Carcere & Società

 

Sperimentazione di reti locali per l’inserimento socio-lavorativo di detenuti ed ex detenuti

 

Incontro di analisi dei risultati del questionario indirizzato al privato sociale

Parma, 25 maggio 2004

Progetto Carcere & Società

 

Gianluca Borghi (Assessore alle politiche sociali, immigrazione, progetto giovani, cooperazione internazionale della Regione Emilia Romagna)

Silvio Di Gregorio (Direttore degli Istituti penitenziari di Parma)

Franco Corleone (Garante delle persone private della libertà personale presso il Comune di Firenze e già sottosegretario al Ministero della Giustizia)

Franco Corleone

 

Un problema ancora da comprendere riguarda il lavoro dei detenuti e degli ex detenuti. Bisogna capire se quella delle cooperative è un’offerta di lavoro o invece diviene tale al momento della chiusura dell’esperienza detentiva e quindi alla fine della esecuzione della pena. Questa mi pare sia una domanda che rimane irrisolta nei risultato del questionario. Cosa succede finita l’esecuzione? Già i numeri non sono altissimi. Sarebbe interessante sapere perché le persone che lavoravano nelle cooperative nel momento della detenzione poi escono da quel circuito.

Perché hanno delle altre possibilità oppure vengono dispersi, oppure rientrano in carcere? Questo sarebbe interessante. E ancora sarebbe interessante capire come agisce, se agisce, e questo forse non riguarda in particolare modo le cooperative, l’applicazione e le difficoltà che ci sono della cosiddetta legge Smuraglia. Come comprendere se questa ha prodotto i risultati che ci si aspettava oppure no?

Per quanto mi è stato detto, la difficoltà di usufruire della legge Smuraglia è dettata dalle norme onerose e complicate, non dico vessatorie, che il ministero ha messo in atto; cioè chiede alle imprese molti dati che le imprese considerano se non riservate, comunque molto impegnativo fornire con la modulistica che è stata predisposta e così via.

Quindi questo problema del lavoro credo che dovremmo capire i due aspetti: quello riguardo a un mondo che dovrebbe essere particolarmente sensibile a questo problema, quello della cooperazione, degli enti pubblici intendo, e dall’altro il versante del carcere, per capire se il carcere utilizza a fondo le possibilità del lavoro come misura alternativa alla detenzione.

Questi sono i due versanti. Certo non è confortante l’ultima osservazione di Cavalieri che ci ha presentato i risultati del questionario. In molte cooperative non solo non hanno fatto inserimenti, ma anche per il futuro annunciano che si guarderanno bene dal farlo. Dall’altra c’è da comprendere perché il carcere utilizza poco l’art. 21, poi se guardiamo invece altre misure passiamo alle responsabilità di un soggetto che manca al tavolo che è il Tribunale di sorveglianza. Come si incastrano queste diverse opzioni possibili.

Ricordo che al ministero avevamo firmato una convenzione con Italia Lavoro il progetto, non so se è poi proseguito oppure no, aveva una particolarità interessante: fornire attraverso un lavoro personalizzato sui detenuti, carcere per carcere, un quadro delle abilità. Il quadro che viene fuori dalla ricerca di Carcere & Società mette in luce le disabilità, fotografa il fatto che c’è un livello basso. Questo livello basso di occupazione è dettato dal fatto che le offerte sono di quel tipo e quindi non si può che fare quello e non è valorizzata invece una possibilità di storia personale che potrebbe essere più interessante da valorizzare.

Ci sono nella storia delle persone delle fasi di vita: oltre quella che ha portato al carcere, ci possono essere delle esperienze di lavoro che sono state fatte nell’adolescenza, nella gioventù e che poi sono state abbandonate più per trasferimenti, cambiamento di residenza, ecc. che potrebbero essere recuperate come vocazioni importanti e come un’abilità da recuperare. Per fare questo bisognerebbe non solo fare lavori di classificazione, ma anche fare dei lavori storicizzati, di analisi, e quindi andare a verificare le storie personali attraverso anche un lavoro di colloqui, ma anche facendo compilare delle schede per scoprire se c’è un’abilità nascosta o pregressa e magari lì offrire un lavoro di soddisfazione e anche un lavoro più qualificato, più interessante, più di prospettiva.

