Detenuti minori in Palestina

 

Studio sulla condizione dei detenuti minori in Palestina

di Luca Modenesi e Giorgia Brignone

 

Peace Reporter, 7 aprile 2005

 

I minori palestinesi subiscono un sistematico processo coercitivo che non può essere definito casuale né indipendente dalle strutture e dalle organizzazioni che lo perpetuano.

Le pagine seguenti (bibliografia) illustrano alcune delle tappe attraverso cui questo processo si sviluppa. Il testo che segue è costruito come una serie di "finestre", non necessariamente legate tra loro, nel tentativo di rendere la complessità dell’argomento trattato e cercando di tracciare un possibile percorso che le persone si trovano a dover affrontare. Soprattutto si vuole mettere in luce i metodi e le procedure adottate dal governo israeliano nei confronti dei minori palestinesi nel più ampio contesto del conflitto israelo-palestinese.

Le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte delle forze di sicurezza israeliane si sono intensificate fin dall’inizio della seconda Intifada[1] (settembre 2000). Migliaia di minori sono stati mandati/detenuti nei vari centri di detenzione, molti con condanne a lungo termine.

Durante gli anni 2001/2003 le forze militari israeliane hanno arrestato tra i 2.000 e i 2.500 minori palestinesi d’età compresa tra i 12 e 18 anni[2]. Ancora a dicembre 2004 risultano detenuti 344 minori[3].

Seguendo lo sviluppo delle diverse tappe appare evidente che il percorso assume connotazioni punitive fin dai primi momenti dell’arresto, con percosse, umiliazioni, e in generale, trattamenti crudeli, inumani e degradanti[4] che raggiungono la tortura vera e propria, durante tutta la fase dell’interrogatorio. Le condizioni inumane continuano anche durante l’arco di tempo della detenzione – con celle sovraffollate, scarsità di cibo, mancanza di cure mediche, ecc. – senza nessuna considerazione per la fragilità psicologica e i bisogni evolutivi del minore e le ovvie conseguenze che tale irresponsabile comportamento scatena. Inoltre, l’utilizzo di corti militari e di particolari dispositivi giuridici come la detenzione amministrativa, colloca il minore all’interno di una logica per cui egli è criminalizzato, questo indipendentemente dal comportamento effettivamente avuto o dalla possibilità di contestualizzarlo in forme di resistenza all’occupazione.

 

Le corti militari nei territori occupati

 

I palestinesi di Cisgiordania e Gaza, arrestati dai servizi di sicurezza e dai militari israeliani, sono sottoposti al sistema di giustizia militare. I detenuti palestinesi, minori compresi, sono giudicati da corti militari israeliane per atti commessi contro la presenza militare israeliana nei territori palestinesi occupati[5]. Le corti militari israeliane utilizzano ordini militari e non legislazioni minorili, questo implica che il minore palestinese non gode di nessuna forma di tutela, che non sono presenti al processo specialisti dei minori come psicologi o esperti, e che il gesto o l’azione del minore è contestualizzata solo all’interno di una logica militare che considera ogni forma di reazione come atto terroristico o finalizzato alla distruzione delle strutture militari israeliane.

 

La detenzione amministrativa

 

La detenzione amministrativa è una forma di detenzione senza formulazione di accuse o processo, autorizzata da un ordine amministrativo invece che da un decreto giudiziario. Attraverso gli anni, il governo israeliano ha tenuto i palestinesi in detenzione prolungata senza processarli e senza informarli dei sospetti contro di loro, e mentre in teoria è possibile appellarsi alla detenzione, in pratica né i detenuti né i loro avvocati hanno accesso alle prove.

Utilizzata già nella prima Intifada, e anche successivamente, il suo utilizzo è decisamente aumentato durante e dopo l’operazione Defensive Shield (primavera/estate 2002)[6]. A partire da questo momento, il numero dei detenuti amministrativi, sebbene diminuito, è rimasto comunque elevato[7].

La sicurezza[8] è la giustificazione ufficiale al costante uso di questa misura, necessaria poiché il governo israeliano ritiene fallimentari le altre forme detentive.

Essa è utilizzata come alternativa al processo criminale (tribunale ordinario) quando le autorità non hanno sufficienti prove o quando non vogliono rivelarle, sempre per presunti[9] motivi di sicurezza.

