Modifiche a Ordinamento Penitenziario

 

Parte prima: relazione alle modifiche sul Titolo I°

 

Indicazioni generali

 

1. La ragione di fondo delle modifiche che seguono consiste nel dare garanzia di riconoscimento agli interessati, e cioè ai detenuti e agli internati, del rispetto delle regole enunciate dalla legge penitenziaria. Tali regole sono, in sostanza, stabilite come obblighi nei confronti della amministrazione penitenziaria, ma toccano interessi essenziali delle persone accolte nelle strutture penitenziarie, interessi da considerare vitali per gli interessati e come tali da richiedere una garanzia diretta degli stessi nei confronti della istituzione che li accoglie e dalla quale dipendono le condizioni concrete e reali della loro vita quotidiana.

Buona parte di tali diritti trovano nella Costituzione il loro riconoscimento esplicito o implicito.

E’ esplicito il riconoscimento del diritto alla salute, alla istruzione, alla rieducazione-risocializzazione. Ma quando, nel comma 3 dell’art. 27 Cost., si stabilisce che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità" si richiede inevitabilmente che il regime di vita attuato negli istituti non realizzi alcun danno psicofisico sulle persone, negando loro, pur nella perdita della libertà di spostamento dall’ambito dell’istituto di detenzione, la possibilità di movimento e di vita attiva in quell’ambito: dal che deriva che devono essere evitate le situazioni di sovraffollamento degli istituti (considerate come maltrattamenti nelle valutazioni del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti contrari al senso di umanità e degradanti del Consiglio d’Europa); che deve essere reso possibile che la vita quotidiana delle persone si sviluppi fra locali di pernottamento e locali comuni in cui svolgere le varie attività che impegnino la giornata; che tali locali devono rispondere a adeguati criteri igienici; che deve essere fornita una alimentazione adeguata e sufficiente e che, in genere, debbono essere realizzate condizioni di vita che possono evitare il danno da istituzionalizzazione, che colpisce coloro che sono costretti ad una vita inerte e coartata come quella dei detenuti e degli internati.

Il riconoscimento del diritto alla salute (art. 32 Cost.) richiede una nuova articolazione degli interventi che lo garantiscono. Anche il diritto alla istruzione (art. 34 Cost.) va riconosciuto e va reso praticabile attraverso la presenza negli istituti della rete organizzativa della istruzione pubblica. E’ anche essenziale il riconoscimento del diritto alla attività di rieducazione-risocializzazione: attraverso la concreta messa a disposizione degli elementi del trattamento (lavoro, istruzione, attività religiose, attività culturali, ricreative e sportive, rapporti con la famiglia) di cui all’art. 15 O.P., dando l’occasione agli interessati di impegnarsi nella utilizzazione di tali elementi. In questo quadro, si possono ricordare gli interventi sul regime retributivo del lavoro e sul problema della affettività nei rapporti con i familiari, entro il quale può trovare soluzione anche il problema della sessualità delle persone ristrette.

 

2. Merita soffermarsi sugli interventi normativi proposti per evitare il sovraffollamento degli istituti. Ciò che deve essere chiaro è che tali interventi non si devono realizzare con un incremento degli spazi della detenzione, cioè con la creazione di nuovi carceri. Mentre è pacifico che vadano abbandonati e sostituiti quei carceri, in numero modesto, che sono irrecuperabili e recuperati, invece, attraverso interventi adeguati alle regole, i carceri che sono recuperabili, deve essere chiaro che devono cessare i processi di ricarcerazione attualmente in atto.

Deve essere data concreta attuazione al principio che la pena detentiva e, quindi, il carcere devono essere l’ultima ratio, in particolare per l’area della detenzione sociale, di quella parte della popolazione detenuta, cioè, nella cui esperienza di vita è centrale un problema sociale, non affrontato affatto o non affrontato in modo adeguato. Negato con fermezza che il carcere possa essere, come viene affermato disinvoltamente, una discarica sociale e, quindi, il luogo di contenimento di persone per le quali sono mancate o sono fallite le soluzioni sociali, devono essere mobilitate e agite più efficacemente le risorse necessarie perché quelle soluzioni ci siano e abbiano maggiore successo. L’area della detenzione sociale (tossicodipendenti, immigrati, persone in altre situazioni di disagio sociale) è pari a circa i due terzi dei detenuti (si può calcolare nel 65%: 27% tossicodipendenti, 30% immigrati, 8% altre situazioni di disagio) e anche la sola riduzione di tale percentuale in misura significativa può invertire il processo di ricarcerazione.

