Cassazione n° 27853

 

Detenzione domiciliare va negata al condannato immeritevole

Cassazione, sez. I penale, sentenza 13.07.2006 n° 27853 (Carlo Alberto Zaina)

 

Il Supremo Collegio affronta con la sentenza in esame una duplicità di interessanti tematiche concernenti l’istituto della detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter L. 26 Luglio 1975 n. 3541, non direttamente consequenziali, però, all’entrata in vigore della mai sufficientemente vituperata L. 251/05.

Sotto un profilo rigorosamente schematico, esse possono venir individuate:

1. nell’affermazione del principio di discrezionalità della decisione che il giudice della fase di sorveglianza è chiamato ad emettere, in relazione alla misura della detenzione domiciliare, chiunque sia il soggetto istante per tale beneficio e qualunque età questi abbia (quindi anche se ultrasettantenne),

2. nel riconoscimento che il consequenziale carattere di limitata e condizionata residualità del beneficio della detenzione domiciliare, rispetto ad altri diversi (ad esempio affidamento al servizio sociale), nella gerarchia delle misure alternative alla detenzione, previste dall’ordinamento penitenziario, non legittima, peraltro, l’adozione del beneficio in favore del condannato che risulti immeritevole dello stesso ai sensi dell’art. 58 quater L. 354/75.

La prima delle due indicate tematiche involge, indubbiamente in modo pieno, il tenore della norma citata e la sua interpretazione, così come deriva lessicalmente a seguito della modifiche introdotte con la L. 5 Dicembre 2005 n. 251.

Va, infatti, sottolineato come, nella fattispecie, il ricorrente, il quale si doleva della mancata ammissione al regime della detenzione domiciliare, lamentando il vizio di inosservanza e di erronea applicazione dell’art. 58 quater dell’Ordinamento Penitenziario nonché mancanza ed illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, abbia sostenuto che il comma 1 dell’art. 47 quater L. 354/75, in concreto, sancisse un’applicazione automatica ed obbligatoria del beneficio in parola, in favore di quei condannati ultrasettantenni, purché non condannati per alcuni reati specificamente previsti e non già dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza ovvero non già condannati con l’aggravante della recidiva, con esclusione di qualsiasi altro limite.In buona sostanza, la previsione tassativa e dettagliata di limiti e cause di esclusione dall’accesso al regime detentivo domiciliare sarebbe giunta a configurare una vera e propria presunzione, iuris et de iure, di assoluta incompatibilità carceraria del condannato di età superiore ai 70 anni.

Il fattore anagrafico, quindi, a detta della parte istante, verrebbe valorizzato in maniera assoluta, in quanto esso non potrebbe tollerare (in assenza di quelle condizioni descritte e specifiche nel citato comma 1°2) alcun tipo di comparazione con altri elementi di fatto o diritto.

La soluzione negativa, che ha comportato il rigetto del ricorso, adottata a fronte del ricorso dalla Corte pare, a chi scrive, corretta sul piano dell’applicazione della norma e validamente motivata.

Decisivo in proposito, infatti, appare l’argomento filologico che i supremi giudici introducono, preliminarmente ad ogni ulteriore e successiva considerazione.

Esso consiste nell’esegesi del testo, nella parte in cui si evidenzia l’uso nel testo normativo in questione del verbo potere ["la pena può essere espiata..."] in vece del verbo dovere.

L’utilizzo di tale forma espressiva è sintomatico e significativo - senza tema di smentita - di una chiara volontà del legislatore di mantenere il giudizio del magistrato competente nell’alveo della discrezionalità, precludendo, così, l’accesso (al fine della decisione da prendere) a qualsiasi manifestazione di acritico e neutrale automatismo, che privi la definizione del procedimento esecutivo di quell’importante apporto - a fini valutativi - che consiste nell’esame della personalità del condannato e della meritevolezza della sua condotta.

