Una penalità sostenibile

 

Per una penalità sostenibile

di Massimo Pavarini

 

Dignitas, novembre 2003

 

Premessa: verso l’attuarialismo penale

 

Con la fine della modernità, il sistema delle pene tende ad assumere come finalità prevalente il controllo e la neutralizzazione dei gruppi sociali individuati come altamente pericolosi. A questa esigenza incapacitativa risponde una penologia tecnocratica attuariale, basata su una logica probabilistica e statistica, non dissimile da quella delle tecniche assicurative. Tale visione amministrativa della pena segna l’abbandono del mito della prevenzione speciale nelle politiche di controllo sociale, per affermare una strategia di incapacitazione selettiva di massa il cui fine non è punire gli individui, ma razionalizzare la gestione di gruppi sociali ad alto rischio criminale. 

Il reclutamento della popolazione carceraria si realizza individuando classi di soggetti che costituiscono un pericolo per l’ordine sociale: il presupposto reale dell’azione disciplinare non è la valutazione del profilo individuale dei singoli soggetti, ma l’appartenenza stessa alla under dog class, come cinicamente si esprime la letteratura di destra statunitense. Non c’è più spazio, quindi, per la dimensione carceraria correzionalistica, con i tradizionali corollari della retorica trattamentale, rieducativa, riabilitativa, risocializzante: il carcere attuariale è un congegno di contenimento preventivo e di incapacitazione selettiva delle classi pericolose, in una logica militare che in ogni prigioniero in più calcola un nemico in meno da cui guardarsi. Il governo materiale della pena non realizza scopi di deterrenza ne impedisce che l’universo della marginalità continui a recidivare: la pena, in chiave attuariale, si riduce a misura di controllo sociale di polizia, finalizzata alla gestione del rischio criminale a livello di intere

popolazioni sulla base di una penalità svuotata di ogni funzione "utile" per puntare alla eliminazione di categorie di soggetti dal contesto sociale.

Queste ricette incapacitative sono frutto dell’affermazione nella maggior parte dei paesi occidentali di politiche di "legge e ordine" e "zero tolerance" che alla richiesta dal basso di maggiore sicurezza e pene più dure, rispondono con la miope offerta di crescente penalità senza con ciò produrre più sicurezza dalla criminalità. È la pericolosa deriva cui sono esposte in particolare le democrazie d’opinione, che mancando dell’intermediazione delle agenzie classiche delle democrazie rappresentative, non riescono ad elaborare un razionale ed efficace sistema penale.

È ben difficile, con simile deficit, fronteggiare la diffusione del rischio criminale che ormai espone reiteratamente la maggior parte dei cittadini all’esperienza vittimologica. Le nostre società tendono a configurarsi sempre più come high crime societies: gli attentati alla proprietà, in particolare, che in passato riguardavano prevalentemente la upper class. investono ora la maggioranza dei consociati. Ne deriva una fortissima spinta alla costruzione della penalità dal basso, su modelli arcaici, con il rischio che essa sfugga progressivamente ad ogni criterio razionale e finalismo utilitarista, per celebrarsi unicamente in una dimensione espressiva e smodata: a fronte di un eccesso di criminalità, un eccesso di penalità I, fino alla pena di morte o a pene detentive draconiane in carceri sempre più dure, con aspetti di irriducibile crudeltà ed elevata nocività sociale.

Non ci si può nascondere che si tratta di una tendenza assai pervasiva e difficilmente contrastabile; certo la storia dell’umanizzazione delle pene è stata sempre agita da minoranze elitarie che con "astuzia giacobina" sono riuscite a far passare idee decisamente poco condivise nella coscienza collettiva, con effetti di contenimento della penalità. di economia parsimoniosa della sofferenza, di freno allo "splendore dei supplizi". Si deve però rilevare che nelle democrazie d’opinione il ruolo di queste minoranze tende a una minore incisività. nella post modernità le idee illuminate e progressive della pena non sembrano avere un corso più frequentato di quanto non accadesse al tempo di Beccaria.

 

L’Italia a confronto

 

Ad un’analisi che ne focalizzi le forme di penalità in the facts, cioè di penalità materiale come effettivamente irrogata e non come formalizzata nei codici. in the books, il sistema delle pene in Italia evidenzia alcuni caratteri comuni alla maggior parte dei paesi occidentali, intrecciati ad altri di più o meno marcata specificità ed originalità. 