Nella serie di interventi normativi che si propongono, che coprono gli aspetti fondamentali della politica penitenziaria, deve avere spazio un progetto che attivi un processo di scarcerazione significativa della detenzione sociale. E’ ovviamente un processo che si sviluppa con una adeguata progettazione sociale, che sostituisca gli interventi puramente securitari con interventi di miglioramento e bonifica delle situazioni sociali, realizzati sul piano collettivo e su quello individuale, misurati sugli specifici problemi sociali, che influiscono sul formarsi dell’area della detenzione sociale: di questo ci si interesserà essenzialmente nell’ultima parte di queste proposte, dedicata al reinserimento sociale dei condannati.

Non sono, quindi, le carceri che sono poche, ma sono i detenuti che sono troppi e non bisogna agire per aumentare i posti-detenuto, ma per trovare, anziché il carcere, luoghi sociali per affrontare i problemi del disagio sociale.

 

3. La Corte Costituzionale, con la sentenza 11/2/1999, n. 26, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 35 O.P. nella parte in cui non prevede una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale. La Corte, che ha fatto esplicito riferimento alla competenza del magistrato di sorveglianza in materia di reclami di cui al n. 2 dell’art. 35, ha chiarito che la tutela giurisdizionale in questione doveva essere definita con legge ordinaria, non potendo apparire estensibile senza legislazione ad hoc una delle procedure previste dinanzi alla magistratura di sorveglianza.

Si è così inserita una serie di disposizioni che attuano la garanzia giurisdizionale, in osservanza di quanto affermato dalla Corte Costituzionale.

Nello stesso tempo, la esplicitazione formale dei diritti, anche se non esaustiva, rappresenta una precondizione per il funzionamento, in situazioni di chiarezza e di effettività, della nuova procedura di garanzia. Si è detto che la elencazione dei diritti non è esaustiva. Da un lato, è vero che un approfondimento delle situazioni esistenti o l’emergere di nuove situazioni può imporre il riconoscimento di nuovi diritti o la constatazione di violazioni che non erano state poste precedentemente in evidenza. D’altro lato, vi è una articolazione e una ricaduta dei diritti, che comporta riconoscimenti di situazioni strettamente collegate agli stessi. E, infine, è della massima rilevanza che il riconoscimento dei diritti, per non essere pura astrazione, presupponga una organizzazione che ne possa consentire il rispetto: organizzazione indispensabile, ma non agevole in una istituzione con le caratteristiche del carcere, nel quale la negazione dei diritti o delle precondizioni organizzative e operative degli stessi può rispuntare ad ogni passo.

A questo riguardo, una materia quale quella del diritto alla rieducazione-risocializzazione potrà vedere sorgere situazioni di violazioni del riconoscimento dei diritti nei luoghi normativi più impensati. Ad esempio, per tale diritto, abbiamo analisi approfondite della Corte costituzionale in materia di misure alternative alla detenzione, ma anche in materia di applicazione di regimi differenziati come quello di cui all’art. 41bis, comma 2 e successivi.

 

4. Si ritiene utile dedicare una parte specifica di questa relazione all’inquadramento della parte del progetto relativa al riconoscimento del diritto alla salute e alla organizzazione della assistenza sanitaria in carcere. Merita tale approfondimento la delicata situazione giuridica attuale, che dovrebbe vedere il passaggio della c.d. sanità penitenziaria nel servizio sanitario nazionale e che è invece tuttora lontana (dopo 5 anni dalla legge) dal realizzarlo, nel mentre si riducono ai minimi termini le risorse riservate alla sanità penitenziaria dalla amministrazione centrale (tanto è che alcune regioni si sono assunte l’onere della spesa farmaceutica, che, cosa estremamente grave, non viene coperta che molto parzialmente dalla amministrazione penitenziaria).

Si chiarisce preliminarmente che le indicazioni normative proposte descrivono, per così dire, un progetto obbiettivo sulla attuazione del diritto alla salute e sulla organizzazione sanitaria negli istituti penitenziari, che possa essere utilizzato sia nel periodo in cui l’organizzazione sanitaria resti quella attuale, sia quando sarà realizzato il passaggio della stessa al Servizio sanitario nazionale.