Al di là, quindi, dell’interpretazione del puro dato lessicale, traspare, quindi, l’importante riaffermazione del principio della libera valutazione del giudice. Questi non può, infatti, prescindere, allo scopo di pervenire alla pronunzia che è chiamato a rendere, dalla fattiva e concreta partecipazione personale e probatoria della parte e del suo difensore.

Detto passaggio appare particolarmente importante e meritevole di attenzione ed approfondimento, perché esso avvicina maggiormente la metodica del processo di sorveglianza alle forme processuali utilizzate nello svolgimento del giudizio penale di cognizione.

L’esperienza forense, infatti, ci ha insegnato - nella sua quotidianità - che l’esercizio della giurisdizione nella fase esecutiva della pena e, segnatamente, nella fase della valutazione in ordine all’applicazione delle misure alternative alla detenzione carceraria contenute nella L. 354/75 (e successive modifiche) spesso si risolveva (e tuttora si risolve) in una sorta di verifica quasi automatica della rispondenza della condizione oggettiva del condannato e delle sue caratteristiche personali a parametri predeterminati normativamente.

È piuttosto infrequente che il difensore possa contribuire in maniera fattiva, al di fuori di schemi valutativi che appaiono, per il rigore della normativa vigente, fondati su presunzioni ed automatismi.

La valutazione globale che, invece, la sentenza evidenzia come necessaria, appare strumento delibativo che favorisce l’instaurazione di un vero e proprio contraddittorio, superando la evidente frattura, che tuttora, si verifica nel processo di sorveglianza fra la fase cd. di istruttoria della richiesta e quella di comparizione e discussione dell’istanza innanzi al Collegio. Appare così evidente il recupero del pieno diritto alla giurisdizione da parte del condannato.

Il secondo momento di riflessione attiene alla cd. gerarchia delle misure alternative al carcere.

È notorio che la detenzione domiciliare di cui all’art. 47 ter, che è stata introdotta con la L. 13 Ottobre 1986 n. 663, si è proposta come istituto atto a completare la gamma delle misure alternative all’espiazione della pena definitiva già esistenti, quali l’affidamento al servizio sociale, la liberazione condizionale o la semilibertà.

Si avvertiva, infatti, la necessità di colmare un evidente vuoto normativo, consistente nella mancata previsione di un istituto che assumesse una prospettiva mediana tra la semilibertà, la quale risentiva palesemente dell’influenza del suo parziale carattere carcerario e l’affidamento, il quale, in vece, mostrava una sostanziale tendenza all’esecuzione della pena in condizioni extramurarie.

Neppure si deve dimenticare la circostanza che l’istituto in parola è stato concepito per potere assolvere anche ad una funzione di raccordo necessario con la già esistente misura cautelare dell’arresto domiciliare.

 

Afferma, infatti, Nuzzo, [in La corte costituzionale estende i confini della detenzione domiciliare]3 che la discrasica situazione ante L. 663/86 "comportava la frequente anomalia che l’imputato sottoposto a questo più tenue vincolo cautelare, una volta divenuta irrevocabile la sentenza di condanna, dovesse scontare in carcere la pena residua, con il conseguente peggioramento del suo status in un momento più avanzato della esecuzione della pena nel quale avrebbe dovuto presumersi, fra l’altro, una attenuazione della pericolosità e quindi delle esigenze custodiali."

La detenzione domiciliare, pur apparendo una forma di esecuzione della pena, assumeva, quindi, secondo Pennisi4, il carattere di "sviluppo logico dell’analogo istituto degli arresti domiciliari previsto nella fase del giudizio di cognizione dell’art. 284 c.p.p. Per la verità appariva poco coerente con il sistema che la custodia in casa o in luogo di cura dovesse cessare con il passaggio in giudicato della sentenza soprattutto nei casi di sostituzione obbligatoria, tanto è vero che con la modifica apportata all’art. 656 del codice di procedura penale è stato stabilito che, quando il condannato si trovi al momento della pronuncia definitiva agli arresti domiciliari, il pubblico ministero emette decreto di sospensione dell’ordine di esecuzione e trasmette senza ritardo gli atti al tribunale di sorveglianza, il quale, senza formalità, deve provvedere sull’eventuale concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare, purché sussistano i requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalla legge".