La detenzione amministrativa crea un circolo vizioso in cui la persona non ha la possibilità di sapere quando e se uscirà dal carcere; è di fatto possibile rinnovarla ogni sei mesi senza che ci sia la possibilità di conoscere le imputazioni e di conseguenza confutarle in un giusto processo.

La detenzione amministrativa è consentita dal diritto internazionale, ma rigide restrizioni sono state poste sulla sua applicazione a causa dell’infrazione del diritto al giusto processo e all’ovvio pericolo di abuso[10].

Inoltre, i residenti di un territorio occupato possono solo essere "detenuti amministrativamente" all’interno di quel territorio, non in quello della potenza occupante[11], in questo caso all’interno di Israele, come invece di fatto avviene.

 

La discriminazione nei confronti dei minori palestinesi

 

Per decenni i minori palestinesi hanno dovuto sopportare leggi e politiche israeliane discriminatorie nei loro confronti. Infatti, le leggi applicabili ai minori palestinesi non sono le stesse applicate ai minori israeliani.

I territori della Cisgiordania e Gaza – fatta eccezione per Gerusalemme Est – sono governati e amministrati dagli israeliani attraverso ordini militari. Viceversa, gli israeliani, anche coloro che vivono all’interno di insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati[12], sono giudicati sulla base del diritto civile israeliano.

In base a questo ragionamento, un minore israeliano e uno palestinese che vivono nella stessa area sono trattati in maniera differente, solo su base etnica e della nazionalità.

Un esempio lampante di questa discriminazione è la definizione di "minore". L’articolo 1 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo stabilisce che "s’intende per fanciullo ogni essere umano in età inferiore ai diciotto anni, a meno che secondo le leggi del suo Stato, sia divenuto prima maggiorenne". Il diritto civile israeliano[13] stabilisce che un fanciullo è "un individuo che non ha raggiunto l’età di 18 anni"[14]. Al contrario, la legge militare israeliana applicata ai palestinesi dei Territori, considera i fanciulli palestinesi maggiorenni dall’età di 16 anni[15].

Il diritto civile israeliano distingue tra minori israeliani e adulti all’interno del sistema giuridico, e contiene una serie di disposizioni speciali per trattare con i minori israeliani. Al contrario, i minori palestinesi sono trattati nello stesso modo degli adulti palestinesi, sono arrestati e giudicati dagli stessi ufficiali e dalle stesse corti militari applicabili agli adulti palestinesi.

 

Accuse e motivi d’arresto, ovvero sproporzione tra "reato" e pena

 

Nella maggior parte dei casi, i motivi di arresto e/o le accuse successive riguardino azioni come il lancio di pietre verso veicoli militari corazzati (o anche il semplice sospetto di averle lanciate)[16], fare graffiti o partecipare a manifestazioni[17]. In molti casi gli arresti avvengono in strada o ai blocchi stradali o nelle case dei propri familiari, soprattutto durante le ore notturne.

È tristemente diventato un dato di senso comune per i palestinesi l’arresto in giovane età, soprattutto per i maschi[18].

I motivi di arresto e le accuse sono simili in tutti i casi. Dalle dichiarazioni giurate rilasciate dai minori ex detenuti ad organizzazioni quali B’Tselem[19] o Save the Children Sweden[20] emerge che le accuse principali sono lancio di pietre, lancio di molotov, tentativi di assalto a singole persone (in particolari coloni). Le pene variano da un minimo di qualche mese fino ad un massimo di nove anni[21], in chiara contravvenzione del diritto internazionale per cui "l’arresto o la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere utilizzati esclusivamente come misura estrema, e per il periodo più breve possibile"[22].

Si vuole sottolineare inoltre che l’età dei minori in detenzione comprende una fascia che va dai dodici anni in su, come precisato dall’ordine militare 132[23].

 

Metodi di detenzione e trattamento dei minori

 

"...i sospetti devono essere denudati e bendati, le stanze degli interrogatori devono essere senza finestre, buie, acusticamente isolate e senza toilette. Poiché il senso di identità di una persona dipende dal continuo contatto con ciò che la circonda. La detenzione deve essere pianificata per dare al soggetto la sensazione di essere tagliato fuori da qualsiasi cosa conosca e lo rassicuri. Vanno usati in continuazione metodi di rottura che lo disorientino e gli incutano sensazioni di paura e impotenza"[24].