Il problema è quello di cercare di unire quello che tradizionalmente si chiama la domanda e l’offerta, quale è la richiesta che viene fatta di lavoro, ma anche quali sono le opportunità, le capacità. Questo lavoro mi pare debba essere utilizzato per approfondire tutti gli sviluppi possibili con l’obiettivo di passare a grandi numeri perché non possiamo pensare che se sommiamo tutte le cooperative poi ci sono più cooperative che posti di lavoro perché altrimenti c’è qualcosa che non funziona.

È Chiaro che è un paradosso il mio però… il problema del carcere – che non è il problema delle cooperative – e quello della sua chiusura. Sempre più se il carcere si chiude in se stesso come contenitore e non ha una prospettiva di inserimento, è chiaro che noi avremo nel lavoro pochissimi detenuti e avremo solo un circuito che si autoalimenta di ingressi in carcere, permanenza e peggioramento delle condizioni di salute, e poi rientro, uscita e rapido rientro in carcere. D’altronde se il modello del carcere è quello che constatiamo come filosofia è chiaro che un modello diverso di carcere è molto difficile, richiede molto impegno, molte risorse, se queste non ci sono è tutto diventa molto difficile. Ho visto che a Parma, mi pare, vi sono molte iniziative, almeno ripetute nel corso degli anni, rispetto ad altre realtà c’è un’attività significativa della Provincia.

Nei risultati sulle difficoltà dell’inserimento nel lavoro, c’è una risposta politicamente corretta, che dice che la disabilità non è mai una cosa che provoca insuccesso mentre per la tossicodipendenza lo è spesso e per l’alcooldipendenza nella norma. Sono tre risultati che meriterebbero forse qualche osservazione ulteriore per come si sono prodotti. Però il dato più significativo in queste risposte sull’insuccesso è l’assenza di sostegno. Penso di capire che assenza di sostegno vuol dire che il lavoro di per sé non è sufficiente se questo non significa inclusione sociale, integrazione e non vuol dire invece una forma comunque che non supera l’emarginazione che si è prodotta prima, durante e dopo la carcerazione anche nella situazione positiva del lavoro come detenuto o come ex detenuto; quindi questo ci interroga sul modello di società, il modello di welfare e come funziona, come può funzionare come risponde a quella che è una scommessa difficile sicuramente ma che va giocata per far snellire il carcere. Le scelte di politica criminale del governo portano all’enfatizzazione del carcere, all’aumento della detenzione, se fosse approvata la legge proposta da Fini sulla tossicodipendenza avremmo il 20 o 30% in più di detenuti. L’inserimento nel lavoro come "difficoltà" è il risultato di questi dati: il problema della tossicodipendenza, il problema dell’assenza di rete familiare, l’assenza di sostegno; si scarica sul carcere una questione sociale dopodiché per risolverla ci vuole il doppio, il triplo di sforzo, di capacità, di risorse e una impossibilità a risolvere il problema. Penso che questo studio sia utile e importante. Io segnalo perché mi è stato riportato, un’esperienza che sta partendo in Friuli Venezia Giulia, organizzata dalla Casa circondariale di Udine e dal Cssa di Udine: Hanno creato due info-point informatizzati e multilingue per i detenuti e per tutti gli operatori, le famiglie, con la possibilità di avere tutte le informazioni possibili sulla legislazione, sulle misure alternative, sul reinserimento, sul lavoro. Questo mi pare che sia un intervento molto interessante perché rende anche protagonisti in prima persona i detenuti e gli operatori. Non conosco i risultati che darà, è una cosa sperimentale, parte questo mese, vediamo, mi pare sia una novità, quella di avere a disposizione uno strumento di questo genere per trovare in prima persona una strada. Mi piace questa cosa perché è stata prodotta dal carcere, dal Cssa e dal Teatro stabile del Friuli Venezia Giulia, un teatro stabile di innovazione, ecco pensare che si mettono insieme soggetti di questa diversità è molto suggestivo.