Vale operare una ricognizione normativa di tale questione.

L’art. 11 O.P. prevede e regola il Servizio sanitario negli istituti. Tale norma, contenuta nel testo di legge dell’O.P. del 1975, precede di qualche anno la legge di riforma sanitaria, che è del 1978. Questa istituiva un sistema sanitario nazionale, articolato nei servizi operativi locali, valevole nei confronti di tutti, salvo rarissime eccezioni, fra le quali non era compreso il servizio sanitario penitenziario. Tale servizio avrebbe dovuto, quindi, confluire nel servizio sanitario nazionale, ma così non avvenne e, in particolare, le risorse economiche necessarie furono sempre lasciate nel bilancio del ministero della giustizia.

Le indicazioni dell’art. 11 citato sono abbastanza generiche sul sistema organizzativo, che si è venuto determinando negli anni, condizionato, prima, in una fase di evoluzione e, poi, in una fase di involuzione, dal volume delle risorse. La fase attuale sta toccando i minimi termini, caratterizzata da continui tagli percentuali delle risorse economiche, con drastici tagli della spesa farmaceutica, concernente anche farmaci essenziali quoad vitam.

La situazione normativa è ora notevolmente mutata. Nel cercare di precisarla, premettiamo la citazione dell’art. 32 della Costituzione, sul quale si fonda la nostra legislazione : "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti." Si rileva come l’accento della norma costituzionale è posto sul diritto alla salute, non sulle cure sanitarie per i malati. Deve essere, pertanto, tutelata una condizione degli individui che tenda a garantire condizioni di vita non patogene e, comunque, solo quando si manifestano situazioni patologiche, gli interventi necessari a curarle.

Cerchiamo, dunque, di individuare la situazione normativa attuale.

Mentre si parla usualmente del decreto legislativo 22/6/1999, n. 230, bisogna in effetti risalire alla legge delega 30/11/1998, n. 419, in esecuzione della quale il decreto legislativo citato è stato emesso. E’ infatti nella legge delega , che si trova la norma – art. 5 – in qualche modo responsabile della situazione di stallo attuale. In tale articolo si legge: "Il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi di riordino della medicina penitenziaria,con l’osservanza dei seguenti principi e criteri direttivi:

a) prevedere specifiche modalità per garantire il diritto alla salute delle persone detenute o internate mediante forme progressive di inserimento, con opportune sperimentazioni di modelli organizzativi anche eventualmente differenziati in relazione alle esigenze ed alle realtà del territorio, all’interno del Servizio sanitario nazionale, di personale e di strutture sanitarie dell’amministrazione penitenziaria (…)".

Segue la indicazione di altri principi e criteri, ma è quello riportato che ci interessa ed è in questa parte che si trova il nodo della questione che ha provocato lo stallo attuale.

Alla legge delega è seguito, dunque, il decreto legislativo 22/6/1999, n. 230, che regola la materia del passaggio della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale. Vi è, all’art. 1, la indicazione dettagliata del diritto alla salute e del significato e delle implicazioni dello stesso. All’art. 2 si enunciano i principi cui si devono attenere gli enti e organi coinvolti. All’art. 3, si chiariscono le competenze organizzative in materia sanitaria e, all’art. 4, quelle in materia di sicurezza. L’art. 5 definisce anche le linee del "Progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario." All’art. 6 sono date indicazioni operative sulla identificazione del personale e delle strutture da trasferire al Servizio sanitario nazionale e, all’art. 7, quelle per il trasferimento delle risorse finanziarie al Fondo sanitario nazionale.

E’ all’art. 8 – Trasferimento delle funzioni e fase sperimentale – che riemerge il problema sul quale si è sostanzialmente bloccato il passaggio. Dopo avere disposto il trasferimento al servizio sanitario nazionale delle "funzioni sanitarie svolte dalla amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell’assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti", il comma 2 di tale articolo dispone che, "con decreto del ministro della sanità e del ministro di grazia e giustizia…. sono individuate almeno tre regioni nelle quali avviare il graduale trasferimento, in forma sperimentale, delle restanti funzioni sanitarie": tutte le altre,cioè, diverse da quelle relative ai tossicodipendenti.