Dei circa 2.500 minori palestinesi arrestati e detenuti per vari periodi di tempo durante questa seconda Intifada, circa il 95% è stato oggetto di diverse forme di abuso fisico o psicologico[25].

Ai minori palestinesi non viene di certo risparmiato un trattamento "forte", e sono spesso picchiati, ammanettati e maltrattati, a cominciare dal momento dell’arresto proseguendo fino all’interrogatorio. I detenuti palestinesi in generale, siano essi adulti o minori, sono soggetti a varie forme di trattamenti crudeli, disumani e/o degradanti, che possono sfociare in tortura vera e propria.

La lista è lunga. Da vari report e studi fatti in materia, si evince che il trattamento riservato ai minori palestinesi detenuti, varia da:

percosse

minacce (minacce di violenza sessuale, o minacce alla propria vita e a quelle dei familiari)

imprecazioni e umiliazioni

deprivazione del sonno e del cibo

tenere posizioni scomode e dolorose per lungo periodo di tempo[26]

uso di acqua fredda o bollente a seconda della stagione

periodi di isolamento[27].

Questi trattamenti trovano un singolare riscontro nel manuale dei torturatori per cui "quando (il dolore) è inflitto dall’esterno, può rafforzare la volontà del soggetto di resistere". Il metodo più efficace è quello che sia "lui stesso a procurarsi il dolore che sente"[28].

Durante la fase degli interrogatori, i minori non vengono a contatto con i propri legali o con i familiari. In generale, ai legali non è permesso l’accesso ai detenuti durante il periodo degli interrogatori (che può prolungarsi per varie settimane)[29], ed è difficile scoprire in quale prigione o centro di detenzione sono trattenuti i minori arrestati.

Questo trattamento può comportare quella che Yehuakim Stein[30] definisce la Sindrome Ddd: dread dependency and debility (terrore, dipendenza e indebolimento) - associata a mancanza di cibo, sono, movimento, assenza di stimoli mentali, che possono indurre uno stato di dipendenza totale nei confronti degli interroganti ed il cui effetto generale è di terrore psicologico profondo.

Indipendentemente da come procede la fase dell’interrogatorio e dalle condizioni psico-fisiche dei detenuti, il processo discriminatorio e punitivo procede per tutto il periodo di detenzione durante il quale i minori non possono usufruire di adeguate cure mediche, non sono previste attività sportive o ricreative e non hanno l’opportunità di continuare gli studi.

 

La dinamica dell’eroe: effetti psicologici e sociali della detenzione

 

Per molto tempo i giovani palestinesi, compresi i minori sono stati sono stati considerati una specie di avanguardia della resistenza politica all’occupazione, partecipando attivamente alla lotta. Già durante la I Intifada (1987 – 1992) i minori hanno avuto un ruolo di primo piano in molti eventi politici e sociali[31].

Tale fatto non dovrebbe sorprendere in una società in cui la maggior parte della popolazione è costituita da persone al di sotto dei trent’anni.

 

Lo spettacolo pubblico della violenza, inteso dagli israeliani come un mezzo per controllare la rivolta imprime sui corpi i segni dell’occupazione; durante la prima Intifada cominciò ad essere percepito dai palestinesi come una sorta di rito di passaggio, una prova per accedere all’età adulta. Così la violenza fisica ha generato un processo di reinvenzione non solo dei generi ma anche delle gerarchie sociali palestinesi[32].

Soprattutto in una cultura dove l’onore è legato al coraggio e alla capacità di difendere se stessi e la propria comunità dalle aggressioni esterne, il trattamento inflitto dai soldati ai giovani era un mezzo per umiliare e sottomettere: l’occupazione militare svilisce la mascolinità, poiché il rapporto di forza con i soldati è talmente sbilanciato da non lasciare ai ragazzi molte possibilità di farsi onore. I palestinesi hanno rovesciato questa relazione e la violenza inscritta nei corpi è diventata l’elemento su cui costruire la propria identità[33]. Il combattente, il resistente e sopratutto - per quanto riguarda gli shabab[34]- il lancio di pietre, assume un significato politico e culturale rilevante. Questi aspetti possono, in parte, spiegare ma non giustificare il comportamento punitivo dell’IDF[35] e dei servizi di sicurezza israeliani fin dalla prima sollevazione popolare e consolidatosi durante la II Intifada (settembre 2000). In quest’ottica è possibile iniziare a comprendere il particolare fenomeno conseguente alla detenzione ovvero la dimensione eroica.

