La traduzione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari

Cassazione , sez. IV penale, sentenza 24.11.2005 n° 7664 (Mario Pavone - Avvocato)

 

 

La traduzione degli atti processuali è,ancora una volta,oggetto di una innovativa quanto rilevante decisione della Suprema Corte che ha stabilito che anche l’avviso di conclusione delle indagini preliminari deve essere tradotto, a pena di nullità, se l'indagato non comprende la lingua italiana.

La Corte di Cassazione ha, infatti, affermato, nel pregevole provvedimento, che l’omessa traduzione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari destinato all’indagato che non comprende la lingua italiana,ne determina la nullità d’ordine generale ed a regime intermedio,che si riverbera anche sulla conseguente richiesta di rinvio a giudizio.

Tuttavia,secondo la stessa decisione, tale nullità può essere sanata, a norma dell’art.183,comma 1 lett. a), Cpp,dall’acquiescenza prestata dall’imputato con la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato.

La decisione appare,invero,innovativa e destinata a modificare il precedente orientamento della stessa Suprema Corte (Cass. Pen. sez. II, sent. n. 45645 del 25 novembre 2003) che aveva ritenuto,in una ipotesi simile, come "in conformità sia del dettato costituzionale,sia dell'articolo 6, lettera e), della Convenzione europea dei diritti dell'uomo 4 novembre 1950, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955 n. 848, il diritto di difesa nei confronti dell'imputato straniero alloglotta,fosse assicurato dall'assistenza dell'interprete solo limitatamente agli atti orali,dovendosi escludere l'obbligo di traduzione degli atti processuali nella sua lingua ma dare,in virtù della regola generale sancita dall'articolo 109, comma 1, Cpp, e con l’unica eccezione costituita dall'articolo 169, comma 3,dello stesso codice, che riguarda la traduzione dell'invito,notifi-cato all’imputato residente all’estero,a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato”.

La Corte aveva,in conseguenza,rigettato con il provvedimento il ricorso del cittadino straniero che aveva dedotto la nullità del giudizio per difetto di traduzione nella sua lingua di tutti gli atti del procedimento, compre so anche l'atto di appello del P.M. (Cass. pen., sez. II, 10 agosto 2000, Lu Hai e altri).

Con la stessa decisione,inoltre,la Corte aveva disatteso il contenuto di altre sentenze emesse dallo stesso consesso,anche a Sezioni Unite (Cass. Sezioni Unite 31 maggio 2000 n.12, JAKANI), non avendo le stesse risolto esplicitamente la questione della obbligatorietà o meno della traduzione degli atti del processo all'imputato alloglotta osservandoche anche "l'interpretazione data dalla Corte Costituzionale all'articolo 143 del Codice di Rito,con la sentenza interpretativa di rigetto numero 10 del 19 gennaio 1993, non aveva sopito, in sede di legittimità, il contrasto tra le opposte tesi".

Sul punto,la S.C. aveva,ancora,osservato che,se “ratio” della citata decisione era stata quella di consentire una piena consapevolezza dell'accusa, quale cristallizzata negli atti evocativi del giudizio,tanto portava ad escludere dall'obbligo di traduzione sia l'avviso previsto dall'articolo 415 bis Cpp,sia l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, siccome atti propedeutici a tale cristallizzazione.

Occorre,peraltro,ricordare come le Sezioni Unite,sempre in relazione all’obbligo di traduzione degli atti processuali riguardanti il cittadino straniero,abbiano,più di recente,stabilito che l'ordinanza che dispone una misura cautelare nei confronti di uno straniero che non conosca la lingua italiana debba essere tradotta, a pena di nullità, in una lingua a lui nota (Cass. Sezioni Unite 9.2.2004 n.5052).

Con la fondamentale sentenza, le S.U.hanno,di fatto,risolto un analogo contrasto giurisprudenziale,come quello innanzi segnalato, tra diverse sezioni della Suprema Corte in relazione alla traduzione della ordinanza custodiale.

In alcune decisioni,infatti,era stata affermata la inesistenza di alcun obbligo di traduzione dell'ordi- nanza di custodia cautelare in base al rilievo che, nel caso l'indagato non conoscesse la lingua italiana,«la tutela dello stesso fosse assicurata dall'adempimento dell'obbligo, previsto dall'art. 94, comma 1 bis, disp. att. c.p.p., a carico del direttore dell'istituto penitenziario di accertare, anche con l'ausilio di un interprete, che l'interessato avesse precisa conoscenza del provvedimento che ne disponesse la custodia e di illustrargliene, ove occorresse, i contenuti» (vedi Cass., 5 maggio 1999, n. 2128;Cass., 10 maggio 2002, n 17829; 26 giugno 2000, n.3759).

Le Sezioni Unite avevano, per contro,aderito all’opposto indirizzo giurisprudenziale derivante dalla combinata lettura della sentenza della Corte costituzionale n.10/1993,nella quale era stato affer- mato in maniera esplicita come il diritto all'interprete di cui all'art. 143 C p p ,comprendesse il diritto alla traduzione del decreto di citazione a giudizio in tutti i suoi elementi, e dell'art. 292 dello stesso codice,concernente l’elenco di una serie di elementi che l'ordinanza cautelare deve enunciare a pena di nullità,ed avevano così stabilito che anche quest'ultimo provvedimento deve recare la tra duzione in lingua nota al destinatario, ove il provvedimento custodiale sia emesso nei confronti di straniero alloglotta.

In base a tali principi, le S.U. avevano ritenuto come “anche l'ordinanza custodiale, alla pari del decreto di citazione a giudizio,deve considerarsi un atto dal quale l'indagato straniero che non comprenda la lingua italiana può essere pregiudicato nel suo diritto di partecipare al processo libero nella persona, in quanto, non comprendendo il relativo contenuto, non è posto in grado di valutare né quali siano gli indizi ritenuti a suo carico, né se sussistano o meno i presupposti per procedere alla impugnazione dell'ordinanza, a norma dell'art. 292, comma 2, c.p.p.» (v. in tal senso Cass.. 21 marzo 2002, n. 11598;Cass. 23 settembre 1999, n 4841;Cass. 8 settembre 1999, n. 1527).

Le Sezioni Unite avevano,in effetti,mutuato alcuni principi fondamentali già enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza 10/1993 tra cui vanno annoverati:

il diritto dell'imputato ad essere immediatamente e dettagliatamente informato, nella lingua da lui conosciuta, della natura e dei motivi dell'imputazione contestatagli deve essere considerato un diritto soggettivo perfetto;

il diritto inviolabile alla difesa (art. 24, comma secondo, della Costituzione)che,essendo un diritto correlato al riconoscimento costituzionale, a favore di ogni persona, cittadina o straniera, obbliga il giudice ad interpretare le norme che garantiscono i diritti di difesa in ordine alla esatta comprensione dell'accusa, in modo espansivo, al fine di rendere concreto ed effettivo, nei limiti del possibile il sopra indicato diritto dell'imputato;

il sistema tracciato dall'art. 143 c.p.p. che - nel definire significativamente il contenuto dell'attività dell'interprete in dipendenza della finalità generale di garantire all'imputato che non intende la lingua italiana di comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa;

concepisce la figura dell'interprete, innovativamente rispetto al codice previgente, in funzione del diritto di difesa, quale strumento di reale partecipazione dell'imputato al processo attraverso l'effettiva comprensione dei distinti atti e dei singoli momenti di svolgimento dello stesso;

una interpretazione estensiva dell'art 143 c.p.p. a tutte le ipotesi in cui l'imputato, ove non potesse giovarsi dell'ausilio dell'interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo penale poiché la norma assicura una garanzia essenziale al godimento di un diritto fondamentale di difesa,

l’obbligo di procedere alla nomina dell'interprete o del traduttore immediatamente al verificarsi della circostanza della mancata conoscenza della lingua italiana da parte della persona nei cui confronti si procede, tanto se tale circostanza sia evidenziata dallo stesso interessato, quanto se in difetto di ciò, sia accertata dall'autorità procedente.

Nell’ottica della Corte delle Leggi,tali principi scaturivano dalla lettura della Legge Delega 16 febbraio 1987, n. 81, laddove,all'art.1, prevede che «il codice di procedura, penale deve attuare i principi della Costituzione e adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate in Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale», come pure dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ed,infine,dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, ricordando che l'art. 6, comma 3, lettera a), della Convenzione stabilisce che «ogni accusato ha diritto a essere informato, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico».