Si tratta di una visione dottrinale del problema che ha trovato consenso anche in giurisprudenza, posto che la Sezione I della Corte di Cassazione, con la sentenza 12 Gennaio 2005, n. 2884 [(rv. 230435), Gerardo, CED Cassazione, 2005, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 1, 111, Riv. Pen., 2006, 1, 120] ha sostenuto che "attesa l’equiparabilità alla detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter dell’ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354) del regime detentivo che si instaura, ai sensi dell’art. 656 c.p.p., comma primo, nei confronti del detenuto già agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire, l’eventuale, successiva revoca degli arresti domiciliari, quando non sia ancora intervenuta la decisione del Tribunale di sorveglianza circa l’applicazione di una delle previste misure alternative, comporta l’operatività del divieto di concessione di tali misure, stabilito dall’art. 58-quater, comma secondo, della L. 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario)".

In questa ottica è apparso, quindi, evidente che la detenzione domiciliare, sia per il carattere di indubbia invasiva coercizione della libertà personale, [attesi i caratteri di consimilarità rispetto alla correlativa misura cautelare dell’arresto domiciliare], sia per il profilo di specificità dei casi nei quali essa poteva essere applicata, è risultata, talora, una soluzione optativa di minor pregio giuridico rispetto a quegli istituti di diritto penitenziario richiamati per antonomasia.

La affermata e sostenuta funzione di supplenza della misura domestica non può significare, però, [ed è questo l’importante insegnamento della Suprema Corte] che essa possa fungere da palliativo giuridico (vera ultima spe) per impedire sempre e comunque l’accesso al carcere in favore del condannato, a prescindere da un giudizio di pericolosità in ordine alle condotte che costui abbia tenuto in epoca recente di osservazione.

In buona sostanza, se, infatti, è ammissibile che, in carenza delle condizioni necessarie per il riconoscimento dell’affidamento al servizio in favore del richiedente, il Tribunale di Sorveglianza competente possa optare per l’applicazione del regime di cattività domestica, non altrimenti si può sostenere che, in ipotesi di revoca della detta misura extramoenia (od altra adottata), il condannato possa successivamente accedere effettivamente alla detenzione domiciliare, non potendo fare eccezione alla regola generale neppure la misura riguardante gli ultra settantenni.

È, infatti, evidente che nella fattispecie di revoca della misura alternativa all’espiazione della pena, [ad esempio l’affidamento al servizio sociale], il divieto portato dall’art. 58 comma 2 L. 354/75 abbia una portata che, per giurisrpudenza costante, appare di carattere generale.

Ha, infatti, sostenuto la Sez. I, 30 Maggio 2003, n. 27763 (rv. 225050), Rossi, (in CED Cassazione, 2003) che "Il divieto (previsto dall’art. 58-quater, comma 2, della legge 26 luglio 1975 n. 354) di concessione di misure alternative alla detenzione nei tre anni successivi al provvedimento di revoca dell’affidamento in prova, della semilibertà o della detenzione domiciliare non è circoscritto al procedimento esecutivo nel cui ambito è intervenuta la revoca, ma ha portata generale e validità estesa anche ad altri e diversi procedimenti esecutivi". [Conf. Cass. pen. Sez. I, 2 Aprile 2003, n. 19759 (rv. 224235), Limandri, CED Cassazione, 2003; Cass. pen. Sez. I, 20 Dicembre 2002, n. 6995 (rv. 223308), Serra, CED Cassazione, 2003].