Il minore catturato dai militari, detenuto per periodi più o meno lunghi diviene un eroe, un modello, soprattutto nel periodo 1987–1992. L’ingresso in carcere realizza un secondo rito di passaggio collocando il minore definitivamente fuori da un contesto di sviluppo "normale". Tuttavia l’identità "eroica" – capace di fornire una qualche protezione psicologica durante la detenzione – può essere utilizzata finché esiste una società capace di far fronte alle situazioni traumatiche imposte dalla guerra e dall’occupazione prolungata. In particolare con l’avvento della II Intifada tali condizioni non esistono più o sono fortemente indebolite. Come sostengono gli psicologi del PCC[36], la dimensione eroica si è molto sviluppata durante la prima Intifada come risposta individuale al trauma vissuto. Con un elevato riscontro all’interno della comunità.

In effetti gli shabab che affrontavano i soldati con le pietre, le vittime delle armi israeliane, picchiati e torturati nelle prigioni,[37] i giovani sui cui corpi erano iscritti i segni della violenza, divennero i veri protagonisti della retorica dell’Intifada.

Ma durante la seconda Intifada tutta la comunità è stata sotto pressione si sono accentuati gli aspetti di trauma secondario[38]. L’esercito non ha fatto nessuna distinzione tra combattente e civile. È aumentata la frustrazione delle persone uscite dal carcere, le persone hanno sviluppato un sentimento di non comprensione. La società non ha saputo, né potuto, rispondere poiché senza energia per seguire le singole persone e la rapidità degli eventi. La forza d’urto delle armi, dei tanks, la continua distruzione di case e istituzioni ha minato il tessuto sociale stesso che è andato disgregandosi. Il minore, eroe in molti casi solo per se stesso, si è ritrovato solo, senza una adeguata copertura di significati delle sue azioni. Con moltissime conseguenze su più piani. Se da un lato – soprattutto per i gruppi militanti – il minore[39] è considerato un eroe, dall’altro le famiglie tendono a costruire un ambiente iperprotettivo[40] tentando di trattenere i figli a casa, manifestando e comunicando le proprie paure. Contemporaneamente, i familiari temono che durante la detenzione i militari abbiano convinto i minori a trasformarsi in collaboratori degli occupanti, fenomeno che ha gravi ricadute e reazioni da parte di altri membri della comunità. Sotto un altro profilo ancora, i minori ex-detenuti, spoliati delle loro prerogative identitarie molto spesso si trovano a non avere più un preciso ruolo sociale e tendono a non rispettare più gli adulti che appaiano modelli non validi di riferimento. Secondo Zyad Abbas, responsabile del centro culturale Ibda’[41] le forse militari israeliane "controllano" l’educazione. Nel senso che dominano la vita quotidiana delle persone influenzando la cultura e il comportamento della popolazione, i rapporti di ruolo per cui colui che è armato è il più forte. In questa situazione si sviluppano modelli comportamentali aggressivi in cui è la violenza il segno distintivo ed espressivo.

In particolare – a parte le strategie di coping adottate dai minori ex-detenuti – le conseguenze immediatamente psicologiche della detenzione sono: paure, fobie, elevata e costante tensione, somatizzazione[42], oltre a varie difficoltà scolastiche dovute anche al disagio di doversi reinserire nel mondo scolastico dopo un periodo più o meno lungo di interruzione forzata.

Resta quindi evidente che le inumane condizioni di vita dei minori palestinesi che sono state imposte durante il periodo di detenzione e i degradanti maltrattamenti, comprese le torture durante la fase degli interrogatori lasciano disturbi di grande portata che rimarranno per il resto della loro vita. L’estensione del danno è diversa per ognuno e dipende dall’età, dal sesso, dalla quantità di pressione fisica o psicologica che hanno subito durante la detenzione[43].

Sul versante sociale, gli specialisti affermano che i minori trovano veramente difficile reinserirsi nella società. Ciò è dovuto alla lunga assenza dai loro familiari, dalla scuola e dal vicinato. Peggio è la situazione per le ragazze ex-detenute per le quali ritornare ad una vita normale è quasi impossibile, anche perché la parte tradizionale della società palestinese le guarda con sospetto e diffidenza[44].

