La parola nella mediazione penale

 

La parola nella mediazione penale

di Federica Brunelli

 

Dignitas, novembre 2003

 

"La parola non detta lascia in aria il vuoto; è difetto di vita, non fa nessun nodo. Non c’è realtà senza parole: hanno battezzato la pietra, le donne più dolci, il mattino e la sera. La parola dà un viso anche a chi non l’ha, fa nascere il fiordaliso, appena fa estate. Il silenzio che tace è solo un deserto; senz’albero, ne case, solo di morte esperto". Biagio Marin (1968)

Il poeta parla senza volerlo del senso della mediazione. La mediazione lavora sulle esperienze di ingiustizia e accoglie il dolore che ne deriva, creando un tempo per la parola. È uno spazio dialogico nel quale ricostituire, insieme con l’altro, la dignità e il proprio nome, trasformando la solitudine, il vuoto, l’esperienza di separazione a cui il conflitto riconduce.

La mediazione dà la parola e permette il passaggio dalla parola che umilia alla parola che riconosce. La parola non detta lascia in aria il vuoto; è difetto di vita, non fa nessun nodo. Da un punto di vista teorico, la mediazione rappresenta lo strumento privilegiato della giustizia riparativa, vale a dire un paradigma di giustizia che pone al centro dell’interesse la cura delle conseguenze generate dalla commissione di un fatto - reato, promuovendo l’uso di strumenti che coinvolgono "attivamente" vittima, autore del reato e comunità nella ricerca di possibili soluzioni per riparare il danno e per ricucire la frattura sociale che si è prodotta con la commissione del fatto.

Proprio questo paradigma propone di riconoscere che il reato è qualcosa di più di un’offesa contro lo Stato e di una violazione di una norma del codice penale, è innanzitutto un’esperienza di ingiustizia che rompe profondamente la relazione con l’altro e più in generale frattura un patto di cittadinanza, il patto che lega implicitamente coloro che abitano una comunità nella reciproca attesa di rispetto, fiducia, riconoscimento, pacifica convivenza.

Come ha osservato Adolfo Ceretti ci sono comportamenti che violano profondamente la dignità di una persona, la sua esigenza di essere onorata, apprezzata, rispettata, in una parola riconosciuta. Il tradimento di ciò che "mi aspetto di ricevere dagli altri", vale a dire, l’aspettativa di "essere chiamati da altri con il proprio nome e di essere guardati nel modo atteso" rappresenta un’esperienza esistenziale molto complicata che merita di non essere vissuta in silenzio.

"Lo spirito delle pratiche di mediazione va, infatti, individuato nel fatto che a ogni gesto afasico, a ogni atto che provoca in altri sofferenza, dolore, può fare da contrappunto un luogo in cui tale dolore può essere detto e ascoltato".

Il modo in cui la mediazione lavora per la ricucitura del patto di cittadinanza, per ristabilire la comunanza infranta, consiste nel creare un luogo per la narrazione, per l’ascolto, per l’incontro di parole. È la dimensione necessaria per riallacciare il nodo. Non c’è realtà senza parole: hanno battezzato la pietra, le donne più dolci, il mattino e la sera.

Come è stato osservato: "la potenza della parola è ambigua e per propria natura ambivalente. Le parole rivelano, svelano, scoprono, squarciano, smascherano; ma allo stesso tempo simulano e dissimulano, occultano, mascherano, velano.

La realtà è sempre una e molteplice proprio perché essa non esiste in sé e per sé, ma esiste soltanto in quanto soggettivamente vissuta e raccontata; e raccontare la realtà equivale a poco meno che costruirla". Abbiamo detto come la mediazione sia l’incontro di due persone che confliggono; nella nostra esperienza i confliggenti portano i nomi che la legge assegna quando viene commesso un reato. vittima e reo. L’incontro fra vittima e reo permette di ricostruire in modo condiviso ciò che è accaduto, permette di raccontare e di raccontarsi alla ricerca di una comprensione della realtà e soprattutto di un mutuo riconoscimento di ciò che ciascuno ha vissuto. È la realtà soggettivamente vissuta e raccontata ad essere al centro dell’interesse.

La realtà in mediazione è tutt’uno con il racconto, nasce dall’incontro delle parole dei confliggenti, e prima ancora dall’opportunità individuale di narrare e raccontare. Prima dell’incontro di mediazione vero e proprio infatti - le parti sono ascoltate individualmente, in colloqui preliminari ove sia la vittima che il reo possono avere uno spazio tutto per se per raccontare la stona.