Silvio Di Gregorio

 

Le mie considerazioni partono da un’osservazione di fondo: che per la prima volta viene fatto uno studio comparato su quello che sono le varie realtà e le varie esperienze che vengono fatte in Regione e questo dà la possibilità di analizzare alcuni dati, di poter porsi alcune domande e soprattutto anche di cercare come feed-back il fatto che sia cresciuta l’attenzione del mondo esterno nei confronti del carcere. Non tanto dal punto di vista dell’offerta ma quanto della qualità dell’offerta.

Mentre prima le esperienze lavorative, parlo anche della realtà di Parma, cercavano grandi numeri, magari anche per esperienze limitate, adesso l’attenzione viene spostata piuttosto alla qualità, cioè a che cosa si può fare effettivamente per il detenuto in modo stabile, in modo che si possa davvero incidere sul cambiamento di rotta per il reinserimento all’interno del contesto sociale. Quindi anche le domande sono relative a questa interpretazione.

Per esempio una cosa che a me salta molto evidente, la domanda n. 12 "esiste un servizio, una funzione dedicata a favore dell’inserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti" quasi tutte le cooperative non prevedono o prevedono in modo limitato un servizio riservato esclusivamente come attenzione personale. Ciò deve indurre ad un ragionamento, nel senso che: ma allora in 10 anni, pensavamo solamente ad un aspetto lavorativo, tralasciando l’aspetto della persona, o magari lo si faceva anche inconsciamente?

L’inserimento di una persona all’interno di una cooperativa è più un’accoglienza lasciata alla spontaneità personale, alla coscienza di ogni singolo operatore piuttosto che una cosa strutturata. Io penso che la soluzione vera sia questa: all’interno di una cooperativa il detenuto deve trovare un ambiente a lui favorevole, trovare comunque una persona che l’accompagni per mano in questa avventura all’esterno del carcere.

Ritenevo che questa cosa fosse una dinamica più spontanea che ragionata e ponderata. Dico questo non per fare accuse, ma semplicemente per dire che prima si guardava al grande numero e adesso si guarda, e si deve guardare, più alla qualità. L’altro dato che secondo me conforta anche questo modo di pensare è l’attenzione agli ex detenuti. Non basta offrire ai detenuti una alternativa al carcere occorre partire dalle premesse che una volta che una persona esce dal carcere rimanga fuori dal carcere perché ha un’occupazione stabile, che produce reddito, un’occupazione che produce le condizioni per poter vivere una vita senza bisogno di dover ricorrere all’assistenzialismo. Secondo me anche in questo senso bisogna lavorare di più.

Altro discorso che si può evincere da questo tipo di esperienze, di lavoro, è il discorso relativo alla tenuta dei detenuti. Come diceva prima Corleone: i detenuti, una volta che sono inseriti alla fine della pena mollano o comunque non vanno avanti nell’esperienza.

Esistono all’interno dei percorsi professionali i cosiddetti tutor, ma probabilmente questo tipo di tutoraggio si limita ad un tutoraggio asettico all’interno del penitenziario. L’esperienza di Parma con Forma Futuro è diversa: investiamo sulla persona. Investire sulla persona vuol dire non solo creare sbocchi e opportunità lavorative, non solo quindi con le cooperative, ma ricorrendo a tutto quello che la normativa ti consente di utilizzare, tirocini formativi, stage all’esterno; e accompagnare il detenuto con persone che abbiano la professionalità e la capacità per poterlo fare. Infatti è stato condivisa dalla Provincia di Parma la scelta che l’accompagnamento, inserimento all’interno dei percorsi professionali, fosse seguito dal tutor inteso come psicologo del carcere, che avesse quindi questa doppia veste in modo non solo da sostenerlo nella motivazione, durante tutto il percorso formativo che deve essere necessariamente di qualifica professionale, non un corso professionale di 70-80 ore ma un percorso formativo che qualifichi veramente la persona sempre nell’ottica del reinserimento e del conseguimento di una professionalità spendibile all’esterno.