Addirittura la Sezione I, con la pronunzia 1 Luglio 2002, n. 28712, Liaci, (in Riv. Pen., 2003, 270) ebbe a precisare in modo netto ed inequivoco che "La detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47 quinquies L. 26 luglio 1975 n. 354 (cd. ordinamento penitenziario), pur avendo un ambito di applicazione ampliato rispetto all’ipotesi di detenzione domiciliare ordinaria, non si sottrae ai divieti cui è soggetta quest’ultima, previsti dall’art. 58 quater della stessa legge, e quindi non può essere concessa al condannato nei cui confronti sia stata disposta la revoca dell’affidamento in prova al servizio sociale a norma dell’art. 47, comma 11, cit. legge".

Richiamando, così, un istituto certamente munito di una propria specificità (la detenzione domiciliare speciale), la corte Suprema ribadì l’indubbio principio di convergenza fra la stessa e la detenzione domestica ordinaria, la quale non poteva, comunque, fungere da surrogato giuridico, in caso di revoca di altra misura.

La descritta impostazione, quindi, deve trovare - come ritiene la Corte - applicazione anche in relazione alla detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni, la quale altro non che "una delle forme della detenzione domiciliare previste per specifiche esigenze".

Ulteriore conseguenza che deriva da quanto premesso, si pone nel senso di interpretare la volontà del legislatore come finalizzata a che l’istituto in parola non sfugga a nessuna delle altre limitazioni di carattere generale previste dall’art. 58 quater, comma 2 e 3, L. 354/75, riguardanti tutte le ipotesi di misure alternative, fra le quale va ricompreso il divieto di concessione per il periodo di tre anni della misura in casi di revoca di precedente misura per inidoneità del soggetto al trattamento o per comportamento incompatibile con la prosecuzione della misura.

Assolutamente condivisibile è, quindi, l’opinione secondo la quale un’eventuale deroga al regime generale - in favore dei condannati maggiori degli anni 70 -, costituita dalla facoltà di "usufruire di una nuova applicazione della misura immediatamente dopo la revoca della stessa, prevista dall’art. 47 ter, comma 6, o di altra misura di più vasta estensione, a causa del comportamento del condannato incompatibile con la prosecuzione della misura, si porrebbe al di fuori del sistema ed in contrasto con il principio di rieducazione della pena".

Tale osservazione trova confortante conferma nel disposto dell’art. 58 quater, co. 1 e 25, che fa discendere da specifici e descritti comportamenti posti in essere dal condannato una indubbia presunzione di pericolosità sociale di quest’ultimo, situazione dalla quale deriva la previsione di un "divieto di concessione dei benefici", che appare, pertanto, è valido in tutti i casi di benefici penitenziari, non essendovi, come sostengono i giudici di legittimità, seri motivi per escludere il solo caso di detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni.

 

(Altalex, 16 ottobre 2006. Nota di Carlo Alberto Zaina)

Art. 47ter - Detenzione domiciliare

 

La pena della reclusione per qualunque reato, ad eccezione di quelli previsti dal libro II titolo XII, capo III, sezione I, e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e dall’art. 4-bis della presente legge, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza né sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’art. 99 del codice penale.

La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di:

a. donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente;

b. padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

c. persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;

d. persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;

e. persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

Al condannato, al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, del codice penale, può essere concessa la detenzione domiciliare se la pena detentiva inflitta, anche se costituente parte residua di maggior pena, non supera tre anni.

1. bis. La detenzione domiciliare può essere applicata per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis e a quelli cui sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, del codice penale.

1. ter. Quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale, il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare, stabilendo un termine di durata di tale applicazione, termine che può essere prorogato. L’esecuzione della pena prosegue durante la esecuzione della detenzione domiciliare.

1. quater. Se l’istanza di applicazione della detenzione domiciliare é proposta dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, il magistrato di sorveglianza cui la domanda deve essere rivolta può disporre l’applicazione provvisoria della misura, quando ricorrono i requisiti di cui ai commi 1 e 1-bis. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 47, comma 4.

Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa le modalità secondo quanto stabilito dall’art. 284 del codice di procedura penale. Determina e impartisce altresì le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare.

Nel disporre la detenzione domiciliare il tribunale di sorveglianza, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte delle autorità preposte al controllo, può prevedere modalità di verifica per l’osservanza delle prescrizioni imposte anche mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici. Si applicano le disposizioni di cui all’art. 275-bis del codice di procedura penale.

Il condannato nei confronti del quale é disposta la detenzione domiciliare non é sottoposto al regime penitenziario previsto dalla presente legge e dal relativo regolamento di esecuzione. Nessun onere grava sull’amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l’assistenza medica del condannato che trovasi in detenzione domiciliare.

La detenzione domiciliare é revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure.

Deve essere inoltre revocata quando vengono a cessare le condizioni previste nei commi 1 e 1-bis.

Il condannato che, essendo in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi indicati nel comma 1, se ne allontana, é punito ai sensi dell’art. 385 del codice penale. Si applica la disposizione dell’ultimo comma dello stesso articolo.

La denuncia per il delitto di cui al comma 8 importa la sospensione del beneficio e la condanna ne importa la revoca.

Se la misura di cui al comma 1-bis é revocata ai sensi dei commi precedenti la pena residua non può essere sostituita con altra misura.».

 

2 Si tratta dei più gravi reati previsti dal codice e dalle leggi penali speciali, in modo particolare si segnalano tutti i reati contro la personalità individuale - ad esempio la riduzione in schiavitù - e quelli associativi - gli art. 416, 416 bis, 74 dpr 309/90 - o di spiccato allarme sociale quale il sequestro di persona aggravato di cui all’art. 630 c.p. .

3 commento alla sentenza Corte cost., 05-12-2003, n. 350, in Dir. Pen. e Processo, 2004, 6, 699

4 Le misure alternative alla detenzione, in AA.VV., Manuale della esecuzione penitenziaria, a cura di Corso, Bologna, 2002, 183 ss.

 

5 Art. 58-quater

 

Divieto di concessione di benefici

 

L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio, l’affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall’art. 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale.

 

La disposizione del comma 1 si applica anche al condannato nei cui confronti é stata disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi dell’art. 47, comma 11, dell’art. 47-ter, comma 6, o dell’art. 51, primo comma.

 

Il divieto di concessione dei benefici opera per un periodo di tre anni dal momento in cui é ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o é stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2.

 

I condannati per i delitti di cui agli articoli 289-bis e 630 del codice penale che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi ad alcuno dei benefici indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis se non abbiano effettivamente espiato almeno i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell’ergastolo, almeno ventisei anni.

 

Oltre a quanto previsto dai commi 1 e 3, l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI non possono essere concessi, o se già concessi sono revocati, ai condannati per taluni dei delitti indicati nel comma 1 dell’art. 4-bis, nei cui confronti si procede o é pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell’art. 385 del codice penale ovvero durante il lavoro all’esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.

 

Ai fini dell’applicazione della disposizione di cui al comma 5, l’autorità che procede per il nuovo delitto ne dà comunicazione al magistrato di sorveglianza del luogo di ultima detenzione dell’imputato.

 

Il divieto di concessione dei benefici di cui al comma 5 opera per un periodo di cinque anni dal momento in cui é ripresa l’esecuzione della custodia o della pena o é stato emesso il provvedimento di revoca della misura.

 

bis. L’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’art. 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, quarto comma, del codice penale.».

 

(La Corte Costituzionale con sentenza n. 436/1999 ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 58 quater nella parte in cui si riferisce ai minorenni).

Suprema Corte di Cassazione - Sezione I Penale

Sentenza 13 luglio 2006-3 agosto 2006, n. 27853

 

Motivi della decisione

 

Osserva

 

Con ordinanza in data 22/12/2005 il Tribunale di Sorveglianza di Sassari ha dichiarato inammissibile la istanza di detenzione domiciliare presentata da P.A. in quanto ultrasettantenne, ai sensi della L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 7, comma 2, che ha introdotto dall’art. 47 ter, comma 1 dell’Ordinamento Penitenziario, in relazione alla sentenza di condanna del Tribunale di Sassari irrevocabile l’8/03/2001.