A livello ministeriale sono stati approntati diversi servizi di supporto e riabilitazione dei minori ex-detenuti i cui gli psicologi riportano che gli effetti più comuni della detenzione sono[45]:

paura

tensione e ansia

difficoltà di controllo o gestione delle emozioni

difficoltà di concentrazione

immagine della società: essi sono considerati ancora come minori mentre loro stessi non si riconoscono come tali. I familiari si aspettano di essere obbediti. Tali minori sono incapaci di giocare con gli altri.

sentimento di sentirsi incompresi

scarse abilità comunicative

sentimento di imbarazzo o inadeguatezza rientrando a scuola

i familiari tendono a considerarli fragili e bisognosi di protezione

alcuni gruppi politici tendono a trattarli in maniera negativa: considerando questi minori come eroi e non comprendendo realmente i loro bisogni naturali di crescita e protezione.

In sintesi, come ben riconosciuto da DCI[46], la maggior parte dei sintomi di cui soffrono i minori ex-detenuti sono inquadrabili all’interno della sindrome post-traumatica da stress con tutte le ovvie conseguenze sul piano psico-fisico, sociale e relazionale, aggravato da un contesto che vive una sorta di trauma continuato da cinquant’anni circa.

 

Conclusione

 

Con questo articolo abbiamo voluto fornire un fermo immagine di uno degli aspetti della condizione minorile palestinese. Nonostante le informazioni e i dati trattino di un periodo relativamente breve, la situazione quotidiana risulta assai più dinamica. Nelle esperienze e nelle conversazioni quotidiane con la popolazione locale emergono sempre aspetti di violenza o storie di detenzione, in particolare emerge chiaramente che quasi ogni palestinese ha subito o ha un parente prossimo in carcere o che vi è stato, che ha un parente prossimo ferito/ucciso, oppure si è sentito in totale arbitrio da parte dei militari. Il palestinese esprime un vissuto con sentimenti di diffuso senso di malessere, insicurezza per sé e per gli altri, un senso totale di precarietà ed impossibilità di progettazione futura.

Note

 

[1] In arabo sollevazione popolare.

[2] Dati riportati da Defence for Children International, Palestine Section (DCI/PS), in "Fragile Childhood - An Analysis of Human Rights Violations Against Palestinian Children in 2003", Ramallah, April 2004, p.44. Gli stessi dati sono stati pubblicati dal Mandela Institute for Human Rights, "Palestinian Juveniles in Israeli Custody" al http://www.mandela-palestine.org e dal Ministero palestinese per gli Affari dei Detenuti e degli Ex-Detenuti.

[3] Dati riportati da DCI/PS al sito http://www.dci-pal.org

[4] Come da definizione della Convenzione Internazionale contro la Tortura e altre Pene o Trattamenti Crudeli, Inumani e Degradanti, 1984 e ratificata da Israele nel nov. 1991.

[5] L’Autorità Palestinese ha comunque un sistema giudiziario minorile che si occupa di casi civili e criminali commessi tra palestinesi.

[6] Per ulteriori informazioni, consultare: B’Tselem, http://www.btselem.org

[7] A dicembre 2004 il numero di persone detenute in questa forma giuridica erano 954. Intervista degli autori allo staff del Mandela Institute for Human Rights in data 08.12.04

[8] La sicurezza è un concetto pervasivo che coinvolge tutti gli aspetti della vita per entrambi i popoli. Ogni azione, ogni comportamento può essere materia di sicurezza: dalla costruzione del muro, alle limitazioni sugli spostamenti, agli approfonditi controlli aeroportuali, alle guardie private davanti ai supermercati e locali pubblici, alle improvvise imposizioni di coprifuoco diurno, alle interruzioni di riunioni o meeting, alla concessione o ritiro di ogni tipo di permesso, fino alla facoltà per i coloni di girare armati ed in modo visibile per le vie delle città. Ogni aspetto della vita può essere arbitrariamente considerato pericoloso e quindi sottoposto a sicurezza, compreso il blocco da parte delle forze armate delle ambulanze palestinesi con feriti o donne incinta a bordo. (riportato in "Harm to Medical Personnel", B’Tselem 2003)

[9] Presunti in quanto non esiste nessun obbligo giuridico che vincoli le autorità a fornire i motivi per cui una certo atto è considerato pericolo per la sicurezza.