Il Patto contiene,pure,una norma pressoché identica,disponendo all'art 14, comma 3, lettera a), che «ogni individuo accusato di un reato ha il diritto, in posizione di piena uguaglianza, a essere informato sollecitamente e in modo circostanziato, in lingua a lui comprensibile della natura e dei motivi dell'accusa a lui rivolta».

Inoltre, sia la Convenzione sia il Patto prevedono espressamente che «ogni persona che venga arrestata deve essere informata al più presto possibile e in una lingua a lei comprensibile dei motivi dell'arresto e di ogni accusa elevata a suo carico» (art 5, comma 2, della Convenzione) e che «chiunque sia arrestato deve essere informato, al momento del suo arresto, dei motivi dell'arresto medesimo e deve al più presto avere notizia di qualsiasi accusa mossa contro di lui» (art 9 comma 2, del Patto).

Va,infine,ricordato che il diritto dell'indagato di essere posto in grado di comprendere, in una lingua che conosca, il contenuto degli atti è stato di recente riconosciuto dal nuovo art. 111 della Costituzione,che stabilisce che la legge assicura che «la persona accusata di un reato sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo» e non può dubitarsi che la norma trovi applicazione anche nel procedimento, in tutti i casi, cioè, in cui sia in questione, direttamente o indirettamente, la libertà personale.

Con la nuova sentenza in commento, la Suprema Corte,estende ora tali principi essenziali anche all’avviso di conclusione delle indagini preliminari benché la norma dell’art.415-bis,come afferma la stessa Corte, “non contenga espresse indicazioni in proposito”

Per invidivudra euna chiave di lettura appare necessario,quindi,fare riferimento alle disposizioni contenute negli artt.109 e 143 del Codice di Rito in cui, sebbene l’art.109 preveda al comma 1, l’obbligo di utilizzare a lingua italiana negli atti del procedimento,l’art.143,sempre al primo comma, garantisce all’imputato alloglotta l’assistenza gratuita di un interprete al fine di comprendere l’accusa contro di lui formulata e seguire il compimento degli atti a cui partecipa.

Da tale ultima disposizione si comprende - secondo la Corte- come il Codice di Rito non attribuisca rilevanza alla cittadinanza straniera dell’imputato ma al fatto che lo stesso non conosca la lingua italiana e da questo scaturisca il diritto alla traduzione degli atti processuali.

Inoltre,secondo la Suprema Corte,benché l’art.143 Cpp sembrerebbe limitare l’ambito di assistenza dell’interprete agli “atti orali” che vedono la partecipazione dell’imputato escludendo implicitamente un obbligo di traduzione di quelli formati dal giudice o dal pubblico ministero anche se vengano allo stesso comunicati,la norma vada interpretata in senso favorevole all’imputato sino a ricomprendere anche gli atti scritti allo stesso notficati, tra cui l’avviso ex art.415-bis..

Tale principio scaturirebbe,altresì,dalla lettura dell’art.109,comma 2 e dell’art.169 Cpp,che concer- ne il contenuto dell’invito spedito all’imputato straniero residente o dimorante all’estero,come pure obblighi espressi di traduzione degli atti procedimentali si rinvengano anche nella normativa internazionale, come,ad es.,nell’art. XII dell’accordo integrativo in materia penale del 20/4/1959, stipulato tra l’Italia e la Svizzera il 10/9/1998 che prevede l’obbligo della traduzione degli atti notificati a persone residenti nei territori dei due Stati.

Anche la Suprema Corte ritiene la chiave interpretativa delle norme innanzi richiamate vada individuata nella decisione della Corte Cost. n.10/1993,che ha sancito in maniera palmare il diritto dell’imputato straniero di farsi assistere gratuitamente da un interprete e di ottenere la traduzione,in tutti i suoi elementi,dell’avviso relativo alla facoltà di richiedere il giudizio abbreviato ,del decreto di giudizio immediato e del decreto di citazione diretta a giudizio a pena di nullità,come stabilito in varie sentenze (Cass. Pen.Sez. IV, sentenza 5 Maggio 2004, Obwo).

In conseguenza,la norma dell’art.143 del Codice di Rito, così come interpretata dalla Corte Costitu zionale,sarebbe destinata ad assicurare una garanzia essenziale al godimento dei diritti fonda mentali di difesa e conterrebbe dunque una clausola generale,di ampia applicazione,”destinata ad espandersi ed a specificarsi” di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richieda- no,quale che sia il tipo di atto a cui l’imputato debba partecipare ovvero il genere di ausilio di cui lo stesso necessiti.

Benché in altre sentenze sia stata negata la configurabilità di un obbligo indiscriminato di traduzio ne degli atti, al di fuori delle ipotesi espressamente previste dal Codice di rito (v. Cass. sentenza 10 Agosto 2000, cit.), la Corte, aderendo alla impostazione della Corte Costituzionale,ritiene di poter affermare che l’obbligo di traduzione debba ricomprendere anche l’avviso di conclusione delle indagini preliminari posto che “l’atto è destinato ad informare l’indagato delle facoltà difensive riservategli dalla legge nella fase della chiusura delle indagini preliminari,il cui esercizio,per di più,è vincolato all’osservanza di un termine perentorio”(gg.20 dalla notifica-ndr).

In definitiva,secondo la Corte,all’avviso di conclusione delle indagini vanno collegati quei poteri partecipativi dell’imputato la cui possibilità di esercizio assume un ruolo scriminante fra atti a traduzione necessaria ed atti residui.

Secondo la decisione in commento, anche le stesse Sezioni Unite,in una recente decisione (Cass.S.U. sentenza 24 Settembre 2003, Zalagaitis), avrebbero condiviso tale impostazione,sostenendo come l’art.143 Cpp trovi applicazione in tutte le ipotesi in cui l’indagato,ove non possa giovarsi dell’ausilio di un interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del procedimento.

In conseguenza,l’omessa traduzione dell’avviso di conclusione delle indagini determinerebbe la nullità di ordine generale ex art.178 lett.c) Cpp,a regime intermedio,dello stesso provvedimento, nullità che si riverberebbe, inevitabilmente, anche sulla conseguente richiesta di rinvio a giudizio da cui è ontologicamente preceduto.

Nondimeno,la Corte ritiene nella decisione che tale nullità potrebbe essere sanata,a norma dello art.183 ,comma 1,lettera a) Cpp in caso di acquiescenza,espressa o tacita,prestata dall’imputato, specie a seguito della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato.

La Corte giudicante ritiene,infatti,che la richiesta di giudizio abbreviato costituisca accettazione de gli effetti dell’atto a contenuto probatorio inficiato da nullità a regime intermedio o relativa ed abbia pertanto, efficacia sanante,in conformità di quanto statuito dalla stessa in precedenti decisioni (v.Cass. sentenza 8 Gennaio 2002,Marchegiani Cass.24 Febbraio 1998,Greco).

Va, ancora sottolineato,che non è,tuttavia,sufficiente la traduzione dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari laddove l’imputato straniero risieda all’estero posto che tale avviso deve contenere, in conformità di quanto stabilito dall’art.169 Cpp,oltre alla indicazione della autorità che procede,il titolo del reato e la data e il luogo in cui è stato commesso,l`invito a dichiarare o eleg- gere domicilio nel territorio dello Stato oltre all’espresso avvertimento che se nel termine di trenta giorni dalla ricezione della raccomandata non viene effettuata la dichiarazione o l`elezione di domicilio ovvero se la stessa è insufficiente o risulta inidonea, tutte le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore.

E’ quanto ha,acutamente,osservato il G.U. del Tribunale di Brindisi in relazione alla eccepita nullità da parte del difensore del decreto di citazione a giudizio emesso nei confronti di un imputato stra- niero residente all’estero e che è stata accolta dal valente magistrato che ha dichiarato la nullità della vocatio in jus sul presupposto che il PM aveva notificato all’imputato unicamente un avviso della conclusione delle indagini preliminari tradotto ma privo dei contenuti voluti dall’art.169 del Codice di Rito (v.Ordinanza Trib.Brindisi G.U. De Angelis del 6/4/2006 ,proc. pen.T.A., inedita).

La necessità della traduzione degli avvisi notificati all’imputato straniero è sata pure oggetto di una recente decisione della Corte delle Leggi,emessa in relazione alla mancata previsione dell'interpello dell'imputato, e dalla quale si evince chiaramente come tale obbligo sia implicitamen- te riaffermato nella motivazione “poiché l'ordinanza di remissione non riferisce se vi siano stati altri atti del processo e se l'imputato abbia eventualmente fruito dell'assistenza di un interprete (art. 143 Cpp)né le ragioni ostative per il giudice a quo all'interpello dell'imputato o all'accertamento, con altri mezzi, se questi conoscesse o meno la lingua italiana “ (v.Corte Cost., Ordinanza n.121 del 23 Maggio 2005).