La sperimentazione è stata avviata, ma senza risultati concreti di effettiva modifica della situazione, che è rimasta eguale a quella preesistente, salvo nella parte relativa ai tossicodipendenti, nella quale, d’altronde, non si è fatto che ripetere l’attribuzione di competenza contenuta nell’art. 96, comma 3, del DPR 309/90. Come già rilevato, le risorse messe a disposizione del servizio sanitario da parte del dipartimento della amministrazione penitenziaria si riducono sempre di più e in misura rilevante, così che, in alcune regioni, la spesa farmaceutica è stata assunta dalle regioni stesse.

Ciò che viene naturale osservare è che le regole stabilite dal DPR 230/99 sembrano del tutto esaurienti per consentire il passaggio del servizio sanitario penitenziario a quello nazionale. La definizione dei modelli organizzativi è ricavabile dal progetto obiettivo di cui all’articolo 5, che, ad ogni buon conto, non sembra affatto rigido e consente quegli accomodamenti che la concreta esperienza consiglia. Certamente, il problema della previsione normativa della sperimentazione resta da risolvere.

Ma, per esaurire il contesto normativo, si deve riflettere su un’altra modifica legislativa intervenuta, ai sensi della Legge cost. 18/10/2001, n. 3: è quella dell’art. 117 Cost.. Per effetto del comma 3 la "tutela della salute" viene inserita fra "le materie di legislazione concorrente" fra Stato e Regioni. Alla fine del comma 3 si dispone che "nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che, per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato."

Ora si devono fare due osservazioni:

la prima è che, nella materia, i principi fondamentali sono stati chiariti in modo incontestabile, in prima battuta, dall’art. 5 della legge delega 419/98 e, in modo più articolato e dettagliato, dall’art. 1 del decreto legislativo 230/99, che enuncia il diritto alla salute di detenuti e internati e le varie implicazioni dello stesso. D’altronde, queste enunciazioni della legislazione statale si muovono nell’ambito dell’art. 32 della Cost. e del diritto alla tutela della salute degli individui riconosciuto in tale norma;

la seconda osservazione è che la sperimentazione è richiesta per la definizione dei modelli organizzativi, che non si possono certamente inserire fra i principi fondamentali, rientrando fra gli aspetti operativi, che dovrebbero ormai appartenere alla competenza delle Regioni.

E così, con proposta di legge regionale, approvata dalla Giunta e trasmessa al Consiglio regionale il 2/8/2004, la Regione Toscana è intervenuta per risolvere la situazione di stallo che si è determinata: è la stessa legge regionale a tracciare il percorso del passaggio del servizio sanitario penitenziario al servizio sanitario nazionale. Ovviamente è prevista e sollecitata, in questa fase, e non certo esclusa la collaborazione della Amministrazione penitenziaria.

Nel condividere tali conclusioni, deve essere consentito di rilevare che la costante caduta delle risorse messe a disposizione dalla Amministrazione penitenziaria, rende sempre più inadeguata la sanità penitenziaria e sempre più a rischio la tutela della salute delle persone in carcere, in violazione del diritto costituzionale, affermato dall’art. 32 Cost..

L’intervento normativo previsto nel progetto che segue si propone di adeguare la normativa esistente ai principi e alle nuove scelte organizzative della legislazione sopra ricostruita. Comunque, si è chiarito all’inizio che le modifiche normative proposte sono valide anche oggi e saranno valide domani quando si darà pieno seguito alle indicazioni normative sopra ricordate.

 

Indicazioni specifiche sulle singole modifiche

 

Modifiche al Capo I°

 

Le modifiche all’art. 1, oltre a riguardare l’esplicito riconoscimento di diritti, chiariscono anche il ruolo del mantenimento dell’ordine e della disciplina, strumento finalizzato e subordinato alla realizzazione di un sistema che garantisca l’accesso dei detenuti e internati agli elementi del trattamento, indispensabili per l’accesso ai percorsi riabilitativi. Su questo punto si è anche introdotta la indicazione che le attività di controllo e presenza ai fini del controllo non devono investire in modo totale ogni aspetto della quotidianità delle persone ristrette, che devono, invece, contare anche sui responsabili delle singole attività trattamentali svolte.