Come quasi tutti i paesi occidentali, l’Italia conosce una crescita statisticamente molto significativa della popolazione carcerizzata o penalizzata attraverso le misure alternative alla pena privativa della libertà. Questi rapidi aumenti dei tassi di carcerizzazione che investono il mondo occidentale - è bene ribadirlo - non sono in ragione dell’andamento della criminalità, ne del quadro normativo di riferimento, ma sembrano invece rispondere al modo in cui si costruisce socialmente la domanda di penalità. 

Altro elemento di affinità dell’Italia con il resto dell’Occidente è la tendenza ad una maggiore lunghezza delle pene detentive. le pene medio-brevi (nel nostro attuale contesto quelle inferiori a due anni) vengono prevalentemente sospese condizionalmente o scontate attraverso misure alternative direttamente dallo stato di libertà. In tutto il mondo occidentale il tasso dei detenuti che scontano pene brevi si è progressivamente e significativamente ridotto, anche se in alcuni paesi se ne ipotizza la ripresa (shock system) in considerazione del basso costo esecutivo e dell’alta deterrenza: si pensi ai boot camps, i campi di addestramento militari, negli Stati Uniti, cui sottoporre i minori per periodi di alcune decine di giorni. Un altro dato significativo della penalità occidentale, pienamente condiviso dall’Italia, è la forte differenziazione sanzionatoria. 

Ad essere massicciamente coinvolta nel nostro sistema penale è la popolazione marginale alimentata dai processi di immigrazione, che incide per più del 30% sul totale della popolazione detenuta, e la marginalità giovanile che attraversa, a vari livelli di compromissione, il territorio della droga, e rappresenta un altro 30% della popolazione penalizzata. La maggioranza dei cancerizzati è composta quindi da tossicodipendenti e da giovani immigrati, prevalentemente coinvolti in economie e mercati illegali, autori di delitti predatori e di criminalità opportunistica. 

Alla crisi del paradigma special-preventivo e della cultura inclusiva del welfare, si accompagnano risposte di neutralizzazione e incapacitazione selettiva che ridisegnano il sistema carcerario occidentale accentuandone i tratti etnici e razziali da un lato e di sofferenza psicofisica dall’altro. Il carcere tende a configurarsi sempre più come "campo di concentramento" e "lazzaretto": un mero spazio custodiale estraneo all’ideologia trattamentale e al modello correzionalista, in cui vengono neutralizzati gli scarti sociali che non si riesce a disciplinare in altro modo o che sarebbe troppo costoso controllare attraverso serie politiche preventive. 

In questo quadro complessivo, in parte condiviso con gli altri paesi occidentali, l’Italia presenta alcune peculiarità. La prima è la sfasatura di circa un decennio dell’emergenza del tema della sicurezza e della relativa domanda sociale di penalità: fino ai primi anni ‘90 del secolo passato, l’Italia si è caratterizzata per una penalità relativamente mite, collocandosi fra i paesi europei con i minori tassi di carcerizzazione e repressione penale. Nell’arco però di un decennio il nostro paese ha conosciuto, unitamente all’Olanda (con cui condivideva il primato dei più bassi tassi di carcerizzazione in Europa), un recupero rapidissimo, superando la media europea di 93 detenuti su 100.000 abitanti.

Con più di 100 detenuti per 100.000 abitanti - valore superiore a quelli di Francia e Germania - l’Italia si avvicina ai paesi a più elevato indice di repressione penale che oggi sono, accanto all’Inghilterra che ha sempre avuto questa vocazione repressiva, il Portogallo e la Spagna, cioè altri due paesi mediterranei, che ci superano soltanto di alcune unità 4. Sono dinamiche da non perdere di vista perché in futuro sarà crescente l’esigenza di governo della penalità entro limiti di compatibilità non solo nazionali, ma dettati da standard europei. 

Un altro elemento di differenziazione dell’Italia è la ineffettività di tanta parte delle sanzioni irrogate: ampie sfere di penalità giudizialmente comminate, di fatto non trovano esecuzione o una esecuzione del tutto fittizia. Innanzitutto le sanzioni pecuniarie, quasi mai adempiute e quindi in buona misura puramente virtuali. Lo stesso può dirsi per le pene accessorie, soprattutto quelle di natura interdittiva che quasi sempre si esauriscono nell’essere previste nella sentenza di condanna, ma di fatto raramente eseguite. A differenza di quanto si riscontra in altri paesi, la sospensione condizionale della pena, che copre la fascia della penalità bassa, si traduce, in Italia, in una assoluta assenza di penalità, essendo tale modalità sospensiva priva di contenuto disciplinare e di effettivo controllo.