Anche quest’ultima decisione,come quella in commento introduce un elemento di novità in relazio ne ad un più esteso riconoscimento di un effettivo diritto di difesa dell’imputato straniero posto di fronte alla formulazione della accusa,contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dalla quale intenda discolparsi attraverso l’esercizio delle facoltà difensive cui lo stesso abbia diritto.

Si tratta di un notevole passo in avanti compiuto dalla Suprema Corte nella interpretazione della,invero carente,normativa sul tema contenuta nel Codice di Rito come pure nella auspicabile direzione della affermazione del principio dell’obbligo della traduzione di tutti gli atti processuali a carico del cittadino alloglotta connaturato con il considerevole aumento dei procedimenti penali a carico di imputati e detenuti stranieri nel nostro Paese,da sempre culla della civiltà e del diritto.

 

(Altalex, 17 maggio 2006. Nota di Mario Pavone)



SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

 

 

Sentenza (ud. 24-11-2005) 03 marzo 2006, n. 7664

(Presidente M. Battisti, Relatore R. Bricchetti)


Svolgimento del processo

 

1. Con sentenza in data 9 novembre 2001, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di PARMA dichiarava, in giudizio abbreviato, F.F. e E.P.A. colpevoli del reato di illegale detenzione di 11,558 chilogrammi di cocaina e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, ritenute le stesse equivalenti alla contestata circostanza aggravante dell'ingente quantità, applicata la diminuente prevista per il rito, li condannava alle pene di anni undici di reclusione e di lire 200 milioni di multa; ordinava, altresì, la confisca della somma di denaro sequestrata a F.F. perchè rinvenuta all'interno della sua autovettura.

1.1 Avuto riguardo agli specifici punti di gravame formulati nei ricorsi presentati, vanno riepilogate alcune fasi del fatto e della vicenda processuale, riportate nel testo della sentenza di primo grado, richiamata e ampiamente condivisa, come più avanti si dirà (v. infra 2), da quella di appello.

Il 26 luglio 2000 la Polizia di Stato aveva proceduto all'arresto di F.F., E.P.A. e S. S..

S. si trovava alla guida di una VW Golf; al suo fianco c'era E.P.; F. li seguiva alla guida di una NISSAN Micra.

Gli operanti erano intervenuti nel momento in cui la VW Golf era entrata nel cortile dello stabile ove aveva sede la cooperativa "La Buia" (in (OMISSIS)).

All'interno della VW Golf erano stati rinvenuti dodici pani rettangolari contenenti cocaina, sei dei quali nascosti nella ruota di scorta e gli altri sei occultati "nello spessore delle due portiere posteriori".

I tre erano stati sottoposti a perquisizioni personali; E. P. era stato trovato in possesso di banconote di diverse valute, F. della somma contante di L. 5.300.000.

Accertato che la VW Golf era intestata al cittadino spagnolo V.P.E. e che questi alloggiava in quei giorni all'albergo (OMISSIS) di (OMISSIS), gli agenti si erano posti alla ricerca dell'uomo.

Lo avevano rintracciato (mentre si trovava in compagnia del colombiano C.R.W. e della venezuelana G.A. C.C.), in piazza (OMISSIS), nelle prime ore del (OMISSIS) e sottoposto a fermo. Soltanto il giorno successivo la NISSAN Micra (che nell'immediatezza del fatto era stata solo sommariamente ispezionata) era stata sottoposta ad accurata perquisizione.

In nascondigli ricavati all'interno dei passaruota posteriori, gli agenti della DIGOS avevano rinvenuto la somma contante di L. 299.500.000 (oltre ad un esiguo quantitativo di cocaina).

1.2 Il fermato e gli arrestati erano stati interrogati nell'udienza di convalida.

V. aveva dichiarato di essere stato incaricato di trasportare la cocaina da MADRID a PARMA, dove era giunto la notte del (OMISSIS); poco dopo il suo arrivo, era stato chiamato da un certo A. al quale, seguendo le istruzioni ricevute prima della partenza, aveva consegnato le chiavi della Golf.

E.P. aveva negato ogni addebito, affermando che, al momento del suo arresto, non si trovava a bordo della Golf; era, tuttavia, in possesso delle chiavi della stessa perchè le aveva trovate "per caso in terra".

F. si era dichiarato, a sua volta, del tutto estraneo ai fatti.

Aveva affermato di essere partito da PALERMO la sera del 25 luglio allo scopo di avere contatti di lavoro e che la somma di denaro contante sequestratagli doveva servirgli per acquistare la partecipazione in una società che non intendeva, però, nominare "per non creare ulteriori problemi".

S. aveva spiegato che dal maggio 2000 svolgeva servizio civile presso la cooperativa "La Buia".

Lì lavorava anche un detenuto in semilibertà, P.S., del quale era diventato amico.

Il 25 luglio, P. gli aveva chiesto di reperire un garage dove poter ricoverare l'autovettura di certi suoi amici che sarebbero giunti dalla SPAGNA. Nel pomeriggio dello stesso giorno, aveva personalmente portato la Golf presso il garage di un suo amico ( GA.Mi.).

Nel primo pomeriggio del giorno successivo, P. lo aveva chiamato, chiedendogli di andare a prendere la Golf perchè i suoi amici dovevano ripartire.

Intorno alle ore 16,30 si era recato all'appuntamento con il P., che in quel momento si trovava in compagnia di E. P., di F. e di un'altra persona che non parlava italiano (il V.).

Insieme a E.P. e a F., con la NISSAN Micra condotta da quest'ultimo, erano andati a ritirare la Golf, dopo essersi fermati brevemente presso un albergo per recuperare le chiavi dell'autovettura.

Ritirata la Golf, si era posto lui alla guida perchè E.P. non aveva la patente.

Secondo le istruzioni ricevute dal P., si era portato presso la sede della cooperativa.

Interrogato dal Pubblico Ministero in data 3 agosto 2000, S. aveva fornito ulteriori particolari della vicenda.

Aveva spiegato che allorquando si era recato, la prima volta, a ritirare l'autovettura, con il P. c'erano tre "spagnoli", due uomini ( V. e C.) ed una donna (la G.), nonchè un italiano di circa 45 anni che parlava con inflessione meridionale.

Non era la prima volta che vedeva quell'uomo perchè, in almeno un paio di occasioni, questi aveva fatto visita al P. presso la sede della cooperativa.

L'uomo aveva accompagnato lui ed il V. presso un'autorimessa dove avevano prelevato la Golf.

Lui e V. l'avevano, quindi, portata presso il garage del GA..

S. aveva riferito, poi, che quando, il giorno successivo, P. lo aveva incaricato di ritirare la Golf dal garage del GA., aveva potuto osservare il F. mentre prendeva sotto braccio il P. e gli parlava con la "bocca accostata all'orecchio".

S. aveva aggiunto che, dopo avere ritirato la Golf, lui stesso aveva invitato il F. a seguirlo con la NISSAN Micra.

Il (OMISSIS), S., in sede di individuazione fotografica, aveva riconosciuto tutte le persone coinvolte nella vicenda.

Il (OMISSIS), S. aveva chiesto di essere sentito dal Pubblico Ministero; nell'occasione, si era ricordato che l'amico italiano del P., che lo aveva accompagnato a recuperare la Golf il giorno precedente l'arresto, si chiamava D..

Sulla base delle indicazioni fornite dallo S., si era giunti all'identificazione di L.D..

Questi, interrogato il 2 marzo 2001, aveva rivelato al Giudice per le indagini preliminari che da anni collaborava con la Polizia di Stato, segnatamente con l'Ispettore CE..

Pertanto, quando P. gli aveva raccontato che stava organizzando l'importazione dalla SPAGNA di cocaina che avrebbe venduto "ad un imprecisato siciliano", aveva confidato la circostanza al CE..

L'Ispettore lo aveva allora invitato a collaborare in cambio di una ricompensa in denaro.

Sulla base delle istruzioni ricevute dal CE., L. aveva convinto il P. a fare arrivare la droga a PARMA, anzichè a MILANO. Una sera, uno sconosciuto straniero lo aveva chiamato sul cellulare, dicendogli che la cocaina era arrivata a PARMA e che bisognava mettere al sicuro l'autovettura nella quale era stata occultata.

Su suggerimento dell'Ispettore CE., aveva ricoverato il veicolo nel box - autorimessa di suo fratello.

Si era, quindi, recato presso l'albergo di PARMA indicatogli dall'ignoto interlocutore.

In luogo aveva conosciuto il V. e con lui si era recato presso il box del fratello.