È vero che la cooperativa richiede l’operaio generico, però ritengo che questo va bene per rimediare ai danni creati dalla carcerazione, ma sicuramente non può essere il punto da raggiungere in quanto nel momento in cui esce e quindi il carcere l’ha abbandonato, l’ha lasciato a se stesso, il detenuto deve avere in mano un pezzo di carta, una professionalità che l’azienda richiede, o anche che la stessa cooperativa richiede, non necessariamente bisogna andare nel privato, si può andare anche nel privato sociale, però l’importante è che siano garantite al detenuto le condizioni per poter vivere nel contesto sociale mantenendosi, avendo un minimo di reddito, una possibilità minima per poter vivere una vita dignitosa all’esterno.

Del resto la Repubblica italiana è una repubblica fondata sul lavoro, se manca quello, le condizioni, già da quel momento, vengono a mancare. Dicevo che il tutor ha il compito non solo di sostenere la motivazione durante l’intero percorso della formazione, ma ha anche il compito di favorire quella osservazione che troppo spesso non avviene nei termini previsti dalla legge.

Per farvi capire quali siano i drammi all’interno del carcere: un detenuto nel momento in cui diventa definitivo, cioè condannato dallo Stato, deve passare un determinato periodo di tempo all’interno del carcere e entro 9 mesi dovrebbe avere la famosa osservazione che comporta per lui la possibilità o di uscire o di rimanere in carcere, nel senso che se l’osservazione è negativa deve rimanere all’interno del carcere.

Ma se la sua osservazione, com’è nella stragrande maggioranza dei casi è positiva il detenuto non deve stare in carcere per più di 22 mesi di tempo, invece troppo spesso si arriva ad anni ed anni in cui neanche il colloquio viene fatto, perché vi è una carenza a carattere economico che non dà la possibilità di avere gli educatori, per capirci, all’interno del carcere, con Forma Futuro e la Provincia di Parma, con la Regione che finanzia i corsi di formazione professionale sono stati introdotti i tutor scegliendoli tra gli psicologi consulenti del carcere. Queste persone hanno aumentato le possibilità di osservazione all’interno del carcere dei detenuti che partecipano ai progetti di formazione professionale. Non bisogna però dimenticare che non tutte le persone riescono ad uscire dall’istituto e che il lavoro non è solo per quei pochi che vanno fuori.

È vero che, i numeri lo dicono, i detenuti che riescono ad uscire sono pochissimi, nell’arco di un anno a Parma riescono ad uscire 30 persone, le cooperative a Parma hanno grossomodo 10 posti liberi, in realtà, se il carcere potesse, tra il centro servizi sociali e il carcere si potrebbero mandare fuori ulteriori 10 persone, ma non riusciamo a farlo perché ci mancano le risorse. Queste 10 persone potrebbero comunque trovare un’attività lavorativa, oltre ovviamente a quelle che già sono all’esterno, insieme agli altri 600 (abbiamo a Parma 600 detenuti), 30 vanno fuori e sono il 5%, i rimanente 95% sono casi insoluti salvo lavorazioni che vengono offerte dalla Amministrazione penitenziaria e che sono lavorazioni di tipo domestico che sicuramente non creano quelle professionalità richieste all’esterno, per questo motivo bisogna portare lavoro anche all’interno del carcere.