[10] Il sovra-utilizzo di tale forma detentiva viola la Quarta Convenzione di Ginevra (art. 42), la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (artt. 9 e 10) e la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (artt. 9(1) e 14). Non può essere utilizzata come una forma di punizione, ma deve essere usata quando altre forme di detenzione meno severe, si sono rivelate inefficaci. La detenzione amministrativa non deve essere applicata collettivamente, ma solo individualmente, sulla base di accuse specifiche nei confronti di tale persona. Vedi Audrey Bomse, "Palestinian Prisoners: Legal Analysis", JCHR & Mandela Institute for Human Rights, Ramallah, 2nd Edition, July 2004, pag. 29

[11] Articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

[12] In base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra, è vietato il trasferimento e la deportazione di parti della popolazione civile appartenenti alla potenza occupante nei territori che la suddetta occupa.

[13] Sezione 3 della Israeli Guardianship and Legal Capacity Law, 1962

[14] Traduzione dall’inglese ad opera degli autori.

[15] Ordine Militare 132. Vedere anche C. Cook, A. Hanieh, A. Kay, "Stolen Youth, The Politics of Israel’s Detention of Palestinian Children", 2004, p. 111

[16] "Palestinian Juveniles in Israeli Custody", http://www.mandela-palestine.org

[17] L’Ordine Militare 101 impone 10 anni di prigione ad ogni persona che ha partecipato a qualsiasi attività contro l’occupazione, incluso il fatto di partecipare ad un meeting di 10 persone o più, o per aver alzato la bandiera palestinese. Vedi nota sopra.

[18] Dal 1967 più di 650.000 palestinesi della Cisgiordania e di Gaza sono stati detenuti da Israele per forme attive e passive di resistenza all’occupazione. Questo numero costituisce approssimativamente il 20% del totale della popolazione palestinese dei Territori Occupati, e il 40% del totale della popolazione maschile palestinese. Vedere Audrey Bomse, "Palestinian Prisoners: Legal Analysys", JCHR & Mandela Institute for Human Rights, Ramallah, 2nd Edition, July 2004, pag. 1

[19] "Torture of Palestinian Minors in the Gush Etzion Police Station", B’Tselem, materiale informativo luglio 2001

[20] "One day in Prison – Palestinian children tell their own stories", Save the Children Sweden, materiale pubblicato nel 2003

[21] Ministero palestinese dei Detenuti e degli Ex-Detenuti, montly update nov. 2004

[22] Articolo 37(b) della Convenzione sui Diritti del Fanciullo

[23] "Palestinian Juveniles in Israeli Custody", http://www.mandela-palestine.org

[24] M. Dinucci, "Ecco i manuali dei torturatori Usa", Il Manifesto, 12 maggio 2004

[25] "Fragile Childhood - An Analysis of Human Rights Violations Against Palestinian Children in 2003", Defence for Children International, Palestine Section (DCI/PS), Ramallah, April 2004, p. 44

[26] La posizione più tristemente famosa è quella dello Shabah, frequentemente usata sui prigionieri palestinesi. In tale posizione, il detenuto è costretto su una sedia bassa, leggermente sporta in avanti, con le braccia legate dietro la schiena – un braccio dietro la schiena, e l’altro dietro lo schienale della sedia – e le gambe piegate sotto la sedia. Il detenuto viene tenuto in questa posizione per molte ore. Inoltre, gli può essere applicato un sacco sulla testa.

[27] Informazioni disponibili sui siti di B’Tselem (vedi bibliografia), DCI/PS (vedi bibliografia). Per ulteriori informazioni sull’utilizzo della tortura da parte delle forze di sicurezza israeliane, controllare sul sito di Public Committee Against Torture in Israel (PCATI), consultare "Flawed Defence - Torture and Ill-treatment in GSS interrogations following the Supreme Court Ruling. 6 September 1999 - 6 September 2001" e "Back to a Routine of Torture – Torture and Ill-Treatment of Palestinian Detainees during Arrest, Detention and Interrogation. September 2001 – April 2003", entrambi disponibili al sito dell’organizzazione http://www.stoptorture.org.il

[28] M. Dinucci, "Ecco i manuali dei torturatori Usa", Il Manifesto, 12 maggio 2004

[29] L’Ordine Militare 1500 stabilisce che possano passare 18 giorni prima della formulazione delle accuse; periodo durante il quale l’interrogatorio e i maltrattamenti continuano. Vedi nota 15.