Avevano lasciato lì la Golf e V. si era tenuto le chiavi.

Il giorno dopo si era incontrato con l'Ispettore CE. e con il sovrintendente CI., per pregarli di non intervenire immediatamente al fine di non suscitare nei trafficanti sospetti sul suo conto.

Aveva, poi, raggiunto il P. e gli aveva chiesto di spostare altrove l'autovettura per evitare che suo fratello potesse scoprire qualcosa.

P. gli aveva riferito che aveva un amico disposto a custodirgli il veicolo.

Pertanto, nel pomeriggio dello stesso giorno, insieme a V. e a S., era tornato presso il garage del fratello ed aveva consegnato il veicolo ai due, dopo avere preavvertito CE., che aveva così avuto il tempo necessario per predisporre, insieme al CI., l'ennesimo servizio di osservazione.

Aveva così avuto modo di vedere che quando S. e V. erano ripartiti con la Golf, diretti al nuovo garage, CE. li aveva seguiti. Interrogato dal Pubblico Ministero in data 6 marzo 2001, L. aveva confermato le precedenti dichiarazioni rese, offrendo altri particolari della vicenda.

1.3 Nel prosieguo delle indagini il Pubblico Ministero era pervenuto ad accertare che il sequestro della cocaina non era scaturito, come appariva dai primi atti di polizia giudiziaria, dalle intuizioni del CE., ma era stato il frutto di una laboriosa operazione, originata dalle confidenze del L..

CI. e CE., successivamente sentiti, quest'ultimo quale indiziato di reato, avevano confermavate la veridicità del racconto di L..

Il sovrintendente CI. aveva riferito in ordine a tutti i servizi di osservazione eseguiti fino al momento degli arresti.

S. ed E.P. erano stati bloccati nel cortile dello stabile in cui aveva sede la cooperativa; F., che li aveva seguiti, e si era fermato all'esterno, era stato arrestato dagli agenti CA. e T..

Dal L. avevano, poi, appreso che all'interno della NISSAN Micra era stata nascosta una somma di denaro e ciò spiegava perchè, soltanto il giorno successivo all'arresto, avevano proceduto ad un'accurata perquisizione del veicolo.

L'ispettore CE., interrogato in qualità di indiziato di reato, aveva reso analoghe dichiarazioni, spiegando che negli atti di polizia giudiziaria, da lui redatti, non aveva ritenuto opportuno di menzionare il nome dell'informatore e, di riflesso, aveva dovuto anche tacere, almeno inizialmente, il nome del P..

2. Sull'appello degli imputati, la Corte di Appello di BOLOGNA, con sentenza in data 22 ottobre 2002, confermava la sentenza pronunciata nei confronti di E.P. e riduceva ad anni otto di reclusione ed Euro 51.650,00 di multa le pene inflitte al F..

2.1 Con riguardo alla posizione di E.P., la Corte, richiamandosi alla "puntuale e minuziosa trattazione dei fatti" contenuta nella sentenza di primo grado, si limitava a ribadire che l'imputato era, nei momenti che avevano preceduto gli arresti, a bordo della Golf, condotta da S., all'interno della quale era stata stivata la cocaina ed a ricordare le dichiarazioni rese da S. e dal Sovrintendente della Polizia di Stato CI. (v. supra 1.2 e 1.3); valutava, poi, come "incredibile e comunque sfornita di prova" la versione dei fatti prospettata dall'imputato.

La Corte Territoriale disattendeva, poi, la riproposta eccezione di nullità dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari per omessa traduzione nella lingua conosciuta dall'imputato, affermando che "nessuna pronuncia di legittimità ne prevede la nullità in caso di mancata traduzione".

Il giudice dell'appello concludeva affermando che la pena irrogata all' E.P. era da ritenersi congrua e che corretto era da considerarsi il giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche.

Rilevava, sul punto, che l'imputato aveva agito quale emissario di un'organizzazione di narcotrafficanti colombiani, con un incarico di responsabilità, quello di seguire il V. e di occuparsi del momento più importante dell'operazione, lo scambio della droga con il denaro. Stigmatizzava, altresì, la condotta processuale dell'imputato "improntata a negazione dell'evidenza". 2.2 Con riguardo al F., la Corte di merito affermava che la sua responsabilità era provata "in modo certo".

Dagli atti di polizia giudiziaria e dalle dichiarazioni di S. risultava, invero, che, il giorno dell'arresto, F., con la sua NISSAN Micra, aveva accompagnato E. P. e S. a ritirare la VW Golf (nella quale era stivata la droga) presso il garage nel quale era custodita;

F. aveva poi seguito la Golf fino alla sede della cooperativa.

I movimenti dei tre erano stati seguiti, fino al momento dell'arresto, dal sovrintendente CI..

All'interno della Micra era stata rinvenuta, oltre ad una modica quantità di cocaina, la somma di circa trecento milioni di lire in contanti "nascosta in vari alloggiamenti ricavati sulla vettura" ( F. aveva con sè altri cinque milioni di lire in contanti).

Come affermato dal primo giudice, era ragionevole ritenere che quel denaro fosse destinato al pagamento della cocaina.

La tesi difensiva del F. (che quel denaro fosse destinato a tale GA. di GRAVELLONA TOCE per l'acquisto delle quote di una società) appariva destituita di ogni fondamento; F. non aveva, per sua stessa ammissione, alcun appuntamento con il GA.; ciò nonostante, era partito dalla SICILIA per recarsi a GRAVELLONA TOCE ed incontrarlo. L'imputato aveva affermato, inoltre, di essersi fermato a PARMA per riposarsi e per mangiare, ma non ricordava nè il nome nè l'ubicazione del ristorante; solo casualmente - a suo dire - si era trovato sulla stessa strada della GOLF. Falsa era, infine - secondo F. - l'affermazione degli operanti in ordine al fatto che il denaro fosse stato nascosto in più punti del veicolo; esso, a dire dell'imputato, era, invece, contenuto in una borsa. Riteneva la Corte che particolarmente significativa, ed idonea a dimostrare la veridicità di quanto affermato dagli operanti, fosse proprio la circostanza che il denaro non era stato immediatamente rinvenuto (ciò che sarebbe accaduto se fosse stato effettivamente custodito in una borsa); solo il giornodopo, infatti, su indicazione del L., che conosceva il ruolo del F. nella vicenda, gli operanti avevano meglio controllato il veicolo e trovato il denaro (tra l'altro, dopo avere smontato alcune parti della vettura).

In ordine alle perplessità manifestate nell'atto di appello sulla veridicità degli atti di polizia giudiziaria con riguardo all'effettiva ora degli avvenuti arresti, la Corte Territoriale osservava che, comunque, una diversa collocazione degli orari, quand'anche fosse stata dimostrata, non avrebbe potuto giovare alla difesa del F., a meno di non voler sostenere una generale, nella specie peraltro insussistente, inattendibilità dell'operato della polizia.

Occorreva, altresì, tenere in considerazione le dichiarazioni rese dal sovrintendente CI., che aveva avuto modo di osservare gli spostamenti dei protagonisti, F. compreso.

Del tutto immotivate erano, poi, secondo la Corte, le valutazioni in ordine all'inattendibilità delle dichiarazioni di S.. Per quanto si trattasse di persona fragile, suggestionabile e depressa, non vi era prova dell'esistenza di patologie che giustificassero una distorta percezione della realtà da parte del medesimo.

Rilevava la Corte che la difesa dell'imputato aveva, altresì, dedotto, con l'atto di appello, che la condotta al medesimo addebitata non integrava il delitto contestato.

In particolare, poichè non era avvenuto lo scambio droga - denaro, non poteva ritenersi consumato l'acquisto della droga; nella condotta dell'imputato poteva, al più, ravvisarsi l'ipotesi tentata.

Replicava la Corte che la circostanza che F. si fosse recato da PALERMO a PARMA portando con sè il denaro dimostrava che l'accordo era già stato concluso e che si trattava soltanto di dare esecuzione al medesimo.

Tra le condotte incriminate dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73 - osservava la Corte - rientra anche quella di "commercio", che "si deve ritenere integrata anche da una trattativa per l'acquisto seguita da accordo anche se non dalla consegna materiale della droga".

In ogni caso, F., essendosi recato con S. ed E. P. a ritirare la Golf all'interno della quale era occultata la cocaina, doveva ritenersi concorrente nell'illegale detenzione della medesima.

La Corte Territoriale, come si è detto, riduceva, tuttavia, la pena a F., ritenendo che il denaro al medesimo sequestrato sarebbe servito ad acquistare solo parte (quantificata in circa 6 kg.) del quantitativo di cocaina sequestrato.