Di fatto la risposta del nostro sistema sanzionatorio alla domanda di penalità e di maggior produttività ed efficienza repressiva soprattutto contro la criminalità predatoria e opportunistica, si esaurisce nella pena privativa della libertà per un quantum di tempo. Per tutta l’area della marginalità popolata da minoranze razziali, sociali, economiche - la under dog class - non ci sono realistiche prospettive di accesso alle forme più soft di penalità che vengono delineandosi in termini mediatori, compensatori, risarcitori. Soggetti del tutto privi di risorse economiche, culturali e di stili di vita, ben difficilmente possono praticare questi spazi di giustizia di prossimità che sembrano invece maggiormente attagliarsi ai conflitti fra appartenenti ai ceti sociali integrati, adeguatamente dotati di capitale sociale e di reti significative. La detenzione di fine settimana, ad esempio, è immaginata sotto il profilo di un condannato che lavora stabilmente 5 giorni la settimana: ma l’immigrato clandestino e senza fissa dimora, il tossicodipendente abbandonato dalla rete assistenziale, quando mai potrà accedere a una pena così articolata?

 

Cosa ci insegna la storia della penalità  moderna

 

Non c’è alternativa, allora, alla carcerizzazione come misura di incapacitazione selettiva cui sottoporre le classi a rischio criminale? Senza addentrarsi nel terreno storiografico, solo alcune rapide annotazioni per rendere comprensibile la risposta che qui intendo argomentare. 

Tra la disciplina di fabbrica e quella penitenziaria esiste un rapporto che è costitutivo dello stesso sistema capitalistico di produzione: il carcere, che come particolare modalità del castigare si afferma tra ‘700 e ‘800 fino a diventare la pena dominante nella modernità, è finalizzato al disciplina mento delle classes dangeroux da piegare alle nuove regole del lavoro e al modello sociale che le sottende. Il legame tra lavoro e pena contrassegna la struttura stessa da cui il carcere deriva, cioè la casa di lavoro, l’istituzione elisabettiana che rinnovò l’atteggiamento nei confronti delle classi pericolose, cioè quelle escluse dalla proprietà e non ancora formate, in quanto classe operaia, alla razionalità della fabbrica. In questo modello la selezione dei soggetti pericolosi si realizza in base all’idoneità a piegarsi alla disciplina del lavoro: i giovani abili, forti, se non lavorano vengono criminalizzati e internati nelle case di lavoro affinché apprendano simbolicamente e materialmente la disciplina di fabbrica. Il carcere nasce quindi all’interno del progetto egemonico del capitale, come veicolo pedagogico della disciplina della fabbrica, anche se il carcere come tale non fu mai fabbrica: in esso l’oggetto della produzione non erano le "cose" ma l’uomo, in un quadro di egemonia culturale e materiale che assegna al lavoro il ruolo di modello archetipo di integrazione sociale. 

Questo modello avrà anche una versione operaia; l’etica e la disciplina proletaria delineano una dimensione di identità e appartenenza culturale al di fuori della quale per i ceti esclusi dalla proprietà non c’è che il destino della jacquerie e della canaglia: l’esperienza (ri)educativa del carcere si dispiega nei percorsi di omologazione a queste virtù operaie attraverso la più rigorosa pedagogia del lavoro. 

Con lo sviluppo dello stato sociale maturo il governo della marginalità e delle situazioni di maggiore problematicità e pericolosità, punta fondamentalmente sul to care, sul farsi carico dei processi di sostegno ed integrazione dei soggetti devianti il cui impatto con il sistema penale è fondamentalmente attribuito ad un deficit di capitale sociale di cui viene quindi promosso il recupero attraverso reti di servizi e opportunità. 

La partita decisiva si gioca sulle reti territoriali, sul sociale, sulla community, in grado di controllare e disciplinare i soggetti deboli in una prospettiva decarcerizzante ed inclusiva, tranne i casi di assoluta refrattarietà per i quali appare ancora necessaria la più dura ma residuale disciplina del carcere come estrema ratio. 

La bella illusione era che nel welfare state il tema del carcere sarebbe stato in realtà quello della sua estinzione; che i problemi della penalità si sarebbero risolti trattando i devianti fuori dal carcere, con misure alternative peraltro assai meno costose della galera. Già in questa prospettiva il lavoro si configura più che come modello ideologico e pedagogico, come una modalità per produrre una merce di scambio penitenziario, una sorta di indice di buona volontà, di autodisciplinamento, sulla cui base procedere a una valutazione prognostica di scarsa pericolosità e scommettere su una persona per avviarla alle misure alternative. 