E’ ovvio che questo è un aspetto residuale rispetto al principio generale che dovrebbe vedere tutti fuori dall’istituto se vi sono le condizioni perché questi possano uscire ma non bisogna dimenticarsi le lavorazioni all’interno del carcere. Per fortuna c’è una cooperativa che porta lavoro all’interno del carcere, c’è anche un’impresa privata che attualmente offre lavoro nella casa di reclusione. Sono numeri piccoli ma comunque fanno sperare nell’ottica di una crescita.

Gianluca Borghi

 

Ringrazio Roberto Cavalieri per questa elaborazione che ovviamente ho solo potuto cogliere in qualche aspetto della sua presentazione ma che mi prendo e porto a casa perché sicuramente questo è uno degli ambiti nei quali in particolare il protocollo che sottoscrivemmo in regione del ’98 è stato meno percorso meno concretamente attuato. C’erano disegni importanti, ambiziosi in quel protocollo che ha tentato di porre le basi per il lavoro di rete e anche rispetto all’inclusione di detenuti in reti lavorative, appunto ha visto una elaborazione importante che non sempre nei nove comitati locali di attuazione ha trovato uguali iniziative, uguali opportunità.

Il lavoro che avete fatto lo prendo e lo porto a casa perché in effetti ritengo che anche a livello regionale ci serva una elaborazione propedeutica anche alle indicazioni dei contenuti del piano sociale dell’Emilia Romagna che entro l’anno siamo impegnati in giunta come consiglio a discutere e ad approvare. Piano sociale che tenterà di definire nuove integrazioni che vadano oltre a quelle ovviamente necessarie riguardante le politiche, riguardante il socio-sanitario ma che appunto sulla formazione, sul lavoro in particolare dovrà rappresentare uno strumento concreto non soltanto per i piani sociali 2005/2007 ma anche per politiche attive sul versante di cui oggi discutiamo.

Se me lo consentite farei una premessa. Non posso esimermi da una valutazione direttamente conseguente alla responsabilità e all’esperienza che in questi anni ho maturato. Ormai fra non definitivi, persone tossicodipendenti, persone affette da patologia psichiatrica, stranieri, persone che hanno compiuto reati per i quali sarebbe possibile agire immediatamente verso pene alternative, più o meno il 90% anche in Emilia Romagna di 3500 detenuti, rientra appunto in una sorta di detenzione sociale, questo è il contesto verso il quale vanno ad inserirsi anche gli sforzi del protocollo e oggi ho una conferma di ciò che già intuivo o sapevo: nella Provincia di Parma le cooperative sociale rappresentano un interlocutore che ha scommesso e investito in questo ambito, più che in altri, in confronto a Reggio Emilia ad esempio, è un confronto eclatante… è questo il quadro in cui vanno a collocarsi il carcere e quello che diceva Corleone e Di Gregorio: il carcere è ormai qualcosa di già diverso. Nel carcere sta tornando l’Hiv, la Tbc, nel carcere vi sono spessissimo situazioni dal punto di vista sanitario, assolutamente insostenibili. Questo è il quadro.

Comunque quel che faremo, quel che non faremo sarà bene o male conforme alle responsabilità della iniziativa di questi enti locali, della regione, delle istituzioni penitenziarie. Non c’è nessuna possibilità di confronto istituzionale. Da tre anni gli assessori delle regioni italiane stanno chiedendo un confronto diretto con il Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria (DAP) e con il ministro in particolare per discutere di questo con il governo. C’è un’ottima disponibilità del direttore generale ma manca completamente la possibilità di un incontro stato-regioni che porti ad un confronto e quindi poi anche alla definizione di responsabilità.

