Il controllo sociale

 

La società messa sotto controllo

Intervista al sociologo Loic Wacquant

 

Il Manifesto, 13 ottobre 2002

 

Il progetto neoliberale di società contempla l’esclusione di ampi settori della popolazione espulsi dal mercato del lavoro. Per vagabondi, poveri, homeless, disoccupati e migranti c’è l’apartheid o una politica punitiva penale che ha nel carcere il modello dominante. Un’intervista con lo studioso francese delle tecniche di controllo sociale Loic Wacquant.

"Il neoliberismo ha una precisa politica di controllo sociale: l’esclusione. I poveri, gli uomini e le donne espulsi dal mercato del lavoro vanno tolti dalla vista e relegati ai margini. Questo, anche se in misura minore, accadeva anche nel passato. Il ghetto, gli slums erano territori dove il sottoproletariato era condannato a vivere. Ora, il modello emergente di controllo sociale è semplicemente il carcere, nient’altro che il carcere". Un’affermazione perentoria, quella di Loic Wacquant, a Roma in questi giorni per alcuni incontri incentrati sull’analisi delle nuove forme di "controllo sociale".

Allievo di Pierre Bourdieu, Loic Wacquant è considerato un esperto del "sistema penale", qualifica che, come ha precisato più volte, gli sta stretta, perché si considera uno studioso della società. Lasciata Parigi, ha preso a girovagare negli Stati uniti arrivando ad insegnare alla University of California a Berckley, senza lasciare però la cattedra al Collège de France. La pubblicazione del suo primo libro - Parola d’ordine: Tolleranza zero (Feltrinelli) - è da considerare il primo di una serie di saggi, interventi, relazioni sulla "trasformazione dello stato penale nella società neoliberale". Un lavoro d’indagine che si presenta come un vero e proprio work in progress, che ha avuto un’ulteriore, significativa tappa in un secondo libro da poco pubblicato dalla casa editrice veronese Ombre corte (Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale).

A Roma ha fatto il globetrotter tra una lezione alla facoltà di Lettere e filosofia di Roma tre, un seminario con l’associazione Antigone presso l’assessorato al Comune di Roma, e la presentazione del volume Anima e Corpo, pubblicato da Derive - Approdi e dedicato al mondo della boxe nella palestra popolare di San Lorenzo.

E ogni volta non si è sottratto alle domande, alle richieste di precisazione e alla discussione delle sue tesi. L’intervista prende l’avvio da una provocazione, cioè che le ultime guerre combattute dagli Stati Uniti e da molti paesi europei appaiono come vere e proprie operazioni di polizia.

"La politica di aggressione all’Iraq viene giustificata come una operazione tesa a colpire dei criminali. Tutti i discorsi che i militari e gli esponenti politici dell’amministrazione Bush hanno sottolineato che i leader politici iracheni hanno compiuto dei crimini. La costruzione del criminale da consegnare alla giustizia è rafforzata con altri argomenti, dal sapore razzista: non parlano la nostra lingua, non hanno le nostre abitudini, sono cioè degli alieni. Questa costruzione del nemico ricorda molto la stigmatizzazione di settori della popolazione che ha preceduto le politiche di esclusione rappresentato dal ghetto. Allora erano i neri, ora sono i militanti di Al Qaeda, gli iracheni, domani chissà. Manca completamente un’analisi dei motivi geopolitici e economici che sono dietro le azioni di Al Qaeda o delle posizioni prese dal governo iracheno. Io mi limito a registrare che è all’opera la costruzione teologica di un nemico, così che qui da noi c’è il bene, là il male, da noi i buoni, là fuori il diavolo, ma per ricondurre a una qualche razionalità politica ciò che sta accadendo".

 

Per lei c’è una "simbiosi mortale" tra il neoliberalismo e la politica penale punitiva incentrata sul carcere. Questo vuol dire che se un modo di produzione diventa globale, altrettanto globale diventano le politiche di controllo sociale?

Io parlerei di un progetto neoliberale che si basa sul presupposto che le leggi del mercato sono i migliori strumenti per produrre e redistribuire la ricchezza. Quindi è un processo che coinvolge lo stato nazionale e le relazioni sociali. Potremmo dire che l’obiettivo finale è la completa mercificazione dei rapporti sociali e che alla "politica" è riservato il ruolo di controllare le condizioni affinché quest’obiettivo venga raggiunto. È un vero paradosso quello che è accaduto. L’ideologia neoliberale considera le leggi del mercato come le leggi migliori, ma chiede allo stato di garantire la loro operabilità.

Prendiamo ad esempio l’Europa: la creazione di un mercato europeo non è scaturita dalle forze economiche, ma è frutto di una decisione politica. È ovvio che questa situazione, cioè la mondializzazione di un modo di produrre la ricchezza, ha avuto il contraltare nella omogeneizzazione delle politiche nazionali. È ciò che sta accadendo con le politiche di controllo sociale, sia che si tratti dei migranti, che del mercato del lavoro che della sicurezza. Allo stesso modo, la globalizzazione delle nuove politiche penali procede di pari passo con l’internazionalizzazione del neoliberismo, anzi io propendo a considerare le politiche penali come complementari alle politiche neoliberali. Ripeto: quello neoliberale è un progetto, e come tale è costellato anche di contraddizioni. Infatti, ci sono paesi che possono prendere altre strade od opporre resistenza. La Norvegia, l’Olanda, la Svezia, non pensano proprio di rinunciare allo stato sociale e le loro economie nazionali vanno meglio di altre che hanno abbracciato il credo neoliberale.

