Della sicurezza

 

Della sicurezza

di Alessandro Margara (Presidente della Fondazione Michelucci)

 

Dignitas, giugno 2003

 

Questo termine - sicurezza- è diventato molto popolare da qualche anno. Si è anche parlato di un diritto alla sicurezza, sul quale si è rincorsa la propaganda, anche di forze politiche contrapposte, con risultati discutibili. Fra questi: sono largamente aumentati i detenuti, mentre il numero dei reati confermava la tendenza alla diminuzione, in corso da anni. Il paese - guida, non si sa bene di cosa (o, meglio, di cose che non mi piacciono affatto), gli Stati Uniti, è arrivato ormai ad oltre 2.300.000 detenuti, otto volte i nostri (fatte le debite proporzioni), e i nostri sono aumentati di circa il 15% in poco più di tre anni. Il termine sicurezza significa molte cose diverse.

Nell’attuale rivendicazione della sicurezza, si può, però, cogliere un paradosso. Mentre si parla di un diritto alla sicurezza, sembra che la visione della società che sta prevalendo indichi la crisi di tutti i riferimenti su cui si costruivano le prospettive essenziali delle nostre esistenze, cioè le nostre sicurezze.

Fra questi riferimenti c’era la stabilità del nostro ambiente di vita che, però, sembra essere ormai del tutto incerto: le possibilità vanno cercate dove si manifesteranno, in un processo di deterritorializzazione che non ci lascia più luoghi a cui apparteniamo e che ci appartengano. Fra questi riferimenti, particolarmente per i giovani, c’era una certa chiarezza delle possibilità di lavoro e della continuità dello stesso. si impongono ora vari aspetti di precarietà del lavoro, indispensabile, a dire di molti, allo sviluppo dello stesso lavoro.

La rapidità delle trasformazioni economiche mette in crisi le grandi industrie di un tempo, seminando incertezza e insicurezza in intere aree industriali, che si avviano a diventare ex-industriali. E, tutto sommato, questo mondo "che non si sa dove va a finire" continua ad essere presentato sotto la specie delle "magnifiche sorti progressive" di altri tempi e di altri orizzonti.

Ma se tutto cospira ad incidere sulle passate sicurezze e se, quindi, ciò che certamente cresce nel sistema socio-economico nel quale viviamo è l’insicurezza, se è cosi, come nasce, dove si colloca il "diritto alla sicurezza" di tanta propaganda della politica sui più vari versanti?

Direi che questo diritto si risolve in una rimozione dalla nostra esistenza quotidiana dei segni, ripeto, i segni, di ciò che non va. Dobbiamo rinunciare alle vecchie sicurezze generali e in cambio non vogliamo inquietudine, rotture della tranquillità.

Abbiamo bisogno di un ‘Valium" sociale. Questo è il diritto alla sicurezza: essere risparmiati dalle inciviltà o dalla possibilità di aggressioni ai nostri beni, se non alle nostre persone e, in genere, al nostro modo di vivere.

Eppure, in una società che ha perso le sicurezze fondamentali e che percepisce acutamente la mancanza dei precedenti riferimenti, non possono che crescere le inquietudini e i loro segni. Le "finestre rotte" (simbolo della insicurezza urbana, secondo quelli che ne sono divenuti i teorici) delle case abbandonate o tenute o anche vissute in condizioni di abbandono, sono destinate ad aumentare con la montante precarietà delle condizioni di coloro che vi vivono.

E i barboni nelle strade saranno un altro segno: si possono nascondere o spostare o confinare in quelle città precarie (baraccopoli, favelas, slums o come si vogliano chiamarli), che si moltiplicano intorno alle città "vere", quelle che non hanno l’apparenza della precarietà che però, dinanzi al declinare delle vecchie sicurezze generali, possiede la loro anima. Il segno della precarietà, tuttavia, non scompare se il barbone, isolato albero secco di una vita, scompare nel bosco di vite analoghe. E tossicodipendenti ed extracomunitari saranno altri segni, incombenti e non cancellabili.

Si coglie in questi accenni una caratteristica. Ciò che determina insicurezza sono i segni di un ambiente precario ed ostile (nel senso di foriero di pericoli)- non i segni in se, quanto la percezione soggettiva che di essi si ha. Cosi che, appunto, è inutile richiamare l’andamento della criminalità in diminuzione, perché comunque la si percepisce più forte e temibile. l tossicodipendenti possono essere i figli di ciascuno di noi, ma non si cerca di stabilire con loro un rapporto in cui non si affermino i bisogni più punitivi.