Mi soffermo su questo in particolare perché riguarda l’aspetto sanitario. Il mese scorso una circolare del direttore Tinebra nella quale di fatto le regioni vengono viste come service ai quali richiedere indipendentemente dalle disponibilità economiche, in particolare per quanto riguarda l’ambito delle prestazioni sanitarie del Dap a cui chiedere o meno prestazioni. Si sta verificando una sorta di sussidiarietà al contrario, tale per cui le regioni devono intervenire quando unilateralmente il governo decide che rispetto alle prestazioni, rispetto ai medicinali, rispetto ad altro, non vi sia più una disponibilità o la necessità finanziaria.

Questo è un punto rilevante per noi. Noi tentiamo, devo dire, in tutte le carceri dell’Emilia Romagna, in quasi tutte noi riscontriamo una buona disponibilità delle direzioni a fare insieme, ma la carenza di infermieri, la mancanza di personale proprio, sta rendendo, all’interno delle carceri, situazioni assolutamente insopportabili, almeno per noi. A Ferrara abbiamo costruito un protocollo di intesa sulla prestazione infermieristica che ci vede direttamente coinvolti con l’azienda sanitaria locale, c’è da parte del Dap regionale, una disponibilità alla cooperazione ma, appunto, io non posso non ricordarvi che i 20 colleghi, i 20 assessori alla sanità il mese scorso hanno rinviato al ministro Castelli quella circolare sulla sanità penitenziaria perché di fatto la riteniamo assolutamente insostenibile. A noi non viene data alcuna competenza perché di fatto la legge 230 viene ritenuta fallita, la riforma che doveva trasferire alle regioni competenze in materie sanitarie all’interno del carcere, dicevo, in una condizione in cui non è per nulla definito il tema delle risorse, assumere queste responsabilità. Non abbiamo nessuna risposta. Vedremo dopo la tornata elettorale amministrativa come evolverà la situazione, ma questo è il quadro.

Rispetto al tema dei lavori, della interazione sociale che vede la cooperazione come artefice di nuove opportunità. Io penso questo.

Con le nuove amministrazioni provinciali dovremo, nella seconda parte del 2004, assumere fra gli altri questo tema come tema rilevante attraverso il quale leggere anche la nuova programmazione del fondo sociale europeo attraverso il quale leggere il lavoro che, rispetto alle competenze delle province, dovrà essere svolto con condivisione per quanto riguarda questo ambito. La commissione regionale sulla cooperazione sociale che vede la presenza delle rappresentanze delle centrali dell’Emilia Romagna potrebbe utilmente, nella seconda parte del 2004, interagire con la giunta regionale, con la commissione regionale sulle carceri, per vedere in che modo.

Devo dire che questa è stata anche una soddisfazione che recentemente il dott. Fabozzi, responsabile del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna ci aveva avanzato per verificare in che modo riuscire ad utilizzare al meglio le risorse che sicuramente la giunta regionale metterà a disposizione del fondo sociale regionale. Fondo sociale che dal 1996 prevede una destinazione di risorse per sostenere progetti di avviamento al lavoro, comunque formativi interni ed esterni, anche sul 2004 andremo alla programmazione che prevederà risorse dedicate, spero nella misura più ampia possibile… giovedì scorso si è concluso positivamente un accordo fra stato e regioni per la destinazione del fondo sociale nazionale.

La giunta riterrà sicuramente anche per il 2004 questo ambito un ambito che dovrà trovare riferimento nella manovra del fondo sociale regionale per il 2004 in attesa che i contenuti del piano sociale regionale così come è previsto dalla legge 2 approvata nel marzo del 2003 e che fa esplicito riferimento anche a questo ambito fra le politiche sociali di competenza dei territori ovviamente in integrazione con le istituzioni penitenziarie. In attesa che il piano sociale vada a descrivere magari con nuovo vigore, anche rispetto al contenuto del protocollo del ’96, questo ambito come ambito di responsabilità degli enti locali.

