Magistratura Democratica, o assistere ai loro convegni, per rendersi conto che le cose che dicono risalgono a più di vent’anni fa. Questo è sicuramente un problema perché la magistratura divisa in correnti politiche è una caricatura della giustizia.

Però c’è un problema in più, non è solo il fatto di avere una magistratura politicizzata. La magistratura è un ordine, nel momento in cui una categoria di lavoratori dello Stato -così dovrebbe essere per la nostra Costituzione- gode dell’automatismo della carriera; dell’automatismo dello stipendio; di nessuna responsabilità civile o penale per l’errore che compie e anche dell’autogoverno, diventa automaticamente un mostro sociale, che sia di destra o di sinistra.

 

E quindi cosa succede?

Succede che la cosa che più vogliono dopo tutto quello che hanno ottenuto, è una sola: Il potere.

Da qui tutti gli sconfinamenti che sono avvenuti. La magistratura dovrebbe essere solamente un servizio atto a dare tutela ai diritti dei cittadini e non uno strumento di lotta politica.

 

Non pensa che di questo se ne dovrebbe occupare il Presidente del CSM?

Ciampi, come l’altro Presidente della Repubblica che lo ha preceduto, in maniera seppur meno plateale, difende in modo silenzioso la magistratura. Non l’ho mai sentito fare un rilievo, per esempio, al fatto che i magistrati pratichino uno sciopero che è anticostituzionale. Infatti possono scioperare solo per questioni amministrative ma non ne hanno diritto per questioni che sono prettamente politiche, come quello di una legge che il Parlamento, nella sua legittimità e autorità, decide di fare.

 

E il ministro Castelli?

Al ministro Castelli qualche posizione dura l’ho vista tenere: mi sembra, però, non frutto di un ragionamento politico particolarmente esteso.

 

Quale riforma, se potesse, realizzerebbe subito?

Quella della Giustizia.

 

E quella del sistema carcerario?

Penso che alle soglie del terzo millennio vada rivisto il concetto di pena. Credo che la pena in senso punitivo, così come viene vista, non serva alla società. Le faccio un esempio recente: che benefici sociali porta Tanzi in carcere? Tanzi ha sbagliato, ha sottratto risorse ai cittadini, le ha sottratte all’intero Paese: si trovi un meccanismo compensatorio perché queste risorse vengano ridate e possano essere distribuite in modo utile.

Il carcere dovrebbe essere solamente uno strumento limite per tutelare la società da un pericolo, impedire che degli individui possano nuocere. Questa dovrebbe essere, secondo me, la regola, il concetto che deve guidarne il senso. Il carcere come punizione è una cosa incivile, nel senso che inadeguata al nostro stato di civiltà. Più che rifare l’ordinamento si dovrebbe rifare un pensiero su tutto quello che è il carcere, la pena e la punizione da parte degli intellettuali; degli scienziati; dei magistrati; della politica.

 

Applicherebbe di più le misure alternative?

Assolutamente.

 

Secondo lei ci sono molti innocenti in carcere?

Sicuramente. Recentemente il procuratore di Palermo, Grasso, ha dichiarato: sono costernato nel vedere che politici che sono stati accusati, processati, condannati, ritornino, una volta risolte le loro pendenze, a essere candidati. Io sono costernata nel vedere che magistrati che hanno mandato in carcere innocenti, che hanno dimostrato poco equilibrio, poca riservatezza, hanno dimostrato delle posizioni politiche, hanno sbagliato, come se nulla fosse continuano a giudicare le persone.

 

L’impegno della Fondazione Craxi, che lei presiede, immagino sarà rivolto anche a questi temi…

Sì, stiamo pensando di fare un convegno sulla giustizia, mi piacerebbe farlo ad Hammameth. Ho provato l’hanno scorso a mettere in piedi, con tutte le associazioni carcerarie, un convegno nel carcere di Regina Coeli. Mi hanno detto che non era possibile. Volevo parlare di amnistia perché mi sembra un punto importante, perché credo risolva un problema oggettivo, di migliaia di faldoni che giacciono negli armadi e che vengono prelevati a scelta dai magistrati, lasciando una infinità di ingiustizie giacere nei tribunali. Credo che uno Stato forte, civile, saggio, debba saper chiudere i conti con il passato, con la politica del passato e con altre situazioni che hanno lasciato strascichi giudiziari e carcerari. Questo vale per Sofri, come per Giusva Fioravanti, come per centinaia di persone che hanno fatto un percorso, sbagliando, ma che oggi sono persone diverse e non trovo un senso per tenerle in carcere.

 

Cosa si auspica nel futuro della fondazione Craxi?

La fondazione Craxi in questi ultimi sei mesi l’ho trasformata in una istituzione, le ho dato un comitato scientifico che ha nomi del mondo accademico che vanno da Pellicani a Cafagnia, a Quagliariello, Craveri, Perfetti: di destra e di sinistra. La Fondazione continua il suo lavoro di ricostruzione dell’archivio Craxi e di ristabilimento della verità su Craxi, sulla sua opera e su un pezzo importante della storia italiana.

 

E cosa si auspica nel futuro dell’Italia?

Che ritorni ad essere un paese civile. Che in Italia termini questo clima di guerra nel quale non si contrappone proposta a proposta, ma si contrappongono fazioni armate. Spero si ritorni a pensare in termini di sviluppo, progresso, responsabilità, amore per la gente.

 

E nel mondo?

Nel mondo mi auspico la pace e lo sviluppo, che ogni nazione possa avere il governo che è giusto, che crede e che si vuol dare senza che nessuna forza esterna interferisca, rispettando sempre e ovunque i diritti dei cittadini, le libertà fondamentali dell’individuo. Ogni nazione ha il suo grado di sviluppo e quindi è giusto che ogni nazione, in base al suo grado di sviluppo, abbia il governo che meglio ritiene, senza che gli sia imposto.

 

Nel suo futuro?

Il mio futuro è più complicato, diciamo che a latere di questo non voglio smettere di impegnarmi per fare quello posso affinché le cose in questo paese cambino.

 

 

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