Svizzera

 

L’esperienza dell'affettività per i detenuti in Svizzera

 

Serafino Privitera

Responsabile della formazione, Scuola agenti di custodia

Casella Postale 4062; CH-6904 Lugano

 

Sono stato invitato a presentare l’esperienza svizzera in particolare quella del Cantone Ticino sull’affettività e le relazioni famigliari nella vita delle persone detenute. Un tema che ha sempre suscitato imbarazzo, perplessità nel parlarne, tenuto quasi nascosto, rimosso sin dalle origini dei penitenziari.

E come è vero che la stessa terminologia del luogo rimanda al concetto di penitenza, con tutta la valenza significativa e profonda che ciò ha comportato, allora parlare di affettività in carcere, un’affettività che ingloba anche quella sessuale, può apparire fuori luogo. Nella penitenza del carcere si voleva mortificare anche la "carne" e di conseguenza si soffocava quanto rinviava e richiamava il piacere. Anzi, allora era proibito già parlarne fuori dal carcere, immaginiamoci poterne discutere all’interno o dall’esterno proporlo per l’interno delle strutture penitenziarie. Il discorso sull’affettività che alla fin fine lo si riduce a quello del "sesso in carcere" è sicuramente un inizio di discorso audace e per tanti versi coraggioso, talmente coraggioso che lo si è voluto rivelare con le dovute cautele, aggirandone persino la terminologia diretta, pur di salvare una certa parvenza di discrezione e contegno.

Mi chiedo come è possibile una sana affettività in carcere, luogo chiuso e di segregazione per eccellenza, dove viene preclusa la libertà, dove il tempo e le scelte vengono scandite dalle autorità preposte all’esecuzione delle condanne. Dove lo stesso affetto viene bandito, isolato, definito e ai limiti del possibile voluto in tempi determinati secondo la scansione del tempo dei regolamenti carcerari, dove lo stesso "affetto" è imposto, sorvegliato, deciso da altri o cercato verso altri lidi proibiti.

Poiché diciamolo pure: l’essere umano ha bisogno d’affetto, non importa di che tipo, importante che sia affetto. Nella repressione degli affetti si verificano le deviazioni affettuose, comprese quelle sessuali. A questo proposito mi si permetta una citazione di Friedrich Nietzsche: "È noto che la fantasia sessuale viene moderata, anzi quasi repressa, dalla regolarità dei rapporti sessuali, e che al contrario diventa sfrenata e dissoluta per la continenza e il disordine dei rapporti." (Umano, troppo umano, I, n. 141).

Allora la soluzione va cercata in una politica esecuzione pene che privilegi immediatamente sin dall’inizio dell’esecuzione della condanna l’uscita dal carcere, l’incontro coi propri cari e non il distacco, la separazione, il taglio netto, causa di infiniti problemi esistenziali, di relazione e interpersonali.

In Svizzera, in particolare nel Cantone Ticino, si è realizzato un sistema esecuzione pene diversificato che favorisce l’affettività all’esterno del carcere, ma che l’agevola, in senso intramurario, anche per quei casi che per motivi legati alle condizioni del tipo di criminalità non possono essere favoriti quelli extramurari.

Ma vengo al discorso svizzero sull’affettività.

In Svizzera l’esecuzione delle sentenze che vengono emanate dai tribunali penali cantonali sono di competenza dei Cantoni, art. 123, comma 3 della Costituzione federale e artt. 374, c. 1, 382 e 383 del Codice penale svizzero. Lo stesso per l’organizzazione dei tribunali, la procedura giudiziaria e l’amministrazione della giustizia. I Cantoni usufruiscono di un ampio margine di manovra in tema di esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza. La Confederazione si riserva la facoltà di intervenire in caso di mancata applicazione delle norme federali, rispettivamente di quelle internazionali (artt. 49, c. 2 e 186, c. 4 CF).

Indirettamente la Confederazione può influire sull’esecuzione delle pene, affinché queste avvengano a norma di legge, al momento in cui viene sollecitata a sovvenzionare la costruzione degli stabilimenti di pena (art. 123, c. 2 CF), o quando è chiamata ad approvare progetti pilota in campo esecuzione pene e misure. Questo sistema esecuzione pene di tipo cantonale ha comportato che i Cantoni, di propria iniziativa, tra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60, varassero delle norme comuni nel settore esecuzione pene, firmando delle convenzioni intercantonali che vengono a colmare la lacuna esistente a livello di legislazione della Confederazione e quella dei Cantoni.