Oggi si deve però prendere atto dell’esaurimento della fase che poteva consegnare al sociale questo ruolo di alternatività al carcere, in un quadro progettuale finalizzato a politiche di inclusione e integrazione: è innanzitutto il suo retroterra politico ed economico a venir meno, dal modello fordista alla piena occupazione, allo stato sociale, al ruolo del pubblico. La crisi del welfare e il dispiegarsi in tutta la loro complessità dei processi neoliberisti e globalizzanti, avviano dinamiche tendenti ad una sorta di prison-fare, di stato penale che in un certo senso subentra allo stato sociale. In tutto il mondo la post modernità produce forme e livelli di carcerizzazione che si pensava storicamente superati. la società post moderna subisce una sorta di fascinazione pre moderna, che sarebbe peraltro una sviante semplificazione identificare sempre con la cultura di destra. 

A lungo ci siamo cullati nella favola bella - lenitiva, forse, dei sensi di colpa collettivi - di una modernità che avrebbe superato la crudeltà dei supplizi e dei tormenti corporali riservati alle classi subalterne, per adottare un regime penale limitato alla sottrazione di tempo e libertà senza aggressione del corpo. Una visione decisamente romantica della pena come introspezione dell’anima: in oppugna bili documentazioni dimostrano però che la pena privativa della libertà che infliggiamo col carcere è in realtà una superstite pena corporale che genera una sofferenza non metafisica ma estremamente fisica; è deliberata ricerca di afflizione non solo dello spirito, ma del corpo, fino a ridurre le aspettative di vita dei soggetti carcerizzati.

La nostra civiltà del diritto, così pervasivamente attraversata da valori umanitari, convive di fatto con diffuse pratiche di penalità corporale, con realtà carcerarie che nelle loro ampie zone opache colpiscono diritti fondamentali, a cominciare da quello alla salute: per questi aspetti la post modernità è molto meno distante dal secolo di Beccaria di quanto non ami pensare.

 

Quanta pena vale il lavoro?

 

Nella attuale fase post moderna e post fordista, in cui sono massimizzati i processi di esclusione dei gruppi marginali, fino alle pratiche di carcerizzazione attuariali, diventa del tutto impraticabile ogni ipotesi di gestione del sistema penale che continui a guardare al lavoro quale modalità decisiva di pedagogia penitenziaria: strumento di rieducazione e risocializzazione con finalità evidentemente inclusive, il lavoro non è indifferentemente fruibile in contesti che di fronte a soggetti percepiti come pericolosi tendono all’anthropoemia (emein: vomitare), a una sorta di reazione anoressica incontenibilmente espulsiva. Nell’universo della penalità, sembra del tutto incongruo continuare ad appellarsi al lavoro se non nella sua più regressiva accezione di strumento disciplinare, di duro dispositivo di controllo e dominio di masse riottose. 

A me pare tuttavia che ci sia un terreno sul quale il tema del lavoro può essere riproposto fuori da modelli etici ed egemonici, senza indulgere a retoriche trattamentali e rieducative: quello delle pratiche restitutorie e risarcitorie. Alle nuove "classi pericolose" rappresentate da immigrati e da giovani metropolitani coinvolti nei circuiti delle "sostanze", oggi non si schiude alcuna prospettiva di inclusione e integrazione sociale; non sono soggetti che vogliamo rieducare e risocializzare ma estranei da espellere. Tutto il nostro arsenale sanzionatorio sugli immigrati, sotto una determinata soglia di illegalità, è costruito sull’espulsione: oltre questa soglia c’è la sofferenza della pena carceraria, anche se più che l’esigenza di farli soffrire è avvertibile quella di liberarsene al minor costo possibile per la collettività. Sono questi estranei a popolare oggi in numero crescente le nostre carceri, che vengono assumendo caratteri sempre più razziali e razzisti.

Di fronte ad una realtà in cui masse di individui rischiano di dissipare la vita in siffatte galere, ecco allora una provocatoria quanto razionale proposta: per tutta una serie di reati sotto una determinata soglia di pericolosità sociale, perché non pensare che il lavoro come prestazione assolutamente volontaria alla collettività, in una logica restitutoria, compensatoria, risarcitoria, possa essere congegnato come "merce di scambio" per abbreviare o sostituire la carcerazione? Ancorché brutale. è certo assai sensata la domanda se sia preferibile infliggere pene sterili quanto costose, o puntare a forme di risarcimento facendo pagare il debito della pena mediante lavoro socialmente utile, dal quale ci si può anche aspettare una forma di soddisfazione della comunità che, tra l’altro, attraverso simili pratiche risarcitorie sarebbe sgravata dagli altissimi costi delle soluzioni carcerarie.