Narrare un’esperienza di reato ad un mediatore significa accedere ad uno spazio protetto e libero, nel quale poter seguire il proprio filo del racconto, avere il tempo di evocare gli episodi più lontani nel tempo e quelli più vicini, interrogare i ricordi senza forzature e soprattutto raccontare quanto soggettivamente è stato vissuto e scegliere quali sono soggettivamente gli aspetti importanti toccati e lesi nella vicenda.

A ben vedere, si tratta di un’esperienza molto diversa rispetto alla narrazione che si svolge davanti ad un giudice, ove raccontare significa organizzare un’esatta messa a fuoco degli avvenimenti, rispettare un ordine temporale, una logica consequenziale, significa ricordare ed evocare solo quegli aspetti del fatto che risultano fondamentali per stabilire i termini oggettivi della ragione e del torto. Questa differenza non deve sorprendere in quanto mediazione e processo rappresentano due modalità distinte di intervento nei conflitti e per questo parlano due linguaggi differenti.

Eligio Resta - in un suo recente saggio - ha messo ben in evidenza il fatto che la parola del giudice e quella del mediatore hanno funzioni specifiche. Il linguaggio del giudice come egli spiega - "è quello di chi deve decidere quando il conflitto non può essere sanato; il giudice dice il diritto, decide e dice l’ultima parola sulla base della legge e le sue parole legano più delle altre", perché ristabiliscono il giusto posto di ciascuno nella società (come era la funzione della themis per i Greci), "rimettono al suo posto qualcosa che è uscita dai cardini".

Il linguaggio del mediatore invece è quello del non-giudizio ma dell’accoglienza; si tratta di un linguaggio che nasce dal situarsi tra i confliggenti. dallo stare in mezzo e insieme con loro; prima di ogni intervento in qualità di facilitatore della comunicazione il compito del mediatore è quello di accogliere la parola dei protagonisti della lite, accettando di ascoltare il loro linguaggio.

Il mediatore è colui che accoglie sia la parola che vela sia quella che svela e sa situarsi all’interno dell’ambiguità del linguaggio con lo stesso coraggio con il quale accetta di lavorare con le parti nel disordine, nel caos, nel nonsenso del conflitto che esse vivono ed esprimono.

Il linguaggio del mediatore è quello del "potrebbe essere diversamente", che ricorda il principio di etica minima proposto dal filosofo Josep Ramoneda del "tutto avrebbe potuto andare altrimenti". Un linguaggio in cui la possibilità di comunicazione è attesa dagli attori del conflitto, chiamati appunto ad individuarla. La parola del mediatore dice ancora Resta è quella "dell’accoglienza, della carezza, dell’accompagnamento" e potremmo forse aggiungere quella dell’ospitalità nel senso proposto da George Pavlich.

Secondo il sociologo, l’ospitalità implica un benvenuto sulla soglia di casa, sulla soglia del luogo dove viene ricevuto l’ospite, e questo benvenuto è diretto verso lo straniero, il forestiero, colui che non si conosce. In quest’atteggiamento di apertura di colui che ospita si potrebbe scorgere implicitamente l’idea che l’ospitalità renda sempre possibile immaginare e negoziare vari modi di stare con gli altri.

In qualche modo, secondo Pavlich la parola del mediatore ospita le parti che confliggono; con il suo benvenuto egli offre una situazione e una forma per essere ospitati, uno spazio in cui ciascuno potrà acquistare forma incontrando l’altro; il mediatore descrive agli ospiti che genere di ospitalità ci si può aspettare facendo mediazione, ma rimane disponibile a vivere questa esperienza insieme con loro, accogliendo di volta in volta le particolari istanze di ospitalità che i soggetti porteranno e negoziando insieme con loro un modo per stare insieme.

Questo significa che l’etica del mediatore lo conduce ad un atteggiamento di apertura verso tutte le specifiche domande di giustizia e le specifiche immagini soggettive del giusto, facendo in modo che attraverso la narrazione e in modo dialogico possa essere ricostruito un senso di giustizia condiviso.

Il mediatore in quest’importante esperienza narrativa, che è la mediazione, ricerca insieme con le parti - forme di riparazione simbolica, prima ancora che materiale, che rendano evidente il fatto che la domanda individuale di giustizia espressa da ciascun confliggente durante l’incontro è stata ascoltata, accolta, compresa, presa in conto. Se i conflitti nascono dal modo in cui noi stiamo con gli altri, nella mediazione si può pensare a nuovi modi di convivenza con gli altri, e ad una promessa di giustizia che le parti possono vicendevolmente scambiarsi come base per i loro incontri futuri. Da quanto abbiamo detto, comprendiamo come la dimensione narrativa che la mediazione offre possa essere molto importante sia per le vittime sia per gli autori di reato.