I Cantoni attraverso questi accordi si sono dati una politica comune in campo esecuzione pene, ovviando sul piano dell’effettività la costruzione per i Cantoni di parecchi istituti sia per l’esecuzione di pene privative della libertà sia di strutture indirizzate a diverse categorie di persone che si trovano a scontare forme diverse di sanzioni. Questi accordi che si riducono a tre (Concordato svizzera centrale e nord-ovest al quale aderiscono 11 Cantoni; Concordato svizzera orientale, 8 Cantoni; Concordato romando, 7 Cantoni) si propongono di armonizzare l’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza, come anche di utilizzare in comune alcuni istituti, ripartendone i costi. Per esempio le autorità competenti all’esecuzione di questi accordi (per il Ticino e i Cantoni di lingua francese: Conferenza romanda, Commissione concordataria, Commissione romanda di patronato) prendono decisioni riguardo l’ammontare del peculio, congedi e forme particolari di esecuzione delle pene, formazione e istruzione dei detenuti, ecc.. In caso di trasferimento di un detenuto da un Cantone ad un altro, il Cantone che ha emanato la sentenza esercita tutte le competenze legali relative all’esecuzione della pena o della misura, salvo che le deleghi al Cantone che accoglie il detenuto nella continuazione dell’esecuzione della sua pena o misura (art. 18, c. 1 Concordato dei Cantoni romandi e Ticino).

Questo breve excursus normativo per affermare che i Cantoni in Svizzera partecipano di un’ampia autonomia che deriva loro dalla storia della Confederazione e che ha fatto sì che questa autonomia si esprimesse su qualsiasi piano, compreso quello penale.

Detto questo passo ad analizzare soltanto la realtà del Cantone Ticino sulla possibilità dell’affettività in carcere. Quali sono le normative che regolano questa materia, quali le tendenze future, per poi terminare con uno sguardo al passato che comunque ancora oggi, vuoi direttamente vuoi indirettamente, influenza e domina il presente.

 

Si è detto che in materia esecuzione delle condanne i Cantoni sono sovrani. Di conseguenza ogni Cantone prende decisioni proprie anche in materia di affettività. La particolarità dei Cantoni svizzeri fa sì che si facilitino quanto prima, là dove è possibile, i contatti diretti coi familiari, una volta iniziata l’esecuzione della pena. Là dove questi contatti presentano difficoltà legati alla personalità del detenuto, allora si agevolano altri generi di incontri affettivi.

Sin dagli anni ‘70 i direttori dei penitenziari hanno la facoltà di gestire e facilitare gli incontri coi familiari dei detenuti. Materia di competenza cantonale, come si è detto, delegata ai direttori degli istituti di pena, con ampi poteri decisionali, ai fini di realizzare certi principi richiesti dall’esecuzione della pena.

Quindi in Svizzera ritroviamo un sistema esecuzione pene strutturato su vari livelli e competenze, con ampia autonomia per i direttori dei penitenziari. Mentre la Confederazione definisce la struttura generale e gli accordi intercantonali quella di politica comune tra i Cantoni, i direttori delle carceri hanno la facoltà di realizzare principi di politica reale nel rispetto delle normative generali sì, ma adattandoli alla realtà locale e alle esigenze cantonali.

Nel Cantone Ticino, già sin dagli anni ‘80, si è offerta ai condannati che scontano una pena negli istituti di pena del Cantone la possibilità di facilitare incontri affettivi più intimi coi familiari. Possibilità in vigore, con modalità diverse, anche in altri istituti di pena della Confederazione. Penso a Bostadel (Cantone di Zugo), Pöschwies (Zurigo) o all’Etablissements de la Plaine de l’ Orbe (Cantone di Vaud).

 

La legislazione del Cantone Ticino e anche Concordataria afferma che il condannato ad una pena privativa della libertà potrà usufruire di un primo congedo della durata di dodici ore dopo aver scontato un terzo della pena (art. 80, Regolamento Penitenziario di Stato del Cantone Ticino). Nei Cantoni del Concordato orientale dopo aver scontato 1/6 della pena. La durata del congedo aumenta nel tempo sino ad un massimo di 54 ore. Ogni due mesi successivi al primo congedo il condannato può ottenerne un altro. Quando ottenere un congedo ordinario appare difficoltoso, per motivi legati alla personalità del detenuto, allora la possibilità di ottenere un "colloquio gastronomico" o un "congedo interno" o colloqui "Pollicino" tra il condannato e i propri bambini vengono facilitati e incoraggiati. Questo affinché il detenuto continui a mantenere quei contatti tanto importanti coi propri cari che si erano distanziati a seguito la commissione del reato.