Non poteva, pertanto, applicarsi al F., in termini quantitativi, lo stesso trattamento sanzionatorio riservato ai colombiani venditori dello stupefacente.

3. Propongono ricorso per Cassazione i difensori degli imputati, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.

3.1 Nell'interesse di E.P. sono formulati tre motivi.

3.1.1 Con il primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità.

Il ricorrente rileva che a E.P. era stato notificato un primo avviso di conclusione delle indagini preliminari non tradotto nella lingua spagnola da lui conosciuta.

L'avviso non era stato, peraltro, seguito dalla presentazione della richiesta di rinvio a giudizio.

Le indagini preliminari erano, invero, proseguite.

E.P. era stato sottoposto ad interrogatorio in data 3 maggio 2001.

Il Pubblico Ministero aveva, pertanto, emesso un secondo avviso di conclusione delle indagini preliminari in data 31 maggio 2001. Anche questo avviso, però, non era stato tradotto, con conseguente lesione del suo diritto di difesa.

3.1.2 Con il secondo motivo il ricorrente sostiene, ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), la mancanza della motivazione in ordine alla circostanza che E.P. fosse consapevole che era cocaina "la merce di scambio della somma di denaro che era stato incaricato di ricevere, controllare e contare". 3.1.3 Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), la mancanza della motivazione in relazione al diniego della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche ed in relazione alla determinazione della pena.

Anche sul punto la motivazione della sentenza sarebbe "sbrigativa" e non terrebbe conto dell'incensuratezza dell'imputato, nonchè del minimo contributo causale che la sua condotta aveva apportato alla cessione della droga sequestrata.

Lamenta, infine, il ricorrente l'eccessività della pena irrogata, lasciando intendere che essa sarebbe stata volutamente commisurata nel "massimo" perchè poi avrebbe dovuto essere ridotta di un terzo per la scelta del rito.

3.2 Nell'interesse dell'imputato F. vengono dedotti cinque motivi di ricorso con due diversi atti, seguiti da note d'udienza riassuntive delle censure prospettate.

3.2.1 Con il primo motivo del primo ricorso e con il primo motivo del secondo ricorso i ricorrenti denunciano la mera apparenza e l'illogicità della motivazione in ordine alla "ritenuta sussistenza di prove certe della responsabilità del F.", la nullità della perquisizione eseguita in data 27 luglio 2000 sull'autovettura condotta dal F., l'inutilizzabilità del verbale di sequestro conseguitone e l'inutilizzabilità nei confronti del F. delle dichiarazioni rese nell'ambito di altro procedimento, in incidente probatorio, da L.D. e successivamente acquisite.

Sostengono i ricorrenti che l'affermazione di responsabilità dell'imputato sarebbe sorretta da argomentazioni generiche e difficilmente comprensibili.

I Giudici di appello avrebbero, in particolare, omesso di considerare:

- che appariva irragionevole la versione dei fatti indicata nei verbali di polizia e nelle dichiarazioni di S.;

quanto riferito dal F. in ordine alla bustina di cocaina rinvenuta all'interno della NISSAN Micra ed alla allocazione del denaro;

- la circostanza che la perquisizione del veicolo era stata effettuata senza che l'arrestato fosse stato avvisato del diritto di farsi assistere dal proprio difensore;

- l'assoluta singolarità della "mancata immediata accurata perquisizione" del veicolo;

- che dai tabulati telefonici prodotti dalla difesa risultava l'esistenza di contatti telefonici tra il F. e G. N., titolare della s.r.l. LUXOR, società all'acquisto delle cui quote di partecipazione era destinato il denaro trovato in suo possesso;

- che le dichiarazioni rese dal L. in incidente probatorio non avrebbero potuto essere utilizzate nei confronti di F. perchè il suo difensore non aveva partecipato all'assunzione;

- che L., nell'interrogatorio del 2 marzo 2001, aveva ammesso di non avere mai conosciuto il compratore e di avere "letto" in seguito il nome del F.;

- che era inconfutabilmente emersa la falsità degli atti di polizia giudiziaria in relazione all'orario di arresto (sul punto la Corte aveva omesso di precisare per quali ragioni l'inattendibilità dell'operato della polizia sarebbe stata "solo parziale");

che dalle dichiarazioni del CI. si desumeva la assoluta incertezza sull'identità "tra l'autovettura che la GOLF aveva seguito e la NISSAN MICRA condotta dal F.";

la versione di E.P., reputata, ingiustificatamente, incredibile;

che "singolari" erano state le modalità di svolgimento dell'interrogatorio cui S. era stato sottoposto il 3 agosto 2000 (perchè condotto dall'Ispettore CE. il quale, peraltro, risultava presente quale "assistente per la redazione del verbale") e del riconoscimento del F. da parte del medesimo S. avvenuto all'udienza dell'11 ottobre 2001. 3.2.2 Con il primo motivo del primo ricorso e con il secondo motivo del secondo ricorso i ricorrenti denunciano l'insussistenza degli elementi costitutivi del reato di detenzione e di acquisto di sostanze stupefacenti, osservando:

- che il possesso della somma di denaro non dimostrava l'intervenuto accordo, trattandosi, tra l'altro, di somma esigua rispetto al quantitativo di cocaina sequestrata;

- che la condotta di "acquisto" si perfeziona con la traditio dello stupefacente e con la corresponsione del prezzo;

che quand'anche tra i venditori ed il F. fosse stato effettivamente raggiunto l'accordo, esso avrebbe integrato, al più, il delitto tentato di "acquisto";

- che, inoltre, in caso di raggiunto accordo ma di mancanza della prova della consegna della droga, non si configura il delitto tentato di "cessione", ma il delitto consumato di "offerta in vendita";

- che, nella specie, trattandosi di "offerta in vendita", nessun reato era ipotizzabile a carico del F.;

- che, inoltre, nessuna delle condotte addebitate all'imputato poteva essere qualificata come "detenzione";

- che, invero, F. non aveva, al momento dell'arresto, la materiale disponibilità della cocaina;

- che l'asserita partecipazione all'ultimo trasporto della cocaina, che ne presupponeva la detenzione, era del tutto "immotivata", considerato, tra l'altro, che dagli atti doveva escludersi che il trasporto fosse finalizzato allo scambio;

- che, in ogni caso, l'asserita partecipazione del F. al trasporto era, per le sue stesse modalità, inidonea a "rafforzare la determinazione a delinquere dei correi".

Rilevano, poi, i ricorrenti che dette considerazioni erano state sviluppate nell'atto di appello, ma la Corte aveva omesso di prenderle in considerazione, tra l'altro rifacendosi ad una condotta di "commercio" mai contestata al F..

3.2.3 Con il secondo motivo del primo ricorso e con il terzo motivo del secondo ricorso, i ricorrenti lamentano l'eccessiva entità della pena comminata, l'erronea comparazione delle opposte circostanze e l'erronea applicazione della circostanza aggravante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 80, comma 2.

La pena era eccessiva rispetto al concreto dispiegarsi della condotta addebitata al F. ed al suo stato di incensuratezza.

Detti elementi avrebbero, comunque, dovuto quantomeno supportare un giudizio di prevalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche.

La circostanza aggravante, infine, non avrebbe dovuto essere contestata anche al F., avendo la Corte stessa affermato che la somma da lui posseduta gli avrebbe consentito di acquistare soltanto una parte dello stupefacente sequestrato.

3.2.4 Con il quarto motivo del secondo ricorso i ricorrenti deducono carenza di motivazione con riferimento all'eccepita erroneità della confisca del denaro sequestrato al F..

L'affermazione secondo cui l'imputato avrebbe utilizzato l'intera somma posseduta per pagare la partita di cocaina non era suffragata da elemento alcuno, dato che quantomeno una parte di essa, quella trovatagli indosso, avrebbe dovuto servire per il suo mantenimento, visto che si trovava in luogo diverso dalla sua abituale residenza.

Motivi della decisione

4. Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato E.P. va rigettato.

4.1 Il primo motivo è infondato perchè la dedotta nullità risulta sanata.

4.1.1 Il ricorrente afferma che l'avviso di conclusione delle indagini preliminari destinato ad un indagato straniero che non conosca la lingua italiana deve essere tradotto, a pena di nullità, nella lingua a lui nota.

La disposizione dedicata all'avviso anzidetto non contiene espresse indicazioni in proposito.

Per affrontare la questione è necessario, pertanto, rivolgere l'attenzione alle disposizioni di carattere generale dettate con riguardo alla traduzione degli atti processuali, segnatamente agli articoli 109 e 143 c.p.p..

