La crisi del carcere...

 

La crisi del carcere e del diritto penale

di Ottavio Amodio (Presidente Tribunale di Sorveglianza di Potenza?

 

I tre classici principi sui quali si fonda la pena sono, in epoca contemporanea, entrati in fibrillazione con la crisi del carcere e del diritto penale.

 

Crisi del principio retributivo

 

Secondo questo principio reati di uguale gravità devono essere puniti con sanzioni altrettanto gravi: deve esserci, cioè, proporzione tra pena e gravità del reato. Il principio è stato messo in crisi dalla introduzione delle misure alternative alla detenzione: la modulazione della durata della pena non più solo sulla base della gravità del reato ma sulla base della condotta in carcere sposta i criteri di quantificazione dell’afflittività della pena. D’altra parte questo principio è da sempre inapplicato, attesa la grande varietà dei regimi carcerari e la diversa afflittività della pena a seconda dello "status" sociale del condannato

 

Crisi del principio preventivo

 

E’ stato sempre altamente controverso il fatto che la minaccia rappresentata dalla sanzione penale svolga una efficace opera di deterrenza verso i comportamenti illegali. Basti pensare all’elevato tasso di recidività all’interno dell’area di soggetti che hanno sperimentato gli effetti afflittivi conseguenti alla violazione della legge. Sul piano della prevenzione generale non si può trascurare, poi, il fatto che molto spesso nelle realtà in cui si adottano inasprimenti di pena si registrano tendenze all’incremento della criminalità e di aggravamento delle sue manifestazioni. D’altra parte sono evidenti gli effetti destabilizzanti della crescita della popolazione detenuta, possibile fonte di conflitti e tensioni, nonché condizione ottimale per il radicarsi e il diffondersi di futuri comportamenti devianti.

 

Crisi della funzione rieducativa

 

Questo appare l’aspetto più significativo della crisi della pena in quanto intacca la sua immagine più progressiva ed avanzata. Da un lato lo stato di sovraffollamento del carcere rende ingestibile la disparità tra risorse disponibili, attività trattamentali e numero di utenti. D’altro lato il tipo di composizione che caratterizza oggi la popolazione detenuta dimostra lo scarso fondamento che oggi rappresenta l’idea di rieducazione.

 

E, infatti, possono verificarsi due situazioni: soggetti alla prima esperienza per i quali il comportamento illegale ha carattere occasionale e che, quindi, non richiedono interventi rieducativi in senso pieno. Per questi, al contrario, l’esperienza carceraria può rappresentare causa di rottura traumatica dell’equilibrio esistenziale: perciò il carcere, lungi dal rieducare, tende a radicalizzare le tendenze criminogene . Medesime considerazioni valgono per i condannati a brevi pene. Nella letteratura criminologica italiana e straniera è dato ampio spazio alla istituzione carceraria e particolari sono i riferimenti agli effetti deleteri, di deprivazione, di desocializzazzione connessi con la privazione della libertà, specie di breve durata , soprattutto quando è imposta a soggetti dalla ridotta capacità criminale. Gli studi di criminologia hanno documentato l’influenza negativa della detenzione sullo stato psichico del soggetto "normale" e hanno sottolineato che il carcere costituisce un importante fattore di insorgenza della recidiva, attesa anche la mancanza o la carenza dell’azione rieducativa e risocializzante.

Per soggetti condannati a pene brevi conseguenti crimini lievi, l’esperienza carceraria non è un efficace deterrente ma, al contrario, può rappresentare una concentrazione di stimoli che favoriscono lo sviluppo di interessi criminali; la pena detentiva breve finisce con il conservare solo il carattere di afflittività non potendo i soggetti che la subiscono partecipare ad alcuno dei programmi di trattamento per riacquistare capacità relazionali anche minime e ciò specie quando la condanna viene eseguita a notevole distanza di tempo dalla commissione del fatto - reato, per la lentezza e le disfunzioni della giustizia. Senza tralasciare, poi, dal punto di vista della prevenzione generale la svalutazione della efficacia intimidatrice che il carcere finisce per subire se utilizzato anche per ipotesi di lieve entità.

Al più il breve passaggio in carcere realizza solo una delle funzioni della pena, quella di intimidazione- ammonimento, non realizzando né la funzione risocializzativa né quella della neutralizzazione. Se, poi, pensiamo a soggetti dediti ad attività delinquenziali elette a sistema di vita o a soggetti affiliati ad organizzazioni criminali deve concludersi che per i primi un episodio detentivo in più o in meno non fa alcuna differenza e per i secondi è almeno estremamente difficile un cambiamento di atteggiamento, trattandosi di una scelta di criminalità volontaria e motivata.

Altro problema è quello dei tossicodipendenti: per questi lo stesso legislatore ha sostituito l’intervento terapeutico alla esperienza detentiva; il carcere non può costituire un valido strumento per la disintossicazione né un mezzo efficace per ricostruire in modo adeguato il sistema di relazioni. Ultimo problema riguarda gli immigrati: la stessa legge ne prevede l’espulsione e incentiva la scelta del ritorno in patria ciò a testimoniare quanto la detenzione degli immigrati non venga concepita in chiave rieducativa.

Di fronte ad una crisi così evidente dei principi fondativi della funzione della pena si deve entrare nell’ordine di idea che il problema delle devianze si può gestire in altro modo cercando di chiudere, per quanto possibile, le vie di accesso al carcere. A questo risultato ci si può avvicinare in vari modi.

ridimensionando drasticamente la materia oggetto di tutela penale e procedendo ad ampie forme di depenalizzazione.

limitando la durata delle pene entro limiti massimi tali da non pregiudicare un adeguato reinserimento sociale del reo.

introdurre una vasta gamma di misure alternative e sostitutive alla detenzione applicabili in sede di patteggiamento o di giudizio di merito: la pena detentiva dovrebbe avere il ruolo residuale di "extrema ratio"

sviluppare esperienze di privatizzazione del conflitto che, evitando al reo l’esperienza del carcere, tutelino sostanzialmente gli interessi della vittima.

Si tratta in conclusione di approfondire l’idea che la questione della devianza e del carcere è una questione di cultura, di mentalità: il problema è innanzitutto sociale. Ci si sta muovendo in questa direzione: il progetto di "riforma Grosso", le politiche di nuova prevenzione e sicurezza; attivazione da molte amministrazioni locali di centri e di esperienze pilota in materia di mediazione penale e sociale che si vanno diffondendo.

Al di la di questi tentativi, resta una considerazione: il carcere è in crisi di efficacia e viene usato in maniera massiva ed afflittiva, rischiando di legittimarsi come semplice vendetta sociale. In questo quadro si delinea come irrinunciabile la necessità di sperimentare nuovi metodi e misure di risposta al fenomeno criminale, come forma di progressivo ridimensionamento dello strumento penale. Il carcere dovrebbe essere riservato a condotte particolarmente allarmanti e pericolose per la società.

 

 

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