La giustizia in bancarotta

 

Perché la giustizia italiana è sulla via della bancarotta

di Davide Giacalone

 

Ancora una legislatura scorre, volgendo al termine, senza che si sia posto rimedio alla sfascio della giustizia. Ad alzar la voce son tutti bravi, e tutti lo hanno fatto. Noi crediamo si debba spendere anche qualche idea, qualche tentativo di rompere il putridume stagnante. Con ingenuità, quindi, mettiamo ancora mano ad un programma per la giustizia. Nessuno è riuscito a concepire un sistema d’amministrazione della giustizia che faccia a meno di magistrati che, per professione, fanno i magistrati. La giustizia in toga è l’unico antidoto conosciuto alla giustizia di piazza, che raramente è innocentista, solitamente è feroce. I garantisti, ovvero i cultori del diritto e delle sue regole, credono nella giustizia amministrata dalle toghe, ed è solo per un grottesco scherzo della storia, per una di quelle distorsioni che la bugia e l’ipocrisia portano con sé, che, negli anni recenti, si è potuto parlare dei garantisti come dei nemici della magistratura. È vero il contrario.

Nessun sistema è mai riuscito ad eliminare l’errore, nell’amministrazione della giustizia. Tolleriamo di più l’errore che lascia impunito il colpevole, piuttosto che quello capace di punire l’innocente. Quel che non tolleriamo è l’errore frutto della violazione delle regole. Il che avviene più spesso di quanto non si voglia ammettere con sé stessi: si chiama "giustizia sostanziale", e sostiene che laddove la colpevolezza è evidente e la riprovazione sociale forte, non sarà certo il "cavillo" a fermare l’inesorabilità della condanna. Ebbene, questa è la teoria delle tirannidi, mentre a quel "cavillo", per quanto stucchevole, talora irragionevole, s’aggrappa la civiltà del diritto. Il nostro sistema giudiziario non funziona, ha superato il confine della bancarotta, per moltissime ragioni, ciascuna delle quali ha un’origine ed una storia. Esaminarle una ad una è doveroso, cercare di fare di ciascuna la causa di tutto serve solo ad alimentare il conflitto, senza puntare alla soluzione. Rimuovere, con riforme o sentenze, l’una o l’altra di queste cause, dimenticando l’insieme del problema, non è illegittimo o criminale, ma oziosamente inutile. Concentrando l’attenzione sul sistema penale, allora, chiameremo il problema che sta in testa ad una lunga catena di conseguenze, e proporremo una soluzione. Se raccogliessimo il plauso di tutti, vorrebbe dire che avremmo sbagliato nell’individuazione del male e saremmo stati inefficaci nella proposizione della cura, perché questo, purtroppo, è il dramma nel quale viviamo: tutti sanno che il sistema non funziona, ma ciascuno ne difende il lato che più gli aggrada.

 

Inquisitorio ed accusatorio

 

L’Italia viene da un sistema inquisitorio, dove le prove erano raccolte dal pubblico ministero, sotto la sorveglianza del giudice istruttore, poi il tutto veniva portato davanti al giudice di causa, ove l’imputato era chiamato a difendersi. In quel sistema era assai importante quella che i magistrati associati chiamano la "cultura della giurisdizione". In un italiano più prosaico, era ragionevole che fossero colleghi fra loro, i magistrati ed i giudici. Era importante che ciascuno di essi avesse chiara la responsabilità che portava nell’accusare un cittadino e, pertanto, il controllo sugli atti istruttori era effettivamente necessario ed operante.

Non era un sistema perfetto, anzi, era assai imperfetto. Il cittadino si trovava ad essere accusato sulla base di "prove" che si erano formate a sua insaputa, e gli eventuali errori (od omissioni) che si verificavano in istruttoria si trascinavano, poi, per tutto il dibattimento. Il giudice di causa era il dominatore del giudizio, ma pur sempre sulla base delle carte raccolte dai suoi colleghi, che egli conosceva, così come la logica dell’accusa, già all’aprirsi del processo. Così l’Italia passò al sistema accusatorio, ovvero quello nel quale ogni prova si deve formare davanti al giudice di causa, il quale, alla prima udienza, non sa niente di quel che dovrà giudicare. In questo secondo schema, però, la colleganza fra giudici e magistrati non solo non è più logica, ma diviene una bestemmia.

Noi abbiamo superato il vecchio sistema portandocene dietro tutta la struttura, quindi abbiamo creato un mostro, che non potrà mai funzionare. Tutto il resto, dalla ridicola figura del giudice dell’indagine preliminare, alla trasformazione genetica dell’udienza preliminare (rito inutile o primissimo grado, a seconda dei giudici), viene dopo. O si torna indietro, o si va avanti. La prima cosa è impossibile, la seconda presuppone la separazione delle carriere e l’effettiva parità fra le parti (accusa e difesa). Tutte le terze vie sono perdite di tempo.