La prima disposizione menzionata prevede, al comma 1, l'obbligo di utilizzare la lingua italiana negli atti del procedimento. La disciplina dell'articolo 109 c.p.p. va allora integrata attraverso quella dell'articolo 143 c.p.p., che, al comma 1, garantisce all'imputato "che non conosce la lingua italiana" l'assistenza gratuita di un interprete, "al fine di comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti a cui partecipa".

Da quest'ultima disposizione si evince, dunque, che il codice di rito non attribuisce rilevanza alla cittadinanza straniera dell'imputato, ma al fatto che egli non conosca la lingua italiana e che la norma riserva la garanzia soltanto a determinati atti e non al complesso dell'attività processuale e, soprattutto, della sua documentazione.

La prima precisazione sembrerebbe perfino ovvia, atteso che ben può il cittadino straniero conoscere la lingua italiana e, dunque, non necessitare di alcun interprete per partecipare consapevolmente al processo; in realtà, si tratta di una puntualizzazione assai importante, giacchè attraverso di essa la norma definisce l'esatto oggetto dell'accertamento rimesso al giudice ai fini della valutazione in merito alla necessità di nominare o meno un interprete all'imputato: e tale oggetto è per l'appunto costituito non dalla cittadinanza straniera dell'imputato - che dunque non innesca necessariamente una presunzione di ignoranza della lingua italiana - bensì, per l'appunto, dalla effettiva incapacità dello stesso di comprendere ed esprimersi nella nostra lingua (v. Cass. 6^,18 settembre 1997, Minoun, RV 208850).

Con riguardo al secondo profilo evidenziato dalla norma, sembrerebbe, ad una prima lettura, che la stessa effettivamente limiti l'ambito dell'assistenza dell'interprete agli "atti orali" che vedono la partecipazione dell'imputato, escludendo implicitamente un obbligo indiscriminato di tradurre quelli formati dal giudice o dal Pubblico Ministero e di cui sia comunque disposta al medesimo la comunicazione. Conclusioni queste che sembrano confermate dalla espressa previsione di obblighi di traduzione soltanto nell'articolo 109 c.p.p., comma 2, e nell'articolo 169 c.p.p., con riguardo al contenuto dell'invito spedito all'imputato straniero residente o dimorante all'estero (in realtà obblighi espressi di traduzione possono essere reperiti anche nella normativa internazionale, come ad esempio nel caso dell'articolo 12 dell'accordo integrativo della Convenzione Europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 20 aprile 1959, stipulato tra Italia e Svizzera il 10 settembre 1998, che nell'introdurre la possibilità di procedere alla notifica diretta a mezzo posta di atti di un procedimento penale a persone residenti nei territori dei due Stati, prevede un esplicito obbligo di allegare la traduzione dei medesimi). Il quadro normativo testè illustrato va, peraltro, riletto alla luce delle fondamentali considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale (v. Corte Cost. 19 gennaio 1993, n. 10).

Nell'occasione la Consulta ha respinto i dubbi di legittimità costituzionale sollevati con riguardo alle disposizioni disciplinanti il decreto di citazione a giudizio davanti al pretore ed il decreto di giudizio immediato davanti al tribunale, nella parte in cui non prevedono che tali atti debbano essere notificati all'imputato straniero alloglotta, tradotti nella lingua a lui nota, ma ha concluso nel senso che il diritto a farsi assistere gratuitamente da un interprete comporta che l'attività di assistenza svolta da quest'ultimo a favore dell'imputato ricomprenda, fra l'altro, la traduzione, in tutti i suoi elementi costitutivi - incluso l'avviso relativo alla facoltà di richiedere il giudizio abbreviato - del decreto di giudizio immediato e del decreto di citazione diretta a giudizio (l'omissione della traduzione determina - come si legge anche nella sentenza summenzionata - una nullità di ordine generale, a regime intermedio, concernente l'assistenza dell'imputato: cfr. altresì, tra le ultime, Cass. 4^, 5 maggio 2004, Obwo, RV 228930).

Il giudice delle leggi ha contestualmente affermato che l'articolo 143 c.p.p., comma 1, non può essere inteso come norma di stretta interpretazione, in grado di tollerare, come uniche eccezioni alla regola dell'utilizzo dell'interprete per gli atti orali, soltanto quelle espressamente previste dall'articolo 109 c.p.p., comma 2, e art. 169 c.p.p.. Al contrario, secondo i giudici costituzionali, tale norma assicura una garanzia essenziale al godimento dei diritti fondamentali di difesa e contiene dunque una clausola generale, di ampia applicazione, "destinata ad espandersi e a specificarsi" di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano, quali il tipo di atto cui l'imputato deve partecipare ovvero il genere di ausilio di cui lo stesso necessita. L'intervento della Consulta non sembra avere dissipato ogni possibile perplessità in ordine al tema della traduzione degli atti della sequenza procedimentale determinanti per garantire una effettiva partecipazione dell'imputato allo sviluppo della medesima; ed in proposito si sono registrate rilevanti oscillazioni e incertezze interpretative tanto nella giurisprudenza di merito, che in quella di legittimità (si registrano, anche nel recente passato, pronunzie che perseverano nel negare la configurabilità di un obbligo indiscriminato di traduzione degli atti scritti al di fuori delle ipotesi espressamente previste dal codice di rito: v. ad es. Cass. 2^, 10 agosto 2000, Lu Hai, RV 217915; esclude la sussistenza dell'obbligo di disporre la traduzione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, Cass. 2^, 8 ottobre 2003, Tegri, RV 227609).

Peraltro, volendo seguire il pensiero della Corte Costituzionale, la risposta al quesito prospettato non può che essere affermativa.

Non solo l'avviso di conclusione delle indagini preliminari contiene l'addebito, ma dischiude, altresì, importanti poteri partecipativi all'indagato che, come è noto, per ricordare solo alcune delle possibili opzioni, può chiedere di essere sottoposto ad interrogatorio da parte del Pubblico Ministero oppure chiedere al medesimo di svolgere attività di indagine nel suo interesse.

L'eventuale dubbio derivante dal carattere provvisorio della contestazione contenuta nell'avviso medesimo si dissolve a fronte dell'osservazione che l'atto è destinato ad informare l'indagato delle facoltà difensive riservategli dalla legge nella fase della chiusura delle indagini preliminari, il cui esercizio, per di più, è vincolato ad un termine perentorio.

Si connettono, in altre parole, all'avviso di conclusione quei poteri partecipativi la cui possibilità di esercizio assume un ruolo scriminante fra atti a traduzione necessaria ed atti residui.

Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno già avuto modo di affermare (cfr. Cass. S.U. 24 settembre 2003, Zalagaitis), l'articolo 143 c.p.p. va applicato in tutte le ipotesi in cui l'indagato, ove non potesse giovarsi dell'ausilio dell'interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del procedimento.

E' da ritenere, dunque, che l'avviso di conclusione delle indagini preliminari sia un atto che va tradotto nella lingua straniera propria dell'indagato, sempre che dagli atti risulti che questi non comprende la lingua italiana.

L'omessa traduzione determina la nullità (di ordine generale, ex articolo 178 c.p.p., lettera c), a regime intermedio) dell'avviso.

La nullità dell'avviso si riverbera inevitabilmente sulla richiesta di rinvio a giudizio.

L' articolo 416 c.p.p. prevede che la richiesta di rinvio a giudizio è nulla se non è preceduta dall'avviso; non può dubitarsi, peraltro, che all'omessa predisposizione dell'avviso - caso invero assai raro - debbano essere equiparate le ipotesi della sua nullità o della sua omessa o invalida notificazione.

Anche la nullità della richiesta di rinvio a giudizio non preceduta dall'avviso di conclusione delle indagini preliminari è nullità di ordine generale, ex articolo 178 c.p.p., lettera c), a regime intermedio, ex articolo 180 c.p.p. (v. ex plurimis Cass. 30 marzo 2004, Seminario Roncai, RV 228337; Cass. 21 gennaio 2004, p.m. in c. Frezza, RV 228320; Cass. 5 giugno 2003, Rabeschi).

4.1.2 La nullità è, peraltro, sanata, a norma dell'articolo 183 c.p.p., comma 1, lettera a), in caso di acquiescenza, espressa o tacita, prestata dall'imputato.

Ed è ciò che si è verificato nel caso in esame, avendo l'imputato presentato richiesta di giudizio abbreviato.

La richiesta di giudizio abbreviato costituisce - come è noto accettazione degli effetti dell'atto a contenuto probatorio inficiato da nullità a regime intermedio o relativa ed ha pertanto efficacia sanante (cfr. Cass. 8 gennaio 2002, Marchigiani; v. altresì Cass. 24 febbraio 1998, Greco, RV 210212).