Io so che questo non è sempre semplice, so che non è sempre scontato, so che in particolare in alcuni periodi, nel quinquennio delle amministrazioni, agire sul carcere diventa meno appetibile, meno entusiasmante, ma i piani di zona di seconda generazione: 2005-2007 che in tutti i territori dovranno essere costruiti alla luce dei contenuti del piano sociale, dovranno trovare i tempi e i modi per affrontare questo. C’è il tema degli accordi di programma che discenderanno sui piani sociali di zona e allora, ancora una volta, la iniziativa del terzo settore della cooperazione sociale, senza che però questo diventi un alibi perché poi altri pezzi dell’impresa, della produzione, del lavoro, presenti in tutto il sistema produttivo della nostra regione, si disinteressino completamente da queste possibilità… ma comunque il terzo settore è il soggetto che istituzionalmente è presente all’interno della prassi di concertazione dei piani di zona, cioè l’accordo di programma 2005-2007 potrà essere sottoscritto oltre che dai 43 distretti socio-sanitari, anche dalla cooperazione sociale, volontariato e associazionismo. Penso allora che questa fase, anche alla luce dei dati che oggi ci avete fornito potrebbe vedere un nuovo impulso per sostenere iniziative di questo genere, in questo ambito, anche grazie ad una forte iniziativa della cooperazione e ovviamente anche degli enti locali.

Utilizzeremo gli strumenti che prima ricordavo per sollecitare, per sostenere ulteriormente anche con risorse proprie del fondo sociale una stagione nuova, una fase nuova che comunque non può prescindere dal collocarsi nel contesto che io giudico sostanzialmente drammatico che oggi è quello rappresentato dal penitenziario della nostra regione e del nostro paese. Mi aspetto poco dal livello centrale… quasi nulla, vediamo cosa riusciremo a fare utilizzando alcuni strumenti che però non mi paiono sinceramente poca cosa o comunque irrilevanti e che sono in grado di definire questa responsabilità, questa sussidiarietà vera fra regione, territorio, terzo settore, istituzioni altre (Ausl, istituzioni penitenziarie, ecc.) per una nuova fase di progettazione. Il vostro lavoro ci serve… dopo il turno amministrativo, anche di questo parleremo all’interno della commissione regionale sull’esecuzione penitenziaria così come è prevista dal protocollo.

Franco Corleone

 

Le osservazioni fatte sono importanti, occorre utilizzare questo lavoro per approfondire una ricerca in termini qualitativi perché questo può aiutare ancora di più. Questo primo quadro deve spingere a fare altre analisi soprattutto per seguire un po’ di più queste vite. Le proposte dell’assessore Borghi mi paiono significative come impegno sul fronte sociale, e in questo il lavoro è fondamentale.

Il direttore del carcere ha fatto questo riferimento a un’applicazione da parte di un’azienda della legge Smuraglia bisogna avere un quadro regionale completo per capire se può dare dei frutti maggiori. Questa potrebbe essere una strada anche per il lavoro all’interno del carcere perché se ci sono resistenze all’uscita del carcere, almeno così ci potrebbe essere lavoro anche qualificato in carcere.

Qua vi sono le difficoltà, io le ho riscontrate, mi è stato detta questa richiesta di dati e certificazioni che le aziende non hanno molta volontà di rendere palesi ma allora forse la regione, avendo un quadro generale, ormai sono passati parecchi anni, o la legge funziona oppure se non funziona bisogna ormai essere in grado di dire quali sono gli intralci, le difficoltà, perché era stata accolta con molta speranza, quindi se alla fine in tutta la regione c’è un solo esempio che è quello di Parma, questo è un limite. Allora, è un limite legislativo, è un limite della società, è un limite del penitenziario, non lo so, però credo che a distanza di quasi quattro anni dall’applicazione, dall’approvazione, ci sono stati decreti applicativi però ormai è eccessivo il tempo, anche per un paese come l’Italia. Credo che questa possa essere una bella ricerca ma anche da trasformare in termini operativi perché altrimenti si mettono in campo risorse, impegni, impegno sociale, poi però manca il risultato. Credo che questo possa essere un invito che viene da questo incontro: andare ad uno dei nodi fondamentali.