È stato già osservato che i sistemi di giustizia che caratterizzano le società occidentali hanno privato le vittime della parola, lasciandole paradossalmente ai margini della scena processuale, nonostante - proprio attraverso il processo penale si attui la tutela e la presa in carico di tutte le ragioni della vittima.

Sappiamo che il processo si è sempre occupato prevalentemente dell’autore del fatto e che durante i processi sono molto ridotte le occasioni nelle quali chi ha subito un’ingiustizia può raccontare fino in fondo l’impatto che il reato ha prodotto nella sua vita. Le pratiche di mediazione riconoscono alla vittima un ruolo più attivo, offrendole in primo luogo uno spazio in cui essere accolta e raccontare "tutto ciò che le è capitato", soprattutto poter parlare della rabbia, della paura, dell’odio, del desiderio di vendetta, dell’insicurezza, dell’angoscia, dei sentimenti del conflitto e trovare uno spazio di ascolto competente. Nell’incontro con "chi le ha fatto del male" la vittima può porre delle domande spesso di vitale importanza (perché proprio a me? Mi hanno scelta? Conoscevano le mie abitudini? C’era qualche ragione di risentimento? Oppure ero una vittima casuale?), può cominciare a prendere la parola di fronte all’altro per affermare ciò che ogni vittima chiede che venga riconosciuto, vale a dire che "ciò che è accaduto non doveva accadere" e "ciò che accaduto non dovrà mai più accadere".

Il diritto, attraverso i suoi strumenti, fra cui le sanzioni penali, sancisce in modo assoluto e definitivo queste domande; la mediazione che opera all’insegna del diritto - chiama due soggetti a diventare responsabili di queste istanze l’uno verso l’altro. L’autore di reato, che nella dimensione narrativa della mediazione trova a sua volta uno spazio di espressione individuale per essere ascoltato e per raccontare le conseguenze che il fatto ha prodotto nella sua vita, attraverso l’incontro con la vittima può proporre di riparare il patto che è stato violato, rendendosi concretamente disponibile a compiere un gesto che possa significare tale volontà e tale disponibilità. La responsabilità che si costruisce in mediazione è una responsabilità verso l’altro.

La parola dà un viso anche a chi non l’ha, fa nascere il fiordaliso, appena fa estate. Ma che cosa accade durante la mediazione, quando vittima e reo si trovano faccia a faccia? Quale valore esprime questo incontro? Quale parola è possibile fra le parti?

Potremmo cercare di rispondere dicendo che la mediazione propone una ricerca di umanità. In un articolo apparso di recente un’esponente del movimento Peace Now riflettendo sul conflitto arabo - israeliano, nel quale è a maggior ragione direttamente coinvolta in quanto ebrea, dice "la nostra salvezza reciproca sta nell’abbracciare la nostra reciproca umanità". In mediazione è proprio l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare, si è interessati prima di ogni cosa a quest’umanità. L’obiettivo della mediazione fra vittima e autore di reato è di far riemergere l’umanità delle persone, quando questa è stata umiliata dal crimine non solo patito ma anche commesso.

Nel nominare la ricerca di umanità potremmo richiamare il concetto "al cuore dell’idea di giustizia", proposta dalla Commissione Sudafricana per la Verità e la Riconciliazione, il concetto per cui "una persona è tale attraverso altre persone". La mediazione esprime lo spirito dell’ubuntu proprio attraverso la sua stessa struttura, la sua stessa ragione d’essere, vale a dire il fatto che essa rappresenta innanzitutto l’occasione per due confliggenti di narrare l’uno all’altro, di porre il me di fronte al tu.

Se è in una dimensione dialogica che è avvenuto il rifiuto di riconoscimento e la negazione dell’umanità dell’altro (con un gesto, una parola, uno sguardo), è attraverso una dimensione dia logica che questa umanità può essere recuperata. Come dice il poeta la parola dà un volto a chi non l’ha. La mediazione permette di vedere il volto dell’altro nei termini non solo di visione ma di ascolto e di parola. In qualche modo, il reato nasce laddove ignoro il volto dell’altro, quando evito sguardo altrui: per molti autori di reato che incontriamo in mediazione, la vittima non aveva e non ha un volto ("non mi ricordo che faccia ha") e per la vittima l’insopportabile spesso si lega proprio al fatto di essere stata di volta in volta semplicemente una borsa, un portafoglio, una somma di denaro ma non una persona.