Analoga soluzione va riservata agli atti a contenuto propulsivo viziati da nullità non assolute, che non riguardino l'imputazione.

Tale è appunto la richiesta di rinvio a giudizio che non sia stata preceduta dall'avviso di conclusione delle indagini preliminari, nonchè dall'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio ai sensi dell'articolo 375 c.p.p., comma 3, qualora la persona sottoposta alle indagini lo abbia richiesto entro il termine di cui al medesimo articolo 415 bis c.p.p., comma 3 (in senso analogo si è pronunciata Cass. 7 novembre 2001, Agosta, RV 220382, secondo cui non spiega alcuna conseguenza invalidante l'omissione dell'invito a presentarsi per rendere interrogatorio previsto dall'articolo 416 c.p.p., comma 1, nel testo novellato dalla L. 16 luglio 1997, n. 234, articolo 2, comma 2, e antecedente all'introduzione dell'articolo 415 bis c.p.p. ad opera della L. 16 dicembre 1999, n. 479, nel caso in cui l'imputato ha chiesto ed ottenuto di essere giudicato con rito abbreviato, poichè, con l'accettazione di un giudizio allo stato degli atti, egli non tende a impedire la devoluzione del processo al giudice del dibattimento, ma vuole solo difendersi dall'accusa davanti al giudice per l'udienza preliminare).

4.2 Il secondo motivo del ricorso presentato nell'interesse dell'imputato E.P. è inammissibile, ex articolo 591 c.p.p., comma 1, lettera c), perchè privo del requisito della specificità, consistendo nella generica esposizione della doglianza senza alcun contenuto di effettiva critica alla giustificazione della decisione impugnata, la quale ha peraltro ineccepibilmente desunto che, nell'ambito dell'operazione, E.P., una volta giunta la cocaina in ITALIA, aveva svolto, per conto dei complici colombiani, la delicata funzione di sovrintendere alla consegna della droga all'acquirente ed alla ricezione del corrispettivo.

4.3 Anche il terzo motivo del ricorso presentato nell'interesse dell'imputato E.P. è inammissibile.

Invero, in relazione alle doglianze riguardanti l'adeguatezza della pena ed il negativo apprezzamento di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, appare corretto e insindacabile in sede di legittimità il rilievo fattuale del giudice di merito in ordine ai connotati di allarmante gravita del fatto ed al ruolo ricoperto dall'imputato nell'esecuzione dell'operazione, che lo rendevano immeritevole di un più mite trattamento sanzionatorio.

Di talchè le generiche censure del ricorrente circa pretese carenze motivazionali della sentenza impugnata in ordine ai punti suindicati risultano manifestamente infondate.

5. Il ricorso presentato nell'interesse dell'imputato F. va rigettato.

5.1 Il primo motivo del ricorso (recto, primo motivo del primo ricorso e primo motivo del secondo ricorso) è inammissibile nella parte in cui il ricorrente, censurando le affermazioni della Corte distrettuale in ordine alla valenza probatoria delle dichiarazioni rese dagli operanti, segnatamente da CI. (sull'identità dei veicoli), da L., da S., da E.P. e dallo stesso F. (sulla cocaina e sull'allocazione del denaro) ed in ordine all'asserita falsità degli atti di polizia giudiziaria, pretende che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione degli elementi probatori posti a base del giudizio di responsabilità.

E' principio non controverso, per contro, che, nel momento del controllo della motivazione, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.

L' articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), non consente alla Corte di Cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali.

La motivazione della sentenza impugnata non è carente nè illogica nella parte in cui desume dagli atti la sussistenza di elementi idonei a confutare le asserzioni difensive del F. e a dimostrare che questi si era incontrato con S. e con E. P. per perfezionare le operazioni di consegna della cocaina importata.

L'operato dell'Ispettore CE., censurato nelle opportune sedi, non inficia l'attendibilità nè delle dichiarazioni rese da S., nè di quelle rese da L., la cui apparizione sulla scena del processo non poteva essere evitata (come CE. avrebbe voluto) dopo le dichiarazioni rese dal primo al Pubblico Ministero.

Proprio le dichiarazioni di S., ampiamente riscontrate nel prosieguo delle indagini, hanno in sostanza consentito di portare alla luce l'anomalo operato dell'Ispettore CE. e di ricostruire quanto accaduto il 26 e il 27 luglio.

5.2 Il primo motivo è inammissibile anche nella parte in cui si deduce l'inutilizzabilita delle dichiarazioni rese da L. in incidente probatorio perchè non risulta che la doglianza sia stata prospettata al giudice dell'appello.

In ogni caso, il motivo è infondato.

Trattasi, invero, di inutilizzabilita relativa, stabilita dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale.

Va in proposito rammentato l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 21 giugno 2000, Tammaro), ricapitolandone le affermazioni essenziali.

Nel giudizio abbreviato va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell'inutilizzabilità ed. "patologica" inerente, cioè, agli atti probatori assunti contra legem, la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento.

Nel descritto fenomeno rientrano tanto le prove oggettivamente vietate quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione - o con modalità lesive - dei diritti fondamentali della personatutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall'esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale (v., ad esempio, Cass. S.U. 13 luglio 1998, Gallieri e Cass. S.U. 23 febbraio 2000, D'Amuri, in tema di tabulati telefonici; Cass. S.U. 25 marzo 1998, D'Abramo e Cass. S.U. 25 marzo 1998, Savino, sulle modalità di documentazione dell'interrogatorio di persona in stato di detenzione;

Cass. S.U. 20 novembre 1996, Glicora e Cass. S.U. 27 marzo 1996, Monteleone, sulle conseguenze della mancata allegazione al giudice per le indagini preliminari o al tribunale della libertà dei decreti autorizzativi di intercettazioni telefoniche, ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza).

In questi casi la disciplina normativa costruisce il divieto di utilizzazione della prova in termini di operatività assoluta.

L'inosservanza del divieto non è, dunque, sanabile in virtù della mera richiesta dell'imputato di accesso al rito alternativo ed è rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento a norma dell'articolo 191 c.p.p.; costituisce, inoltre, come error in procedendo, motivo autonomo e autosufficiente di censura della decisione mediante il ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), proponibile anche in via immediata ex articolo 569 c.p.p., comma 3; può, infine, essere rilevata dal giudice di legittimità oltre il devolutum a norma dell'articolo 609 c.p.p., comma 2, e nel giudizio di rinvio dopo annullamento ex articolo 627 c.p.p., comma 4, a differenza della nullità, anche assoluta, e dell'inammissibilità, beninteso salvo che sul punto non si sia formato il giudicato parziale secondo il disposto dell'articolo 624 c.p.p., comma 1.

Nel giudizio abbreviato non rileva, invece, l'inutilizzabilità ed. fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l'articolo 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all'articolo 514 c.p.p.. In tal caso il vizio-sanzione dell'atto probatorio è neutralizzato dalla scelta di tipo abdicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti d'indagine compiuti senza le forme del contraddittorio dibattimentale, così paralizzando l'operatività dell'ordinario regime d'impermeabilità della fase dibattimentale agli elementi di prova raccolti nella fase procedimentale delle indagini preliminari (v. da ultimo Cass. 16 gennaio 2004, Casassa, RV 228568).

Nel giudizio abbreviato non rilevano, infine, le ipotesi di inutilizzabilità "relativa", stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, quali, ad esempio, quelle previste dall'articolo 350 c.p.p., comma 7, per le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dall'indagato e dall'articolo 360 c.p.p., comma 5, per l'accertamento tecnico non ripetibile eseguito dal Pubblico Ministero in difetto delle condizioni indicate (cfr. ex plurimis Cass. 13 ottobre 2004, lorio, RV 230754).

Ipotesi di inutilizzabilità "relativa" è anche quella prospettata in ricorso, contemplata dall'articolo 403 c.p.p., comma 1.

Detta disposizione prevede, invero, che le prove assunte con l'incidente probatorio non siano utilizzabili "nel dibattimento" nei confronti degli imputati i cui difensori non hanno partecipato alla loro assunzione. Le prove anzidette sono, dunque, sempre e comunque utilizzabili ai fini dei provvedimenti da adottare nel corso delle indagini preliminari, dell'udienza preliminare e del giudizio abbreviato (cfr. Cass. 5^, 27 gennaio 1993, Pubblico Ministero e Prost, RV 194346).

Va aggiunto, per completezza, che, nel caso in esame, non trova applicazione neppure la disposizione del comma I-bis dell'articolo 403 c.p.p., atteso che già in epoca anteriore all'incidente probatorio F. risultava raggiunto da indizi di colpevolezza (che avevano condotto al suo arresto in flagranza ed alla applicazione della custodia cautelare in carcere).

