La grazia: riflessioni giuridiche

 

La grazia: riflessioni giuridiche, articolo di Lucio Militerni

 

Il Denaro, 28 settembre 2005

 

Il potere di grazia trova la propria fonte primaria nell’articolo 87 della Costituzione, il quale dispone che il "il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale (…) Può concedere grazie e commutare le pene", conferisce a detto soggetto il potere di emanare un provvedimento di clemenza nei confronti del condannato, condonando, in tutto o in parte, gli effetti penali di una sentenza definitiva di condanna.

La grazia è quindi un provvedimento di carattere particolare in quanto è esclusivamente individuale e, come tale va a beneficio di una persona determinata. La disciplina è dettata, in maniera davvero scarna, dall’art. 174 del Codice Penale, che si limita a descrivere gli effetti pratici del provvedimento - disponendo che esso determina il condono o la trasformazione della pena principale, senza modificare le pene accessorie o gli altri effetti penali della condanna, salvo che il decreto disponga diversamente - e dall’art.681 del Codice di procedura Penale, che ne disciplina il procedimento, senza, tuttavia, alcuna pretesa di esaustività e inderogabilità, laddove lo stesso articolo dispone al comma quattro che la grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o di proposta.

Proprio la evidente lacuna legislativa è causa del vivace dibattito che, da sempre, ha caratterizzato il profilo della natura e della titolarità sostanziale di tale istituto. Agevolmente superata è la tesi della natura giurisdizionale di tale potere, legata alla reminiscenza storica di quando il ricorso al Sovrano poteva configurarsi come ultima istanza del procedimento giudiziario, laddove si consideri che la grazia, condonando, in tutto o in parte, la pena inflitta, lascia in vita la sentenza di condanna, la quale produce i suoi effetti sia con riferimento alle pene accessorie, salvo, come detto, che il decreto disponga diversamente (art. 174 cod. pen.), sia per quanto concerne le conseguenze penali secondarie.

Altrettanto criticabile appare la tesi della natura normativa o legislativa in senso materiale - fondata sulla constatazione che la "grazia" introdurrebbe una sorte di eccezione singolare o sospensione rispetto alle norme di legge relative all’esecuzione delle sentenze penali di condanna - in quanto l’ordinamento normativo non viene in alcun modo alterato dall’atto di grazia, che agisce, unicamente, sul profilo dell’esecuzione della pena, in maniera, per di più, individuale e concreta.

La dottrina, attualmente prevalente, concepisce la "grazia" come atto di governo o come atto politico, considerata l’assenza di limiti al suo esercizio; l’impossibilità per il legislatore ordinario di specificare e, quindi, limitare le ipotesi del suo impiego e di precisarne il contenuto; l’insindacabilità giurisdizionale. La concezione della "grazia" come atto politico o di governo trova ulteriore conferma nell’articolo unico del regio decreto 27 luglio 1934 n. 1332, che esenta il decreto di grazia dal visto e dalla registrazione della Corte dei Conti, sancendo per tale provvedimento un trattamento comune ad altri atti, certamente, appartenenti alla categoria degli atti politici o di governo. Un più intenso dibattito ha riguardato il problema della titolarità sostanziale dell’atto di "grazia" e i rapporti tra i poteri dello Stato - Presidente della Repubblica, certamente titolare sotto il profilo formale, e Ministro della Giustizia, cui spetta la fase istruttoria - che intervengono in tale istituto.

Agevolmente criticabile appare la teoria che vede il decreto di grazia come atto sostanzialmente ministeriale laddove si consideri che, in tal modo, più che al Ministro della Giustizia detto potere dovrebbe spettare al Presidente del Consiglio dei Ministri, capo del Governo, in aperta violazione del disposto costituzionale e della funzione di equità, caratteristica dell’istituto in esame. Priva di pregio, poi, è la concezione della grazia come atto a partecipazione eguale - fondata sull’affermazione che l’iniziativa nella sua concessione può partire sia dal Ministro sia dal Presidente della Repubblica - in quanto detta teoria sminuisce il problema della titolarità del potere, che - come emerge anche da fatti recenti - attiene alla fase decisionale del procedimento e non certo al profilo, certamente meno rilevante, dell’iniziativa.

Molto più convincente appare, invece, l’opinione secondo la quale la "grazia" sarebbe un atto sostanzialmente presidenziale; tesi coerente con le caratteristiche di tale potere, il quale richiede, per sua natura, l’intervento dello Stato nella sua unità.

Al riguardo decisiva appare una considerazione, dalla quale si dipanano le varie argomentazioni che verranno di seguito illustrate, che fa leva sulla funzione propria del provvedimento di concessione della grazia.