Gli extracomunitari appaiono come un pericolo perché responsabili di reati, ed è inutile dimostrare che la maggior parte di essi non solo non commette alcun reato, ma è indispensabile al nostro normale andamento di vita.

Sono dinamiche in cui è importante sottolineare l’indifferenza per le situazioni reali, il venir meno dell’interesse per ciò che veramente accade e della tensione alla sua trasformazione. Le persone garantite (sia pur con garanzie modeste, ma stabili) reagiscono contro coloro che rappresentano i segni delle inquietudini, esprimendo indignazione morale per la violazione delle regole della comunità. A tutto questo è stato dato un manifesto efficace: quello della tolleranza zero. Le finestre rotte metaforiche e le persone a rischio reali sono il bersaglio semplice del corto circuito della punizione. In concreto, non si tratta di cambiare i vetri rotti delle finestre, ma di escludere i diversi, di allontanarli dalla comunità e di metterli in galera. Bisognerebbe capire una cosa, l’indignazione morale avrà certo una sua soddisfazione, ma non modifica le cose.

Inesorabilmente, nonostante la punizione, le cose non cambiano, le situazioni a rischio si riproducono, mentre la volontà di punizione esige ancora il suo tributo, in una spirale di crescita dell’area della esclusione, con la quale non ci si vuole misurare, ma che si vuole solo confinare. Vorrei insistere su questo punto. Ci sono punti nella tolleranza zero su cui, specie se vissuti e praticati senza ossessioni, si può convenire. Se le "finestre rotte" sono il segno dell’abbandono di un ambiente urbano, cancellare non il segno, ma la realtà dell’abbandono è pienamente condivisibile. è influire sulla realtà.

Se ai barboni che dormono fra i cartoni intorno alle stazioni ferroviarie si offre un’accoglienza temporanea, la parte maggiore di loro la accetterà e, in modo duttile e non intrusivo, si potrà influire sulla loro passività e il loro auto isolamento. Ma il problema della tolleranza zero, non è qui, ciò che è centrale e decisivo è la indignazione morale e la volontà di punizione che vi si collega. E la volontà di punire esprime il deteriorarsi dei rapporti umani con il soggetto disturbante, che viene ad essere il bersaglio della ostilità. La tolleranza zero - o intolleranza - è essenzialmente ostilità.

Si può dire che ci troviamo dinanzi a un modello che si ripete in altre situazioni anche più tragiche. Nella storia della guerra dei nostri giorni, non ritroviamo la stessa indifferenza ai dati di realtà, lo stesso ruolo della percezione del nemico e la conseguente scelta della reazione aggressiva per debellarlo? Gli aspetti decisivi del modello della sicurezza urbana sono analoghi a quelli della sicurezza degli stati e del mondo. Analoga - c’è da temere - anche la conclusione.

Quando con il venir meno delle sicurezze generali, la precarizzazione di tutti i rapporti farà inesorabilmente crescere le aree della povertà e le renderà sempre più affollate ed inquietanti, gli strumenti giudiziari e di polizia non lasceranno il posto avere e proprie azioni militari (rastrellamenti al posto delle retate, campi di concentramento al posto delle carceri)?

Riconosco che il mio discorso è costruito all’ingrosso, ma non credo sia senza fondamento. Anche questo accostamento fra tolleranza zero e guerra è rivelatore di un nodo che ne rende più stretto il rapporto, come tra due fasi di uno stesso processo. E il nodo è il deficit di giustizia che si forma ai vari livelli di socializzazione. gli ambienti urbani, quelli di un paese e di uno stato, quelli della comunità degli stati. Deficit di giustizia vuol dire che c’è indifferenza ai meccanismi che creano le fasce di precarietà e, alla fine, le aree di povertà.

L’abbandono di quelle aree alle dinamiche sociali generali (produttive d’insicurezza attraverso la precarizzazione, come si è detto) accresce le differenze nell’accesso alle risorse e nelle modalità di vita fra i gruppi sociali garantiti e non garantiti, creando deficit di giustizia che assumeranno poi, negli ulteriori e più ampi livelli di associazione umana, squilibri sempre maggiori e più pericolosi.

Il discorso sulla sicurezza era cominciato in un altro modo, con un aggettivo che è caduto col passare degli anni: si parlava di "sicurezza sociale". Che era ed è tutt’altra cosa. A quel discorso bisogna tornare, nella convinzione, fra l’altro, che esso è meno dimenticato di quanto sembri. E, infatti, quando si invocano servizi che rispondano ai bisogni delle persone, non è proprio alla sicurezza sociale che si pensa?