5.3 Il primo motivo è inammissibile anche nella parte in cui si denuncia l'inutilizzabilità del sequestro perchè non risulta che la doglianza sia stata prospettata al giudice dell'appello.

In ogni caso, anche questo motivo è infondato.

La perquisizione, quand'anche fosse stata eseguita illegittimamente, si è conclusa - come si è detto - con il rinvenimento ed il sequestro della cocaina, del denaro e di altre cose pertinenti al reato, sicchè ricorrevano le condizioni per l'applicazione dell'articolo 253 c.p.p., comma 1.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare (v. Cass. S.U. 27 marzo 1996, Sala), allorquando la ricerca, comunque effettuata, si sia conclusa con il ritrovamento ed il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, l'ordinamento processuale considera del tutto irrilevante il modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa specifica ipotesi, e ancorchè nel contesto di una situazione non legittimamente creata, il sequestro rappresenta un atto dovuto, la cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilità penali, quali che siano state, in concreto, le modalità propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo della ricerca compiuta.

Ricorrendo le condizioni previste dall'articolo 253 c.p.p., comma 1, gli aspetti strumentali della ricerca, pur rimanendo partecipi del procedimento acquisitivo della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un obbligo giuridico che trova la sua fonte di legittimazione nello stesso ordinamento processuale ed ha una sua razionale ed appagante giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia giudiziaria non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente legati al suo status, qualunque sia la situazione - legittima o no - in cui egli si trovi ad operare.

Se si accettasse la conclusione opposta, sollecitata dal ricorrente, si perverrebbe all'assurdo di consentire al giudice la confisca del corpo del reato e, nel contempo, di non tenerne conto ai fini della decisione.

5.4 Il secondo motivo (recte, primo motivo del primo ricorso e secondo motivo del secondo ricorso) è infondato.

Si è accertato, invero, che il F. aveva, comunque, avuto un ruolo partecipativo nel trasporto della cocaina, che ne presupponeva la detenzione, condotta di natura permanente, che perdura, in caso di sequestro della sostanza stupefacente, fino al compimento di esso (cfr. Cass. 6^, 27 febbraio 1995, Malserviti, RV 101191).

Va, comunque, osservato che appare del tutto ragionevole la ricostruzione dei fatti quale emerge dalle sentenze di merito.

La circostanza che il F. si fosse recato a PARMA, per incontrarsi con i colombiani, portando con sè l'ingente somma di denaro di cui si è detto, e le vicende relative al trasporto dello stupefacente che hanno poi condotto al suo arresto depongono per uno scenario che lo vede come acquirente, o comunque come emissario dell'acquirente, della cocaina, sulla base di un accordo già conclusosi in precedenza e destinato, pertanto, alla sola materiale attuazione.

Giova, in proposito, rammentare che, secondo il dominante orientamento della giurisprudenza di questa Corte (soltanto episodiche sono le manifestazioni di dissenso), per ritenere integrata la condotta di acquisto, è necessaria e sufficiente la formazione del consenso sulla qualità e quantità della sostanza e sul prezzo (v. Cass. 4^, 20 dicembre 1995, Velia, RV 204054); in altre parole, il reato si consuma senza che occorra la consegna materiale (oppure la ricezione) della droga o il pagamento del corrispettivo (cfr. ex plurimis Cass. 6^, 5 agosto 2003, Visciglia, RV 226653).

D'altra parte, la condotta consistente nel "ricevere" la sostanza stupefacente ha una propria autonomia nella struttura casistica della disposizione incriminatrice.

La formulazione del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 73, comma 1, si caratterizza per l'ampiezza delle condotte sanzionate, che dimostrano come il legislatore abbia inteso creare un sistema idoneo ad evitare qualsiasi lacuna, in modo da prevedere la punibilità di ogni comportamento che in qualche modo possa ricollegarsi al traffico di stupefacenti.

Per perseguire detto intento il legislatore ha ritenuto di dover precisare che la ricezione è penalmente rilevante "a qualsiasi titolo" essa avvenga, locuzione quest'ultima che testimonia della consapevolezza che la consegna, e di riflesso la ricezione, può anche rappresentare l'atto di esecuzione materiale di un già raggiunto accordo tra la parte venditrice e quella acquirente, evidentemente interessata ad acquisire il possesso di ciò che ha acquistato.

E' probabilmente fuori luogo evocare, a conferma di dette affermazioni, la regola consensualistica che governa il trasferimento della proprietà su cose determinate, non fosse altro perchè essa presuppone la validità del contratto.

E' sufficiente, peraltro, constatare, come già sopra si è detto, che, con la disposizione in esame, il legislatore ha inteso perseguire qualsiasi attività illecita avente ad oggetto sostanze stupefacenti. Questo spiega perchè nella disposizione in esame, concepita e strutturata come norma a più fattispecie (cd. legge mista alternativa), convivono condotte quali l'offerta, la messa in vendita, la vendita, la cessione, la ricezione, il commercio, l'acquisto e, da ultimo, la detenzione che possono in concreto essere realizzate nell'ambito di un'unica operazione illecita, naturalmente generatrice di un unico reato.

Se è vero - come osservato dal ricorrente - che l'offerta in vendita non implica di per sè responsabilità alcuna della persona a cui la medesima sia rivolta, è altrettanto indiscutibile che se quest'ultima, oltre a manifestare il proprio interesse all'offerta, la accetta, innescando inevitabilmente una consecutio di ulteriori attività illecite che rimettono in movimento il circuito criminale, realizza un comportamento penalmente rilevante ai fini della disposizione incriminatrice in esame. Se così non fosse, dovrebbe ipotizzarsi che il legislatore abbia clamorosamente fallito l'obiettivo di non incorrere in lacune nella repressione del fenomeno.

Non può, pertanto, condividersi l'opinione secondo cui la condotta di acquisto si realizzerebbe esclusivamente con la traditio dello stupefacente.

Si svuoterebbe, altrimenti, di significato la condotta di ricezione "a qualsiasi titolo", che pur la norma prevede e, soprattutto, si aprirebbe un'ingiustificata voragine nella rete repressiva che il legislatore ha voluto a maglie strettissime.

Ma questo vuoto - come sopra si diceva - in realtà non esiste, se i concetti di vendita e di acquisto sono rettamente intesi, avuto riguardo all'esigenza di dare protezione "da ogni lato" ai beni giuridici che si intendono tutelare, e se non si perde di vista, altresì, che il legislatore, in questa prospettiva di totale copertura, ha incriminato anche il "commercio" di sostanze stupefacenti, dando l'idea di volere in ogni caso perseguire chi si dedichi professionalmente ad attività destinate allo scambio di sostanze stupefacenti.

5.5 Inammissibile perchè manifestamente infondato è il terzo motivo (secondo motivo del primo ricorso e terzo motivo del secondo ricorso).

La circostanza aggravante di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, articolo 80, comma 2, - sostiene il ricorrente - non avrebbe dovuto essere contestata anche al F., avendo la Corte stessa affermato che la somma da lui posseduta gli avrebbe consentito di acquistare soltanto una parte dello stupefacente sequestrato.

L'affermazione non può essere condivisa, dovendo, in ogni caso, ritenersi che il concorso nel trasporto e nella correlata detenzione, di cui si è detto al punto precedente, non possa che avere ad oggetto l'intera partita di cocaina, caratterizzata da un quantitativo considerato ingente.

Sostiene, inoltre, il ricorrente che la pena sarebbe eccessiva se rapportata al concreto dispiegarsi della condotta addebitata al F. ed al suo stato di incensuratezza; detti elementi avrebbero, comunque, dovuto quantomeno supportare un giudizio di prevalenza delle riconosciute circostanze attenuanti generiche.

Anche sotto tale profilo il ricorso è inammissibile.

In relazione all'adeguatezza della pena ed al negativo apprezzamento di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, appare, invero, assolutamente corretto e insindacabile in sede di legittimità il rilievo del giudice di merito in ordine ai connotati di allarmante gravita del fatto che rendevano l'imputato immeritevole di un più mite trattamento sanzionatorio.

5.6 Anche l'ultimo motivo del ricorso (quarto motivo del secondo ricorso) è infondato.

Sulla base di quanto si è detto finora, deve, infatti, ritenersi che il denaro sequestrato rappresentasse il provento della vendita.

6. Si impone, in conclusione, il rigetto dei ricorsi.

Al rigetto consegue la condanna al pagamento in solido delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali.

 

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2005.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2006.