L’art. 4bis è spostato nella parte concernente le misure alternative alla detenzione, delle quali, d’altronde, esclusivamente si interessa. Invece, l’attuale collocazione nei principi direttivi, si presta ad una lettura di tale norma in termini di tipizzazione dei condannati per taluni delitti, aspetto su cui si leggono ripetute riserve nella giurisprudenza della Corte Costituzionale: v. in particolare, la sentenza 306/93 (n. 11 della motivazione in diritto).

 

Modifiche al capo II°

 

Le modifiche degli articoli da 5 a 10 è operata nel quadro dei concetti esposti nelle indicazioni generali.

Il regime di vita attuale della grande maggioranza dei detenuti, che comporta la loro permanenza in cella per 20 ore al giorno, in condizioni di inerzia, è contro ogni regola di salute ed igiene e contro le esplicite previsioni della legge, anche nel suo testo attuale. Le modifiche apportate precisano ed articolano le regole diverse, sottraendole alla possibilità di una realtà diversa e contraria, che prevaleva.

Sulla base di esperienze largamente diffuse in sistemi penitenziari stranieri e per semplificare l’acquisto a proprie spese di generi alimentari e di conforto (fonte di notevoli complicazioni burocratiche) indicati nell’art. 9, comma 7, si è prevista la utilizzazione di distributori automatici, utilizzabili con schede prepagate.

Le modifiche dell’art. 11 e di vari subordinati allo stesso sono nel senso di quanto già detto al n. 4 della lettera A. Le modifiche attribuiscono al servizio sanitario operante all’interno degli istituti la attività di prevenzione delle situazioni contrarie alla salute e all’igiene, cui fanno riferimento anche le modifiche degli articoli precedenti. Tutte le modifiche, quindi, si tengono, nel rispetto del fine di creare condizioni di vivibilità in carcere, che sono doverose e che oggi mancano.

 

Modifiche al Capo III°

 

Si torna ancora alle indicazioni generali della parte iniziale.

In questo quadro, si parte dal riconoscimento come diritto della osservazione e della attuazione e realizzazione del programma di trattamento, ovviamente in presenza della disponibilità della persona interessata a collaborare in tutto questo (art. 13) .

Vi sono, poi, dopo il riconoscimento dei diritti connessi all’accesso ai singoli elementi del trattamento (art. 15), alcune previsioni modificative della normativa sugli stessi. In tal senso vanno colte le modifiche relative all’accesso ai colloqui, alla istruzione e al lavoro (artt. 18, 19 e 22-23).

Rispetto a quest’ultimo, vi sono modifiche che garantiscono la correttezza del rapporto di lavoro attivato in carcere, anche negli aspetti formali, sostituendo alle espressioni mercede e remunerazione, tipiche del vecchio lavoro carcerario, quella propria di retribuzione. Sono date regole per un aggiornamento costante delle retribuzioni, attualmente ferme a molti anni fa ed assolutamente inadeguate. Sono state modificate anche le norme relative alla quota di retribuzione che deve restare nella disponibilità del condannato, con tendenziale equiparazione ai lavoratori liberi.

Sempre nell’ambito della disciplina del lavoro, si è indicato anche il diritto, per il detenuto lavoratore, ad un periodo feriale in attuazione della sentenza costituzionale n.158/2001, che ha dichiarato " l’illegittimità costituzionale dell’art. 20, sedicesimo comma, della legge 26/7/1975, 354….nella parte in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione carceraria". Sono state, di conseguenza, apportate modifiche e all’art. 20 e all’art. 22 O.P..

Una modifica anche per la norma che riguarda la "Religione e pratiche di culto" (art. 26),che fa particolare riferimento a quelle religioni, che non hanno ministri di culto, come quella musulmana.

Una modifica rilevante è quella che riguarda i rapporti con la famiglia (art. 28) e che consente un rispetto reale dei rapporti affettivi in carcere, risolvendo, in questo quadro, anche il problema dei rapporti sessuali dei detenuti ed internati. In proposito è già pendente la proposta parlamentare n. 3020 della Camera, primo firmatario Boato, presentata il 12/7/2002. Connessa a tale proposta è anche la modifica dell’art. 30, che risolve una antica questione sulle ragioni che possono consentire il ricorso ai permessi per motivi familiari: si sostituisce la espressione "particolare gravità" con quella di "particolare rilevanza", consentendo, quindi, i permessi non solo in occasione di eventi negativi e luttuosi, ma anche di eventi positivi e lieti (come la nascita di un figlio o la celebrazione del matrimonio).