 

Dai suoi libri emergono due modelli di controllo sociale, tali da rappresentare due facce della stessa medaglia. Uno è il ghetto, cioè una prigione a cielo aperto, dove il controllo si applica alla limitazione della libertà di movimento. L’altro è la "tolleranza zero", dove le "classi pericolose" sono costruite su parametri statistici in base ai vincoli del lavoro e del reddito. Entrambi i modelli hanno molto a che fare con i mutamenti della forma-metropoli. Non è che assistiamo al proliferare di modelli di controllo sociale che vengono applicati a seconda della caratteristiche della città in cui devono diventare operativi?

Io penso che il ghetto non sia più funzionale in una società che punta sull’individualismo. Il ghetto vede la presenza di un gruppo più o meno omogeneo dove applicare politiche di controllo omogenee. Inoltre, il ghetto aveva la funzione di ingrossare le file dell’esercito industriale di riserva. Forniva cioè forza-lavoro a basso prezzo da utilizzare contro la classe operaia organizzata e magari sindacalizzata. Nelle società neoliberali assistiamo ad un abbandono delle risposte collettive, oserei dire sociali ad alcuni problemi. Diverso è il caso della "tolleranza zero".

Per workfare society s’intende una società il cui principale meccanismo di integrazione è il lavoro. Chi è fuori dal mercato del lavoro difficilmente ci rientrerà e così non accede ai diritti di cittadinanza. La tolleranza zero interviene per togliere di mezzo gli esclusi. Solo così si spiega la crescita delle economie criminali e la crescita della carcerazione. Soltanto che la carcerazione riguarda non solo chi commette un reato, ma anche gli homeless, i vagabondi, i poveri, i migranti. Il risultato immediato della "tolleranza zero" è l’aumento della popolazione carceraria. La conseguenza secondaria è la definizione di cosa è compatibile con l’ordine sociale e cosa no. Questo secondo aspetto a molto a che vedere con la disciplina della forza-lavoro e con il governo coatto del mercato del lavoro. Chi sgarra è fuori, entrando così nell’universo degli esclusi che ha come probabile orizzonte il carcere. Il ghetto a suo modo era una risposta collettiva. Sbaglia chi considera il ghetto come regno del disordine. Negli slums o nelle banlieu erano vigenti regole, modi di essere, relazioni sociali ben particolari. Certo tutto era il risultato di una stigmatizzazione di un gruppo sociale o etnico e il modo di autorganizzarsi del ghetto era dipendente a questa costruzione "esotica" della subalternità. Ma era pur sempre una dimensione collettiva, che prevedeva forme di tutela di chi viveva nel ghetto. La tolleranza zero non contempla neanche questo. Il passaggio dal welfare state alla workfare society è costellato di contraddizioni e di compresenze. Ci può essere il ghetto e la costruzione statistica della devianza, ma il primo modello di controllo sociale è destinato a finire.

 

Ma il ghetto non era solo povertà e segregazione. Lei ha già accennato alla tendenza a stabilire regole sociali. Ma il ghetto esportava anche che cultura, era cioè un laboratorio di innovazione sociale, culturale. Quando parlo di innovazione non do un giudizio positivo, ma riconosco che l’industria dell’abbigliamento ha tratto spunto dalla vita di strada, così come l’industria culturale, penso alla musica, ha avuto nel ghetto una fucina quasi inesauribile di nuovi prodotti musicali. Ora che il ghetto è destinato a scomparire, cosa accadrà?

Si, il ghetto ha funzionato come laboratorio di innovazione. Il blues, il jazz, l’abbigliamento, certo. Ora io penso che il carcere abbia preso il suo posto. Può sembrare provocatorio, ma provi a pensare alla cultura del tatuaggio e della decorazione del corpo, del modo di portare in un certo modo i pantaloni. Pensi, infine, al fenomeno della musica gangnstrap. Sono tutte espressioni "culturali" nate in prigione e che poi si sono diffuse in tutto il mondo. Tra i criminologi c’è stata un’aspra discussione se la prigione importava modelli culturali provenienti dall’esterno e se c’era un processo di produzione di una specifica cultura carceraria, adattando modelli provenienti dall’esterno. Io penso che c’è un processo di produzione e esportazione di modelli culturali.

 

Arriviamo alle tecnologie del controllo. Mi riferisco alla videosorveglianza, alle tecnologie della comunicazione, alle tecnologie di identificazione. Sono state magari progettate per un compito specifico - maggior sicurezza - ma poi diventano strumenti di controllo sociale. Lei che ne pensa?

Io vedo che la sorveglianza ha due aspetti: uno hard, duro, rappresentato dal carcere, L’altro soft, morbido, che ha a che fare con i comportamenti di consumo, le scelte individuali sulla sessualità, sulla vita in genere. In entrambi i casi, le tecnologie svolgono un ruolo di supporto. Si possono creare profili individuali in base a ciò che si acquista al supermercato o se si ricorre ad alcune cure per determinati tipo di malattie, e così via. In ogni caso le tecnologie digitali svolgono un ruolo, potremmo dire, di raccolta e elaborazione dati. Detto questo, accade sempre più spesso che la polizia richieda i dati individuali e li usi per costruire la biografia di una persona indagata, arrivando magari a stabilire propensioni o meno alla devianza o ricavando la sua colpevolezza o meno dall’elaborazione di quei dati, il confine tra controllo hard e quello soft è sottile. A renderlo così labile ci pensano proprio le tecnologie digitali.

 

 

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