Il senso della mediazione sta in primo luogo nell’essere una relazione interumana, ove non è più possibile negare l’altro perché l’altro c’è. L’originalità dell’incontro con il volto dell’altro precede ciò che l’incontro potrà concretamente produrre.

Come insegna Levinas "il volto ha un senso non per le sue relazioni ma a partire da se stesso L’espressione non ci dà la conoscenza d’altri, non parla di qualcuno ma è un invito a parlare a qualcuno, fa sì che l’altro divenga interlocutore". Per il filosofo l’esperienza dell’incontro col volto dell’altro è fondamentale per l’essere umano, "incontrare il volto dell’altro significa risvegliarsi all’altro, significa il risveglio dell’umano perché il volto dell’altro è il luogo originale del sensato che fa irruzione nell’ordine fenomenico dell’apparire. Il volto è immediatamente significante al di là delle forme plastiche che continuamente lo nascondono come una maschera, nella percezione.

Senza posa egli infrange queste forme. Prima di ogni espressione particolare, è nudità dell’espressione come tale, senza difesa, la vulnerabilità di fronte alla morte, perché esprime senza maschera la sua mortalità. E l’appello è di non restare indifferente a questa morte, di rispondere della vita dell’altro.

La nudità del volto dell’altro mi guarda prima ancora del suo confronto con me. Il volto dell’altro mi convoca, mi domanda, mi reclama dal fondo della sua nudità indifesa, della sua miseria e della sua mortalità. Il volto altrui esprime un’esigenza etica infinita, dissimulata dal suo apparire". L’esperienza descritta dal filosofo crea un imperativo morale di responsabilità verso gli altri ed è un’esperienza diretta quanto un’intuizione. La mediazione riprende l’importanza di tale esperienza creando l’occasione per recuperare proprio tale intuizione, il risveglio dell’umano, l’incontro di due volti al di là dei ruoli.

Quale che sia la funzione del discorso che le parti faranno fra di loro, qualsiasi il suo contributo alla ricerca della verità, la comunicazione e lo spazio alla parola che la mediazione offre dicono già di per sé l’accoglienza di un interlocutore, un rapporto di reciproca presenza, al di là di ogni rappresentazione, di ogni riduzione concettuale, è un rapporto faccia a faccia, diretto, di inter-corporeità. Il dire con un altro ha un valore in sé, indipendentemente da ciò che verrà detto, è contatto, presenza, è un rapporto di pace antecedente ad ogni opposizione e ad ogni pacificazione.

Ciò che la mediazione cerca di fare è di prevedere una condizione nella quale il parlare con l’altro possa fondarsi sul riconoscimento del suo volto, come condizione indispensabile per una parola piena di senso; sappiamo che quando c’è un conflitto è molto difficile parlare per essere intesi, la parola dell’altro non può essere ascoltata, perde significato perché proviene da un nemico che deve essere distrutto. Il mediatore lavora per rendere sempre più tangibile il riconoscimento del volto dell’altro, affinché le parti possano cominciare davvero a dialogare.

Ancora una volta siamo di fronte ad una prospettiva diversa rispetto a quella offerta dal diritto. È lo stesso Levinas ad osservare che nel giudizio è pur vero che il giudice parla all’accusato e l’accusato ha diritto di parola, eppure giudice e accusato "non stanno ancora parlando". Nel processo, infatti, si ascolta parlare l’accusato nel senso che "lo si guarda parlare" in quanto accusato, con un nome e un ruolo ben precisi.

Nella mediazione si prova a parlare davvero con l’altro facendolo diventare interlocutore: "solo quando potrò vedere il suo volto e credere in lui potrò davvero parlare con lui". Nei termini proposti dal filosofo, si può riprendere il concetto di responsabilità e chiarire che la responsabilità verso il volto dell’altro non è una responsabilità speciale o tecnica ne determinata dai ruoli, dai contratti, dalle convenzioni, ma è una responsabilità illimitata, di non indifferenza rispetto al fatto di dover rispondere, in qualche modo, del diritto d’essere dell’altro.