Il Tribunale ha ritenuto ostativa alla concessione della misura richiesta, per il periodo di tre anni, ai sensi dell’art. 58 quater, comma 2 e 3, dell’Ordinamento Penitenziario, non modificati dalla L. n. 251 del 2005, la revoca della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, relativamente alla stessa condanna, intervenuta ex tunc con ordinanza 22/04/2004 del Tribunale di Sorveglianza.

Ha proposto ricorso per Cassazione la difesa del P. lamentando inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 58 quater dell’Ordinamento Penitenziario nonché mancanza ed illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, per avere il Tribunale ritenuto applicabili i divieti di concessione della detenzione domiciliare previsti dall’art. 58 quater al caso speciale della detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni per cui i divieti erano espressamente previsti dall’art. 47 ter, comma 1 Ordinamento Penitenziario con riguardo soltanto alla recidiva ed alla dichiarazione di delinquenza abituale, professionale o per tendenza, oltre che a specifici titoli di reato.

Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.

La difesa del ricorrente ha fatto pervenire via fax il giorno precedente alla odierna udienza in camera di consiglio una "memoria di udienza" della quale non si può tenere conto, trattandosi di un procedimento che deve essere trattato in Camera di consiglio non partecipata, ai sensi dell’art. 611 c.p.p., in previsione della quale le parti possono presentare motivi nuovi e memorie fino a quindici giorni prima dell’udienza e memorie di replica fino a cinque giorni prima.

 

Il ricorso è infondato.

 

Non è in discussione la applicabilità anche alle esecuzioni in corso al momento della entrata in vigore della L. n. 251 del 2005, che ha fra l’altro modificato l’art. 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario (recante disposizioni in materia di detenzione domiciliare), dell’istituto introdotto dall’art. 7, comma 2 della legge suddetta attraverso l’inserimento dell’art. 47 ter, comma 1 concernente la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni. Il Tribunale di Sorveglianza ha infatti ritenuto applicabile anche ai procedimenti in corso la modifica dell’art. 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario, entrata in vigore l’8 dicembre del 2005 e ciò appare pacifico poiché questa Corte, anche con decisione a Sezioni unite, ha ripetutamente affermato il principio per cui nel procedimento di sorveglianza in corso a momento della entrata in vigore delle modifiche di istituti penitenziari si applicano le nuove disposizioni ai rapporti non ancora esaurititi, per cui cioè non sia nel frattempo intervenuta la decisione del Tribunale di Sorveglianza, trattandosi di disposizioni che non attengono alla cognizione del reato o alla irrogazione della pena, bensì a modalità esecutive della stessa; con la conseguenza che non sono norme penali sostanziali e ad esse non si riferisce il dettato di cui all’art. 2 del codice penale, nè il principio costituzionale di cui all’art. 25 Cost. (v. Cass. Sez. Un. n. 20 del 1998 Rv. 211467, nel caso Griffa;

 

Cass. Sez. 1 n. 6297 del 17/11/1999, Rv 215217; e, più di recente, proprio con riguardo alle modifiche di cui alla L. n. 251 del 2005, Cass. sez. 1 n. 2321/2006).

 

Sono invece in contestazione i presupposti ed i limiti del nuovo tipo di detenzione domiciliare introdotto con la L. n. 251 del 2005, poiché il ricorrente sostiene che le condizioni di applicabilità della detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni sarebbero integralmente contenute nel comma 1, per cui tale istituto sarebbe obbligatoriamente applicabile a tutti i soggetti di età superiore ai 70 anni, purché non condannati per alcuni reati specificamente previsti e non già dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza ovvero non già condannati con l’aggravante della recidiva, con esclusione di qualsiasi altro limite, in quanto il legislatore avrebbe introdotto una sorta di sostanziale incompatibilità con il regime carcerario per i condannati di età superiore agli anni settanta.