[30] J. Cook "La Guantanamo di Israele", Le Monde Diplomatique, novembre 2003

[31] Multi-sector Review of East Jerusalem Arab Studies Society, aprile 2002

[32] F. Riccardi, tesi per Dottorato di ricerca – XIII ° Ciclo Scienze antropologiche e analisi dei mutamenti culturali dal titolo "ARD FILASTINIIN, Forme di auto-rappresentazione e relazioni di potere dal punto di vista palestinese", Napoli, gennaio 2003

[33] F. Riccardi, tesi per Dottorato di ricerca – XIII ° Ciclo Scienze antropologiche e analisi dei mutamenti culturali dal titolo "ARD FILASTINIIN, Forme di auto-rappresentazione e relazioni di potere dal punto di vista palestinese", Napoli, gennaio 2003

[34]Shabab in arabo significa ragazzo, non ancora adulto

[35] Israeli Defence Force

[36] Intervista degli autori allo staff degli psicologi del PCC nella sede di Beit Hanina (Gerusalemme), il 18.04.04. Sito web: http://www.pcc-jer.org

[37] Nei primi quattro anni dell’Intifada furono feriti approssimativamente 106.600 palestinesi. Durante la prima Intifada (1987-1993) furono uccisi 1.105 palestinesi. L’esercito israeliano arrestò in quegli anni 175.000 persone (Passia, 2002: 260).

[38] Intervista degli autori allo staff degli psicologi del PCC nella sede di Beit Hanina (Gerusalemme), il 18.04.04. Sito web: http://www.pcc-jer.org

[39] Soprattutto maschio. In generale e soprattutto nell’ultima Intifada, la ragazza arrestata, detenuta e torturata, subiva poi un processo di discriminazione sociale con difficoltà di matrimonio maggiore delle altre ragazze, ma anche con difficili rapporti di ruolo con i maschi nel momento in cui esse richiedono un rapporto paritario.

[40] Aspetti emersi durante le interviste con i counselour psico-sociali del Ministero degli affari dei Detenuti e degli Ex-Detenuti dell’ ANP, sede centrale di Ramallah.

[41] Il centro si trova nel campo profughi di Dheisheh di Betlemme. Intervista agli autori rilasciata il 15.04.04

[42] Intervista degli autori allo staff degli psicologi del PCC, nella sede di Beit Hanina (Gerusalemme), il 18.04.04. Sito web: http://www.pcc-jer.org

[43] "Palestinian Juveniles in Israeli Custody", http://www.mandela-palestine.org

[44] http://www.mandela-palestine.org

[45] Ministry of Detainees and Ex-Detainees Affairs, Child and Youth Department. Interviste rilasciate agli autori dalla responsabile delle pubbliche relazioni, Khulod Nijem Siam e dallo staff psico-socio-educativo del ministero nel periodo marzo/maggio 2004.

[46]Campagna "FREDOM NOW: Campaign to Release Palestinian Child Prisoners". Materiale informativo consultabile al sito http://www.dci-pal.org/english/camp/freedom/display.cfm?docid=243&categoryid=14

Autori

 

Dott. Luca Modenesi

 

Psicologo, laureato all’Università di Padova, si occupa di problemi sociali, marginalità e detenzione da molti anni. Ha collaborato con l’associazione C.I.A.O. di Firenze come responsabile di un progetto di accoglienza, il supporto e l’inclusione sociale di detenuti ed ex-detenuti. Attualmente risiede a Gerusalemme dove lavora come consulente per una Ong italiana (Prosvil). Ha svolto diversi viaggi nei territori occupati della Palestina ed in Israele durante i quali ha raccolto materiale e svolto interviste agli operatori sociali locali, da cui ha tratto il materiale per questo articolo.

 

Dott.sa Giorgia Frignone

 

Laureata in Scienze Politiche all’Università di Pavia, Master in Teoria e Pratica dei Diritti Umani presso l’Università di Essex (Uk). Risiede in Palestina dal giugno 2002, dove ha lavorato presso il Palestinian Centre for Human Rights (Pchr) a Gaza. Attualmente è Human Rights Officer per il Jerusalem Centre for Human Rights (Jchr), Ong palestinese, dove si occupa di ricerca legale e del monitoraggio e della difesa dei diritti umani dei palestinesi residenti a Gerusalemme Est.

 

 

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