 

Tempi della giustizia

 

I tempi della giustizia italiana sono fuorilegge: fuori dalla legge italiana, fuori da quella europea, fuori da quella internazionale. Non siamo un Paese civile. Le lungaggini hanno a che vedere con questioni delicate, ma un primo passo dovrebbe essere l’eliminazione della distinzione fra termini perentori e termini ordinatori. Ogni atto che il cittadino accusato od indagato può compiere ha dei termini di scadenza, superati i quali perde ogni diritto. Ogni atto che la giustizia deve compiere per operare legittimamente ha dei tempi, superati i quali non succede assolutamente niente (ad esempio i termini per il deposito delle motivazioni). I primi sono termini perentori, i secondi ordinatori.

 

Riti alternativi

 

Il sistema accusatorio funziona se al processo arriva una minoranza dei casi, da noi arriva la quasi totalità, ovviamente puntando sull’irragionevole durata, che per i colpevoli è una pacchia. Il rito alternativo non deve aver timore di fare sconti: il colpevole che ammette la colpa compie un atto socialmente utile, e va premiato, consentendogli di patteggiare una pena inferiore (anche di molto) a quella che gli sarebbe toccata se avesse chiesto il processo, proclamandosi innocente, o tacendo (come è suo diritto). Ma, a questo proposito, si devono dire alcune cose chiare: a. non ha senso che chi patteggia una pena sia considerato formalmente non colpevole del reato; b. non ha senso che il giudice dell’udienza preliminare possa opporsi ad un patteggiamento sul quale accusa e difesa hanno già concordato, semmai può interloquire sulla pena; c. la sentenza patteggiata deve essere immediatamente esecutiva; d. si deve poter patteggiare solo all’inizio del procedimento, non nel suo corso. Se alla crudezza di queste evidenze s’oppone la pudibonda ipocrisia di chi reclama sempre condanne esemplari, s’ottiene solo che tutti i criminali punteranno alla prescrizione dei reati.

 

Obbligatorietà dell’azione penale

 

L’obbligatorietà dell’azione penale non rende i cittadini eguali davanti alla giustizia, ma, semmai, il pubblico ministero arbitro di quel che vuole perseguire e quel che vuole lasciar cadere nel dimenticatoio della prescrizione. L’obbligatorietà, inoltre, è un potentissimo ostacolo al diffondersi dei riti alternativi e, specialmente, del patteggiamento. L’obbligatorietà dell’azione penale va abolita.

 

Esecutività delle sentenze

 

Questo è il capitolo più esplosivo. Da noi la presunzione d’innocenza (articolo 27 della Costituzione) è una delle cose che si calpestano di più. L’imputato è sempre considerato un presunto colpevole, sottoposto a misure ed angherie che durano anni ed anni, condotto alla rovina ed alla disperazione, benché egli sia da considerarsi innocente. Un tormento irragionevole, che, purtroppo, sfugge alla comprensione di quanti non l’hanno assaggiato.

Questa litania del dolore va accorciata brutalmente, ed allora, ecco alcuni cazzotti nello stomaco. A. Le sentenze d’assoluzione non devono essere ricorribili da parte dell’accusa, il processo si fa una volta sola, e chi viene assolto ha diritto ad essere lasciato in pace. B. In caso di condanna l’imputato ha diritto al ricorso, ma la presunzione d’innocenza viene intaccata, a seconda dei casi e dei reati, o con delle cauzioni, o con la detenzione. C. Il processo di secondo grado non è un processo bis, ma la sede nella quale, entro sei mesi dalla condanna, si accerta se i diritti della difesa erano stati tutti rispettati, e se vi sono fatti nuovi da prendere in esame. D. Al ricorso avverso una sentenza, ed al definitivo vaglio della Cassazione, ha diritto l’imputato che si presenti in aula, pronto a subire le conseguenze del giudizio.

 

Responsabilità

 

Il riesame dei casi metterà in luce anche la capacità dei giudici di primo grado di condurre il dibattimento ed amministrare la giustizia. Il giudice che sbagli per dolo sia arrestato e giudicato con estrema severità. Il giudice che sbagli per bestialità, così come quello che sbagli per mera sfortuna, siano allontanati dalla professione.

Non tutti abbiamo il diritto di fare i pittori, perché la maggioranza di noi non sa disegnare. Non tutti hanno il diritto di fare i giudici, perché se anche conoscono a memoria i codici (?), c’è chi è idoneo e chi no, dei secondi è socialmente utile liberarsi in fretta.

 

Autoreferenzialità

 

Nella traduzione italiana l’indipendenza del giudice è divenuta autereferenzialità di casta. Il Consiglio Superiore della Magistratura, ove sono rappresentate le correnti politicizzate della magistratura, è divenuto una delle principali cause dello sfascio. Non si osa dirlo, perché quello che lì amministrano è un potere assai forte, inimicarsi il quale può essere fatale. Assecondarlo, però, è fatale di sicuro, per la giustizia.

 

 

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