Il lavoro di pubblica utilità potrebbe essere configurato in termini di misura alternativa da applicare, in fase esecutiva, ad un definitivo; oppure di pena sostitutiva irrogata dal giudice del fatto; o, ancora, come strumento di diversione processuale; ne è da escludere la possibilità di plausibili ibridazioni delle attuali forme di altematività. L’idea guida è che l’offerta di una prestazione lavorativa assolutamente volontaria (non si sta certo parlando di lavori forzati con la palla al piede), gratuita, con finalità socialmente apprezzabili, costituisca per agli autori di determinati reati una modalità restitutoria, materiale e simbolica, alternativa ad un sistema carcerario fallimentare sul piano del trattamento e della prevenzione, costoso, lesivo della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali.

Questa a me pare essere una concreta e sensata possibilità di decarcerizzazione, in particolare per quanti non sono in grado di negoziare alcunché sul piano dello scambio penitenziario e sono tagliati fuori dall’attuale sistema di misure alternative, accessibile, per motivi autoevidenti, solo a detenuti italiani.

 

Quasi una conclusione: elogio del meticciato

 

Si può però tentare di proiettare l’ipotesi del lavoro socialmente utile, in un diverso scenario nel quale riprendere il discorso sul senso e la funzione della pena. I processi di globalizzazione, con i loro inarrestabili flussi migratori, producono fecondi fenomeni di meticciato: per quanto si persegua con ottusa determinazione la logica dell’esclusione, non si può impedire quell’intreccio di

pelli, lingue, culture, che danno corpo ad una società dai tratti sempre più riccamente e profondamente meticci.

Più rapidamente di quanto spesso non si colga, vengono dispiegandosi nuove società meticce la cui stabilizzazione e radicamento non sono immaginabili senza l’egemonia culturale di valori che ne siano il necessario collante, senza regole del gioco con cui i nuovi cittadini dovranno necessariamente intrecciare la trama di inedite forme di relazione e regolazione sociale che occorre apprendere ed assimilare.

Anche le modalità della punizione dovranno allora in qualche modo orientarsi - come già nell’epoca d’oro dello stato sociale di diritto - verso rinnovate pratiche pedagogiche finalizzate alla formazione dei nuovi cittadini. Per quanto il momento attuale non sia attraversato dall’utopia e dalla forza di una società inclusiva, orientata verso forme sempre più mature di meticciato, non è detto che l’atteggiamento anoressico (vomitare fuori gli intrusi) sia vincente rispetto all’atteggiamento bulimico (assorbirli): fra i due modelli la partita storica non è certo chiusa, anche se oggi nel mondo le patologie anoressiche sono più diffuse rispetto alle bulimiche.

Se ci poniamo nella difficile ma non gratuita prospettiva del recupero di dinamiche sociali inclusive ed integrative, capaci di assecondare la complessità delle nuove realtà globalizzate, allora può forse riprendere corso la prospettiva del lavoro come pratica pedagogica di disciplinamento alle nuove regole delle società meticce. In un contesto sociale riorientato su valori di inclusione ed integrazione, anche il lavoro può tornare ad avere un ruolo positivo nel complesso articolarsi di pratiche penali non riducibili al mero contenimento.

Come sempre nella storia della penologia, approcci così ispirati continuano in buona misura ad inscriversi nelle vicende di minoranze ancora capaci di indignazione morale contro un sistema penale insopportabile nella sua sterile, velleitaria, demagogica smodatezza. Se si dovesse esaurire questa tensione, non resterebbe che una criminologia ridotta a marginale capitolo di una public policy, unicamente intenta a ottimizzare l’operatività dei sistemi che consentano di gestire la criminalità: come efficacemente osservato da Malcom Feeley e Jonathan Simon, "le stesse tecniche che vengono utilizzate per la circolazione e distribuzione dei bagagli negli aeroporti o del rancio in una caserma, possono essere utilizzate per migliorare l’efficienza del sistema penale".

Una prospettiva tecnocratica di penologia amministrativa che non ci impedisce comunque di continuare a pensare e a lavorare per un diverso governo della penalità, socialmente e civilmente sostenibile nella irrinunciabile centralità della razionale scommessa sull’uomo.

 

 

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