Silvio Di Gregorio

 

Volevo concludere il mio intervento facendo riferimento al mondo del lavoro nel privato sociale, dal punto di vista del mondo penitenziario, io non riesco a capire se la popolazione detenuta è vista come una risorsa o come un costo. Mi spiego: nel momento in cui le persone devono uscire attivando tutta una serie di incentivi che devono esserci, se non altro per dare la possibilità al detenuto e all’impresa di colmare il gap tra la prestazione lavorativa in una relazione che non ha avuto la carcerazione quindi che non si è disabilitato al lavoro e uno invece che ha sempre prestato lavoro e che nel momento in cui esce dal carcere non è in grado di fornire la stessa prestazione sia quantitativa, sia qualitativa anche se ha frequentato dei corsi professionali, questo per rispondere un po’ a lei " forse è inutile che facciamo della formazione"… sono e comunque prevedono percorsi di stage all’esterno di fatto significativi, circa 200 ore.

Questo non è solo per il consolidamento delle nozioni che vengono fornite nelle altre ore (di 700 ore 200 ore sono di stage) ma è diretto anche a stabilire quel contatto col superamento di diffidenza reciproca fra l’imprenditore e il lavoratore, in modo tale da creare, già durante il corso la possibilità di quel contatto che poi genera l’occasione lavorativa, ma bisogna capire che se è vero che è necessario che ci sia una sovvenzione e un riconoscimento di questa minore capacità lavorativa del detenuto, con questa ottica, con questa sovvenzione, il detenuto può essere visto come una risorsa. Non si capisce poi perché di colpo diventa un costo.

A me sta bene dire va a fare subito l’ingegnere, però attenzione, qui stiamo parlando di un problema sociale e il problema sociale non lo risolviamo semplicemente con un discorso economico. L’ex detenuto è un problema sociale così come lo è il detenuto. Se a un detenuto, finita la condizione di svantaggio non gli diamo poi la possibilità di rimanere all’esterno… allora non abbiamo fatto niente. Allora il detenuto è un costo o è una risorsa? Se un costo lo è sempre: se sta fuori, se sta dentro è comunque un costo. O se è una risorsa è inutile tenerlo dentro, meglio tenerlo fuori, però come una risorsa: come una persona.

Gianluca Borghi

 

Nei dati si legge come i centri per l’impiego siano generalmente assenti in queste dinamiche, io ribadisco quanto già detto estendendolo a quella che è la competenza della Regione per quanto riguarda l’ambito della formazione e del lavoro.

Abbiamo quest’ultimo anno di legislatura per tentare di fare anche di questo ambito, sicuramente uno dei più nascosti, dei meno appetibili rispetto alla comunicazione sociale, alla politica, ambito, terreno, non dico di sperimentazione, mi sembra che le cose possibili siano molto chiare… ma di intervento, di iniziativa magari anche rispetto a questa situazione paradigmatica che vede ancora più penalizzate le persone ristrette nelle carceri, rispetto a quanto forse qualche tempo fa accadeva vista la loro precaria condizione sociale all’interno e all’esterno del carcere, dicevo fare in modo che quell’integrazione che prima richiamavo fra politiche sociali e politiche formative del lavoro riesca ad utilizzare tutti gli strumenti nelle mani delle regioni a partire anche dai confronti nei Crt, a partire da quei momenti di concertazione delle politiche della formazione del lavoro che devono assumere queste priorità perché appunto anche su questo si riesca a dare uno stimolo alla iniziativa politica comunque degli enti locali… non vorrei che si uscisse da qui consegnando tutto sulle spalle della cooperazione sociale. Questo è un ambito di intervento che deve avere come punto di riferimento l’azione politica, da quella governativa a quella degli enti locali. Grazie per l’occasione che ci avete dato.

 

 

Precedente Home Su Successiva