Si è intervenuti anche sull’art. 30bis: ai commi 3 e 6, con una mera modifica formale (si dà atto che la sezione di sorveglianza è stata denominata tribunale di sorveglianza); al comma 4, con un nuovo testo, che prende atto di una specifica sentenza costituzionale, la n. 53/1993, che giurisdizionalizza la procedura del reclamo al tribunale di sorveglianza contro i provvedimenti in materia di permessi del magistrato di sorveglianza.

Va ricordata anche una modifica lessicale dell’art. 30ter, comma 1. La espressione ivi usata nel testo attuale, riferita alle persone che possono accedere ai permessi premio, indicate come "non socialmente pericolosi" è sostituita da quella "di attuale e particolare pericolosità". La modifica affronta un duplice problema: il primo è quello della "attualità" della pericolosità, richiesta ormai da tutte le normative sulla pericolosità, sia quella specifica relativa alle misure di sicurezza, sia quella concernente situazioni similari, come quelle previste dall’attuale art. 4bis. Inoltre, un nuovo e ultimo comma dell’art. 30ter, rappresenta una ulteriore modifica già contenuta nella proposta di legge 3020, primo firmatario Boato, richiamata qui sopra.

 

Modifiche al capo IV°

 

Una prima modifica riguarda l’art. 32, comma 3, nel quale si prevede la possibilità che un detenuto o un internato, che ne abbia la capacità, possa collaborare alla definizione ed attuazione di programmi di formazione e lavoro. L’attuale testo del comma 3 contiene una prescrizione negativa, che non viene contraddetta dalla modifica apportata. Questa, invece, prevede positivamente una possibilità, che resta di sola "collaborazione" all’operare di altri responsabili dei corsi di formazione o delle attività lavorative.

Altra modifica riguarda il n. 3 dell’art. 33, relativo all’isolamento giudiziario, per il quale non sono previsti, e vengono invece introdotti, limiti di durata per garantire il rispetto del diritto di difendersi dell’imputato detenuto. Il protrarsi dell’isolamento, nel testo normativo attuale, "fino a quando ciò sia ritenuto necessario dall’autorità giudiziaria", configura la possibilità di violare la libertà di determinarsi dell’imputato nelle proprie dichiarazioni.

Va anche inserita una modifica dell’art. 34, in relazione alla sentenza costituzionale n. 526/2000 e alla motivazione della stessa, che, pur non rilevando incostituzionalità della norma, ha sottolineato la esigenza di "una forma di documentazione dell’avvenuta perquisizione".

La modifica dell’art. 35 è attuazione della sentenza costituzionale n.26 dell’11/2/1999, di cui già si è detto al n. 3 della lettera A di questa relazione. Va aggiunta qualche precisazione sulle soluzioni proposte nell’articolato.

Un primo chiarimento riguarda la mancata previsione di un termine per il reclamo. Due sono le ragioni di tale scelta: la prima è che l’art. 35, per i reclami ivi previsti, non prevede alcun termine per la proposizione degli stessi. La seconda è che, in molti casi, la spinta al reclamo è data da situazioni di cui è difficile precisare una data esatta o dal protrarsi o dal ripetersi di condotte contro le quali si reclama.

Un secondo chiarimento (comma 5) riguarda il potere del magistrato di sorveglianza di rilevare le "situazioni di gestione degli istituti che condizionano il provvedimento reclamato, specificando tali condizionamenti ed individuando a chi siano addebitabili". Pensiamo alla mancanza di lavoro o alla mancanza di interventi sanitari, che possono derivare o deriveranno prevalentemente dalla mancanza di risorse economiche, messe a disposizione dalla amministrazione centrale.

Terzo ed esplicito chiarimento riguarda la affermazione del carattere vincolante, per la amministrazione, del provvedimento che decide sul reclamo. Si può ricordare la questione della vincolatività o meno degli ordini di servizio del magistrato di sorveglianza nei confronti della amministrazione penitenziaria, che caratterizzò i primi anni di applicazione della legge penitenziaria. Su questa questione sono già intervenute le modifiche dell’art. 69, comma 6, portate dalla L. 10/10/1986, n. 663, ma è bene ribadire il concetto.

Infine, si chiarisce che resta distinta e separata la disciplina dell’art. 69, comma 6, ora ricordata.

 

 

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