 

Ad avviso del ricorrente, il comma 1 avrebbe infatti previsto dei limiti tassativi, integranti una sorta di presunzione di pericolosità sociale dei condannati ultrasettantenni, al di fuori dei quali la detenzione domiciliare dovrebbe essere applicata in ogni caso vigendo la contraria presunzione di incompatibilità del condannato con la situazione carceraria in considerazione dell’età.

 

Tale tesi non è però condivisibile poiché il legislatore usa nel comma 1 la espressione "la pena può essere espiata..." con ciò facendo riferimento, al pari di quanto previsto da tutte le altre disposizioni in materia di benefici penitenziari, ad un potere discrezionale della magistratura di sorveglianza la quale deve sempre verificare la meritevolezza del condannato e la idoneità della misura a facilitarne il suo reinserimento nella società, non essendo previsto in tale materia alcun"automatismo" proprio perché la ratio di tutte le misure alternative alla detenzione - anche quando sono ammissibili perché rientranti negli specifici limiti previsti per ciascuna di esse - è quella di favorire il recupero del condannato e di prevenire la commissione di nuovi reati. Tanto è vero che il legislatore, anche con riguardo alla detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni non ha dato vita ad un istituto ad hoc, autonomamente e globalmente disciplinato, bensì ha introdotto nell’art. 47 ter, comma 1, lasciando quindi sottoposta anche tale misura alle modalità, alle prescrizioni ed agli interventi del servizio sociale di cui al comma 4, ai controlli di cui al comma 4 bis ed alla revoca per il caso di evasione o di incompatibilità del comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, con la prosecuzione della misura (comma 6 e segg.) e cioè alla disciplina generale dettata dall’art. 47 ter, comma 4 e segg. per tutti i tipi di detenzione domiciliare.

 

Ciò posto, poiché appare evidente che la detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni è stata introdotta come una delle forme della detenzione domiciliare previste per specifiche esigenze, si deve ritenere che il legislatore non abbia voluto sottrarla neppure alle altre limitazioni di carattere generale previste dall’art. 58 quater, comma 2 e 3, dell’Ordinamento Penitenziario per tutte le ipotesi di misure alternative, fra cui il divieto di concessione per il periodo di tre anni della misura in casi di revoca di precedente misura per inidoneità del soggetto al trattamento o per comportamento incompatibile con la prosecuzione della misura.

 

Sarebbe invero al di fuori del sistema ed in contrasto con il principio di rieducazione della pena la previsione della possibilità per l’ultrasettantenne di usufruire di una nuova applicazione della misura immediatamente dopo la revoca della stessa, prevista dall’art. 47 ter, comma 6, o di altra misura di più vasta estensione, a causa del comportamento del condannato incompatibile con la prosecuzione della misura, quando è pacifico che tale divieto si applica a tutte le altre ipotesi di detenzione domiciliare, comprese quelle per condizioni di salute particolarmente gravi o per inabilità, sicuramente più meritevoli di attenzione di quelle degli ultrasettantenni che nell’attuale società non necessariamente sono in condizioni di salute incompatibili con la detenzione in carcere.

 

Al contrario proprio la ratio dell’art. 58 quater, comma 1, 2 e 3, che collega a determinati comportamenti del condannato una sorta di presunzione di pericolosità sociale dello stesso, cui è collegato il "divieto di concessione dei benefici", come recita il titolo della disposizione, dimostra che tale divieto è valido in tutti i casi di benefici penitenziari, non essendovi motivi per escludere il solo caso di detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni.

 

Il ricorso deve essere pertanto respinto perché infondato sotto tutti i profili addotti con le conseguenze di legge in punto di spese ( art. 616 c.p.p.).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2006.

 

 

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