Quando l’amministrazione pubblica non si preoccupa di fare soltanto propaganda puntando sulle percezioni delle cose, ma s’impegna per migliorare la realtà e la vivibilità dell’ambiente della propria comunità, allora la sicurezza sociale ritrova la direttrice di marcia, che è quella di rispondere alle esigenze effettive e non alle paure sociali.

Diciamo, quindi, che non sono tagliate alle nostre spalle le vie per tornare a realizzare una sicurezza diversa, anche se si deve essere consapevoli che vi sono situazioni che la oscurano. Certamente, andrebbero ripensate le politiche economiche generali, che non sono, d’altronde, né eterne, né irreversibili. Si può dire, riprendendo la formula del movimento che cresce in tutti i paesi, che un altro mondo è possibile. Il welfare state, anche se in crisi, è sottoposto a seri attacchi, non è stato condannato ovunque; ci sono tentativi di razionalizzazione sul versante della spesa, la cui crescita ha comunque consentito risultati dei quali non ci si può che compiacere.

L’aumento della durata della vita media, la cresciuta fruizione di terapie e farmaci, il ridursi di alcuni rischi (anche se altri tendono all’incremento). Razionalizzare non può significare certo la rinuncia a queste acquisizioni che sono anche frutto del sistema di sicurezza sociale attuato con il welfare.

Ma, scendendo nelle questioni più particolari, se consideriamo gli aspetti che influiscono sulle situazioni di degrado presenti nelle comunità urbane, non è del tutto assente la consapevolezza di ciò che sarebbe necessario fare, pur essendo venuta meno quella carica di progettualità che esprimeva in passato la speranza di poter modificare l’abitare urbano e di renderlo vivibile per una fascia sempre più ampia di persone. Questa progettualità sembra ora singolarmente passata alla speculazione che opera in senso opposto, creando quartieri destinati a pochi e chiusi agli altri. comunità riservate che difendendosi in tal modo dall’insicurezza, ne sottolineano l’incombenza. Ma il degrado urbano, nel quale prosperano le situazioni di precarietà e di disagio che inducono insicurezza, può essere affrontato solo se ci si cura di registrare i bisogni e avviare soluzioni reali.

La manutenzione - troppo spesso abbandonata - delle strade, delle piazze, dei luoghi pubblici (uffici. scuole, giardini) è un compito di evidente rilievo, che non può non investire e coinvolgere l’intera comunità. La disponibilità di tutta una serie di servizi, dai trasporti agli interventi contro l’inquinamento e per il miglioramento in generale delle condizioni urbane, è un segno - capace di incidere sulle modalità di vita delle persone - della presenza di chi deve provvedere alla gestione della comunità. È anche così che si produce un ambiente vivibile, nel quale ossessioni e paure diventano ingiustificate. Occuparsi di queste realtà - comunque un dovere degli organi pubblici - serve di più, in termini di creazione di sicurezza, che lavorare sulla percezione della insicurezza.

C’è poi tutto il tessuto d’interventi per far fronte al disagio delle persone, possibilmente vicino al suo insorgere. Decisivo, innanzitutto, l’aiuto alle famiglie in condizioni critiche - sia economiche che personali - facendosi carico, in particolare, delle difficoltà dei minori, da quelle scolastiche a quelle di socializzazione.

È attraverso la costruzione di una rete sociale che si può impedire la possibile deriva delle situazioni a rischio, riportandole sui binari giusti. Sempre nel quadro delle situazioni critiche di gruppo, c’è il problema degli stranieri. Se viene scelta la via del rifiuto e dell’esclusione, i risultati saranno la clandestinizzazione e il rischio di criminalità. E questo produrrà gli allarmi e le insicurezze che innescano la volontà di punizione. Si può scegliere, al contrario, la via dell’accoglienza e dell’inclusione Interventi sicuramente non semplici, ma tutt’altro che impossibili: una mensa, la distribuzione sul territorio di luoghi di accoglienza e di ritrovo, gli interventi per favorire l’inserimento lavorativo, i collegamenti con le risorse del terzo settore, che non sono trascurabili. E possibile, inoltre, agire anche sulle dinamiche associative di alcuni gruppi, con misure di attenzione e di aiuto che consentano di intercettarle efficacemente impedendone pericolose involuzioni.