Come si è, infatti, più sopra ricordato, al di là della qualificazione giuridico-formale della grazia come atto politico, il provvedimento in esame è e resta, sotto il profilo sostanziale, un atto di clemenza, in un senso, se possibile, ancor più pregnante rispetto all’amnistia ed all’indulto. È un istituto di carattere eccezionale fondando la sua "ratio" su particolari vicende individuali di carattere straordinario; su esigenze umanitarie ed esistenziali dai risvolti anche sociali o più in generale, sulla necessità di ovviare - in nome del principio di equità - a situazioni per così dire di "stallo" giudiziario-esistenziale, laddove il prolungarsi della pena detentiva si appalesa in contrasto con la tutela dei fondamentali diritti umani. Orbene, è proprio la prevalenza delle ragioni umanitarie, non disgiunte da valutazioni socio-economiche, su quelle più tipicamente politiche nell’ambito della funzione clemenziale della grazia a determinare l’attribuzione del relativo potere decisionale in capo al Presidente della Repubblica, un organo necessariamente super partes, istituzionalmente depositario dei valori costituzionali e rappresentante dell’unità nazionale. Con ciò non si intende negare la rilevanza della partecipazione del Ministro della Giustizia nel complesso iter procedurale che caratterizza la concessione della grazia; occorre tuttavia chiarire che necessariamente tale contributo non può travalicare l’ambito della specifiche attribuzioni del potere ministeriale, concernente profili istruttori, valutativi ed esecutivi. In altre parole, compito del Ministro è verificare che sussistano le condizioni di fatto e di diritto per la concessione del provvedimento di clemenza, mentre la decisione ultima in ordine all’opportunità dell’atto non può che spettare al Presidente della Repubblica, nell’esercizio di una tipica funzione politica.

Ne deriva che, se certamente auspicabile sarebbe un pieno accordo tra i due soggetti coinvolti nella procedura volta all’adozione del decreto di grazia, in assenza di accordo, tenuto conto del ruolo eminentemente istruttorio del Ministro nel procedimento de quo, deve senza dubbio prevalere l’opinione di chi dalla Costituzione è stato concepito titolare di detto potere di giustizia sostanziale, cioè il Capo dello Stato.

D’altro canto una diversa interpretazione, tesa a riconoscere un più ampio potere decisionale in materia in capo al Ministro della Giustizia, determinerebbe senz’altro un "vulnus" all’indipendenza costituzionale garantita all’ordine giudiziario dagli articoli 101ss cost. poiché la "grazia" incide sull’efficacia di provvedimenti giurisdizionali. Al contrario il conferimento del relativo potere al Presidente della Repubblica acquista un particolare significato ove si consideri il comma 10 dell’articolo 87 Cost., in virtù del quale il Capo dello Stato è Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.

Ulteriore conferma delle argomentazioni sopra riportate emerge, in maniera incontrovertibile, da un rapporto sistematico con gli istituti dell’amnistia e dell’indulto.

Occorre, infatti, considerare che nel testo originario della Costituzione - prima, cioè, della modifica dell’art.79 operata con legge costituzionale 6 marzo 1992 n. 1 - anche l’amnistia e l’indulto erano concessi con decreto del Presidente della Repubblica " su leggi di delegazione delle Camere".

Tale diversa disciplina dimostra chiaramente che, pur affidando tutti i provvedimenti di clemenza alla firma del Capo dello Stato, il Costituente aveva inteso distinguere nettamente le ipotesi dell’amnistia e dell’indulto da quelle della grazia, in quanto le prime non potevano essere disposte senza un preventivo intervento politico del Parlamento, il quale era, invece, precluso nell’istituto della grazia.

Né varrebbe obiettare, onde riconoscere in capo al Ministro della Giustizia poteri di natura sostanziale in ordine alla concessione della grazia, che, ai sensi dell’articolo 89 della Costituzione, "nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità".

Infatti, per quanto concerne il profilo dell’asserita necessità della proposta ministeriale, è sufficiente rilevare che la migliore dottrina ha oramai da tempo osservato che l’espressione "ministri proponenti" è frutto di una svista del Costituente e, certamente, più corretta è la locuzione "ministri competenti".

Non è un caso, infatti, che la Corte costituzionale, con ordinanza 12 novembre 1987 n. 388, parafrasando il dettato dell’articolo 89 della Costituzione in relazione al provvedimento di grazia ha fatto riferimento al "ministro competente" anziché al "ministro proponente". Del resto, come sopra evidenziato, è del tutto pacifico in dottrina che l’iniziativa ai fini della concessione del provvedimento di grazia ben può partire dal Capo dello Stato, senza che sia indispensabile una formale proposta ministeriale.

Per quanto concerne il profilo della necessità che anche il decreto di grazia sia controfirmato dal Ministro, la dottrina è unanime nel riconoscere che la controfirma ministeriale assume un significato radicalmente diverso a seconda del tipo di atto presidenziale cui viene apposta.

 

 

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