Questi contatti coi propri familiari sono codificati da un’ordinanza federale sul codice penale svizzero che dichiara: "le relazioni con i congiunti devono essere agevolate nella misura del possibile" (Ordinanza 1, art. 5, c. 2). Alla possibilità di usufruire di questi incontri si affiancano naturalmente anche quelle di ottenere delle visite da parte dei familiari ed amici nell’ordine di sei ore mensili, tre colloqui telefonici alla settimana di 10 min. per telefonata, nonché la partecipazione dei familiari dei detenuti alle manifestazioni organizzate in penitenziario (1° maggio, Festa in famiglia, Natale, ecc.).

Passo ad analizzare brevemente nel dettaglio le tre possibilità principali sull’affettività vera e propria cui ho appena accennato.

 

1) Il "colloquio gastronomico" consiste nella possibilità di poter consumare un pasto in compagnia di familiari ed amici tra le 12.00 e le 14.00. Lo può chiedere il condannato che ha scontato 12 mesi (10 mesi su proposta del Direttore del carcere se il comportamento del detenuto è esemplare) o ha superato la metà della pena. Tra un colloquio e un altro devono intercorrere due mesi (Disposizione interna della direzione del carcere, 1996).

 

2) Il "congedo interno" dà la possibilità al detenuto di trascorrere sei ore coi propri familiari ed amici dalle 10.00 alle 16.00 e di consumare il pranzo in comune in una "casetta" situata al di fuori del perimetro di alta sicurezza, ma all’interno di una recinzione securizzata. Lo può richiedere il condannato che è privato della libertà da 24 mesi (18 mesi su proposta del Direttore del carcere se il comportamento del detenuto è esemplare). Possono parteciparvi tre persone adulte, oltre ai figli. Tra un congedo e l’altro devono intercorrere due mesi. Si può scegliere tra il "colloquio gastronomico" e il "congedo interno". Importante che tra una possibilità e l’altra intercorrano due mesi (Disposizione interna della direzione del carcere, 1996).

 

3) Il colloquio "Pollicino" si propone di mantenere i rapporti tra la persona privata momentaneamente della libertà e i propri figli. Questi colloqui avvengono la domenica, durante il normale svolgimento delle visite dei famigliari ed amici tra le 09.30 e le 11.30 in una saletta adibita per accogliere i bambini (Disposizione interna della direzione del carcere e del Servizio di patronato penale del Cantone Ticino).

Il Servizio "Pollicino" nato negli anni ‘90 fa capo ad un’associazione privata per la prevenzione e autonomia della prima infanzia ed è finanziato dal Penitenziario cantonale. Gli incontri tra genitori in esecuzione pena e i propri bambini vengono preparati, organizzati e gestiti da due psicologi responsabili del servizio.

 

In Ticino ogni anno vengono autorizzate ca. 140 tra "colloqui gastronomici" e "congedi interni" e in media 45 congedi ordinari, dalle sei alle 54 ore per congedo su una popolazione carceraria che oscilla dalle 100 alle 130 tra detenuti e detenute che sconta pene privative della libertà. Negli ultimi dieci anni si è registrato un solo caso di fuga durante il congedo interno. Il detenuto in questione è riuscito a fuggire lasciando a sé stessa la propria moglie. Successivamente è stato arrestato.

Da questi pochi dati si può dedurre come in Svizzera, in particolare il Cantone Ticino, grazie ad una politica federale che privilegia l’autonomia e quindi anche il decentramento nel settore dell’esecuzione delle condanne e grazie anche al fatto che in Ticino si opera in una realtà di piccoli numeri, si sia potuta trovare una soluzione al problema dell’affettività in carcere, privilegiando il contatto diretto con le persone care. E questo a partire quasi subito dopo l’inizio dell’esecuzione delle sentenze.

 

La revisione della parte generale del Codice penale svizzero, in discussione alle Camere federali, si propone come obiettivo quello di fare quanto più possibile a meno dell’incarcerazione e quando l’unica alternativa è la pena detentiva questa deve causare meno danni possibili sia al condannato sia indirettamente ai familiari (art. 74 e segg., Messaggio sulla modifica del codice penale svizzero del 21 settembre 1998).