Ma sono servizi che devono poter funzionare per dare risposte in grado di fronteggiare bisogni drammatici: allora, se gli utenti sono troppo numerosi, perché non pensare ad un maggior numero di sedi? Anche per altri soggetti devianti, spesso già da minorenni, esistono servizi che, almeno astrattamente, dovrebbero produrre risposte adeguate. Dare concretezza a queste risposte è impossibile? E si può proseguire con le situazioni di disagio personale, come quello psichiatrico; o con le forme di malessere che emergono in tante situazioni scolastiche e che richiedono appropriati sostegni psicologici. Si tratta di chiederci se questi siano modelli utopici dell’intervento sociale o semplicemente il modello vero, da costruire negli anni e certo non da abbandonare per un altro da cui siano cancellati aspirazioni e progetti maturati da decenni. Difendersi ed escludere non è conoscere e intervenire sui bisogni reali, ma coprire con una politica difensiva e repressiva le insufficienze, le rinunce, gli abbandoni e le loro conseguenze sulla vivibilità sociale di un ambiente.

Il nuovo modello di sicurezza - difensiva e repressiva - posto a confronto del precedente della sicurezza sociale, si è espresso in una formula: "dallo stato sociale allo stato penale", è lo stato penale il nuovo modello.

Cerco di capire che cosa implica l’espressione stato penale. È strettamente legato a questo discorso (non si sa bene se sia l’uovo o la gallina) il ritirarsi, più o meno radicale, dell’area pubblica d’intervento nella società. Ciò avviene contemporaneamente all’alleggerirsi di quella fiscalità generale con la quale lo stato operava socialmente. Questo significa una forbice economica sempre più larga tra soggetti garantiti e soggetti non garantiti.

I servizi che nell’ottica dello stato sociale erano disponibili per tutti, sono resi disponibili solo ai garantiti, che peraltro, date le migliori condizioni economiche, possono ricorrere anche al mercato privato (pensione, sanità, scuola, ad esempio). Per i non garantiti non resterà che un servizio pubblico sempre più in disarmo e il ricorso ad un sistema di beneficenza che cercherà faticosamente di sopravvivere. Accedervi, peraltro, comporterà per gli utenti condizionamenti e conformazione allo stato delle cose. La fascia non garantita è destinata a divenire sempre più numerosa e meno gestibile, in un quadro di condizioni di vita, sia al suo interno che fuori, nella stessa fascia garantita, di crescente precarietà e conflittualità.

In queste società spezzate - che non appartengono ad un incerto futuro, ma nelle quali ci stiamo insensibilmente sistemando - viene meno la partecipazione sociale e si bruciano le difese immunitarie che operavano attraverso di essa. C’è un riflusso nel privato, di cui i quartieri chiusi, auto ghettizzati, sono il simbolo gelido. Si degrada la qualità del rapporto umano, sempre più profondamente segnato da paura e ostilità, un contesto che renderà inevitabile la crescita di fatti aggressivi con risposte di pura e semplice repressione È il paradosso estremo. Il ritiro dell’intervento pubblico nel sistema sociale produrrà l’allargamento dell’intervento pubblico nel sistema repressivo, con aumenti incontrollabili della spesa; si doveva risparmiare e si spenderà di più, con la conseguenza di tornare ad aumentare il carico fiscale che si voleva ridurre. All’inizio, quindi, abbiamo visto e vediamo l’invocazione del diritto alla sicurezza da parte delle pur modeste fasce sociali garantite grazie all’operare residuo delle protezioni sociali.

Alla fine, vedremo scivolare fuori dalle garanzie parti sempre più rilevanti della popolazione e crescere la contrapposizione e il conflitto sociale, sempre più pesante e cattivo. Come non capire che tornare ad una politica di sicurezza sociale franca e piena, agire sulla realtà e non sulle percezioni, rispondere ai bisogni e non alle paure, è l’unico modo di ritrovare il bandolo della matassa aggrovigliata nella quale ci stiamo perdendo?

Il carcere si può considerare come il termometro che misura la febbre e la gravità della patologia che ha colpito il nostro mondo: cresce il carcere perché cresce la febbre e diventa sempre più grave la situazione patologica. La via che ci si vorrebbe far seguire mi pare sempre più impraticabile. in definitiva, l’accorrere di masse numerose agli incontri per la difesa dei diritti e per la pace (che ne è la sintesi), rappresenta un segno di nuova partecipazione sociale. a questo si risponde aumentando le risorse, portando a termine programmi e interventi avviati e mai completati esaurientemente, progettandone di nuovi, se necessario.

Su questo terreno non si gioca una scaramuccia marginale, ma uno scontro cruciale, che interessa non solo le dinamiche dell’esecuzione penale nei confronti dei condannati, tanti o pochi che siano, ma la capacità di gestire l’intervento sociale e farne lo strumento doveroso di promozione umana o, al contrario, abbandonarlo alle dinamiche generali che sovrastano questo mondo, dal quale, come si sa, non si può scendere.

 

 

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