 

Conoscere, giudicare

 

fare giustizia, confrontare due individui per stabilire chi è colpevole e chi innocente, chiede una generalizzazione tramite la logica e lo Stato. In questa situazione il rapporto con l’altro viene mediato dalle istituzioni e dalle procedure giuridiche e ciò generalizza la responsabilità di ciascuno. Lo stesso Levinas afferma che "l’opera dello Stato viene ad aggiungersi all’opera della responsabilità inter-personale, la quale spetta all’individuo nella sua unicità. Lo Stato dunque delimita in qualche modo la responsabilità personale nei confronti dell’altro pur garantendola con la generalizzazione della legge". Invece la mediazione lavora sulla responsabilità morale verso l’altro, si preoccupa per i diritti dell’uomo come un’istituzione non statale nello Stato, è il richiamo ad un’umanità ancora non compiuta nello Stato. Il silenzio che tace è solo un deserto; senz’albero, né case, solo di morte esperto. Nell’esperienza narrativa della mediazione s’incontra anche il silenzio. Di questa assenza di parole. che in tutti i tempi è stata oggetto di riflessioni filosofiche e poetiche come qualcosa di estremamente evocativo, possiamo cercare di dare almeno due letture che riguardano più direttamente ciò che accade nella mediazione.

 

Il silenzio come rinuncia a/la verità e a/la memoria

 

È forse questa la prima forma di silenzio che attraversiamo durante gli incontri fra vittima e autore del reato. Quando il mediatore chiede ad entrambi di provare a raccontare quanto è accaduto. ciascuno dal proprio punto di vista e senza interrompersi, ascolta spesso il silenzio.

Non è semplice, infatti, raccontare la storia, soprattutto se questa implica offesa e sofferenza. Spesso il silenzio dell’autore del fatto rivela l’impotenza, l’incapacità. la difficoltà, la vergogna di guardare in faccia le sofferenze causate agli altri, quello della vittima la fatica, il dolore, l’umiliazione, la vergogna di ripercorrere la vicenda.

La mediazione accoglie questo silenzio e il suo significato, offrendo al contempo la possibilità di ricordare insieme e ricostruire insieme una memoria di quanto accaduto. La memoria rappresenta il fondamento di ogni identità che si basa sulla libera conoscenza di se e non sulla rimozione, e ciò che la mediazione cerca di fare è di costruire una memoria che non inchiodi al passato ma sia verità senza oblio, capace di guardare al futuro in quanto "la rinuncia alla dimenticanza può divenire lievito di saggezza operante nel tempo presente, e allora il dolore patito diventa una sorta di apprendistato".

Questo può accadere quando il mediatore riesce a lavorare con le parti per fare in modo che, attraverso l’incontro, esse possano giungere a narrare una storia nella quale la sofferenza e la responsabilità sono condivise e il desiderio di vendetta può essere convertito in desiderio di riparazione. Ma in mediazione il silenzio non consiste soltanto nel fatto che ad un certo punto l’uomo cessa di parlare. Il silenzio diviene qualcosa di più di una semplice rinunzia alla parola, forma l’uomo non meno della parola sebbene in misura diversa. Incontriamo anche il silenzio come tensione alla verità, come un fenomeno a sé che permette il riconoscimento più profondo fra le persone. Il mediatore crea uno spazio e un tempo perché le parti possano vivere senza timore né imbarazzo i momenti di silenzio che non rappresentano affatto la fuga da qualcosa ma concedono una "sosta al pensiero".

Sostare nel silenzio significa poter incontrare più profondamente le proprie emozioni senza la protezione delle parole, significa far parlare i sentimenti e i vissuti, significa incominciare ad ascoltare quanto l’altro sta dicendo, infine comprendere e scoprire. Qualcuno potrebbe chiamare questo silenzio "linguaggio dell’anima, quando l’io ruolo - quello del reo e della vittima lascia il posto all’io profondo quello della persona". Come ha osservato Max Picard, siamo abituati a vedere il silenzio come "una sacra inutilità" perché questo stato ci appare privo di qualsiasi scopo e sembra non aver nulla in comune con il nostro mondo che è il mondo dell’utile. Eppure dal silenzio può scaturire più soccorso e più consolazione di quanta derivi da ciò che è utile e questo perché quando c’è silenzio "l’uomo è guardato da esso, esso (il silenzio) guarda all’uomo più di quanto l’uomo guardi il silenzio; l’uomo non scruta il silenzio ma il silenzio scruta l’uomo".

In qualche modo nel silenzio i confliggenti possono avere il tempo per guardarsi, per guardare l’altro, per lasciarsi guardare. E in questa sosta la tensione alla verità, nell’abitare un silenzio che accoglie e che riconosce. In questa prospettiva trova posto ciò che qualcuno ha scritto sul silenzio come unico linguaggio in grado di rappresentare davvero l’unicità dell’individuo: "il pensiero che si sofferma radicalmente sulle peculiarità di ciò che è unico, su ciò che costituisce l’unicità dell’individuale, approda al silenzio". Non è un silenzio che tace ma un silenzio che parla.

 

 

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