Anche nella revisione si prediligono i contatti diretti che avvengono all’esterno delle mura perimetrali del carcere (art. 84, c. 6 cit.). Anzi si è data una rilevanza maggiore rinunciando a definire un vero e proprio scopo delle esecuzione delle pene detentive. I Cantoni saranno chiamati a gestire due generi di penitenziari, quelli aperti e quelli chiusi, delegando così ai Cantoni un ulteriore margine di manovra e diversificare ulteriormente i penitenziari in funzione dei bisogni reali. Si è rinunciato ad una separazione assoluta, riguardo il collocamento in un carcere aperto o chiuso. Si è tenuto conto soltanto della pericolosità del detenuto e del rischio che commetta nuovi reati.

"Di regola le pene detentive sono scontate in un penitenziario aperto. Il detenuto può essere collocato in un penitenziario chiuso o in un reparto chiuso di un penitenziario aperto se vi è il pericolo che si dia alla fuga o vi è da attendersi che commetta nuovi reati." (art. 76, c. 1 e 2, messaggio cit.). Questo per riallacciarmi a quanto dicevo all’inizio di questa relazione che la politica federale in campo esecuzione pene tende sempre più e prosegue nella continuità lungo delle direttive che si propongono di fare uso dell’incarcerazione solo come "ultima ratio" e comunque evitandone, quanto più possibile, gli effetti negativi relative anche all’affettività.

Checché se ne dica sul carcere in generale, e mi riferisco in particolare agli studi sui sistemi penitenziari, che facevano risalire le sue origini alla fabbrica e alla nascita della società industriale o all’esercizio del potere dello Stato, non bisogna dimenticare che il penitenziario nasce anche come istituzione con profondi influssi religiosi. Influssi che hanno determinato, indirizzato anche la concezione che è venuta conformandosi nel tempo sull’affettività che oggi ci vede riuniti in questo convegno. Il problema che ci trova qui a discutere è un problema storico che ci riporta indietro nel tempo, alle origini dei penitenziari e a ciò che ci si proponeva di raggiungere mediante la carcerazione. Un tema che per assurdo affermo andrebbe risolto anche a ritroso con una presa di posizione verso una cultura che con la segregazione si proponeva anche quella del corpo con tutta la sua valenza sessuale.

Se si pensa all’importanza che la religione e la cultura dominanti in materia hanno da sempre dato al sesso a partire dalle Lettere di San Paolo ai Padri della chiesa e penso in particolare a Origene, San Girolamo, Sant’Agostino, o Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino sino ai nostri giorni, allora una rivisitazione e una presa di posizione più spassionata credo siano necessarie e storicamente di fondamentale importanza se si vuole una volta per tutte trovare una possibile soluzione che causa forze maggiori ci risospinge ogniqualvolta ci si trova ad affrontare il problema a quelle origini che lo hanno visto nascere.

Credo e sono fermamente convinto che una soluzione al problema "affettività", intesa in particolare nella sua dimensione sessuale, debba iniziare per forza di cose con una critica storico-culturale. Ripercorrere e rivedere tutta la nostra tradizione e concezione culturale religiosa in materia, ereditata in duemila anni di storia dell’Occidente e che ha accompagnato e influito sul concetto del sesso, del piacere in generale, il piacere visto, vissuto ed analizzato come peccato, male necessario solo per la procreazione e a salvaguardia della specie.

Una soluzione immediata, prossima a venire, in ogni caso, potrebbe essere quella di diminuire quanto più possibile, già a livello di legislazione, la distanza tra l’inizio dell’esecuzione della pena e l’ottenimento dei primi congedi che si propongono, quanto prima, di ristabilire i contatti coi propri cari, fuori, lontano dalle mura carcerarie. Il carcere non può creare quell’intimità, spontaneità del momento dell’incontro e dell’intimo, poiché in caso contrario l’intimità si limiterebbe al solo atto meccanico che nulla ha a che vedere con "l’affettività". Gli incontri intramurari devono essere pensati unicamente come "ultima ratio" e per mantenere, coi limiti che ciò comporta, quegli affetti che se non continuati durante la carcerazione causerebbero gravi conseguenze psicofisiche, comportamentali e della personalità.

 

Vi ringrazio per la vostra attenzione.

 

Serafino Privitera

Responsabile della formazione, Scuola agenti di custodia

Casella Postale 4062; CH-6904 Lugano

tel: +41 91 935 06 73; fax: +41 91 935 06 03

e-mail: serafino.privitera@ti.ch

 

Lugano, 3 maggio 2002

 

 

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