Carceri nel mondo

 

Le carceri private costano meno e funzionano

In Usa, Gran Bretagna e Australia l’esperimento non è più un tabù

 

Il Riformista, 14 agosto 2003

 

La competizione migliora anche il "pubblico", ma c’è il pericolo di una lobby che vuole sempre più detenuti. Privatizzare le prigioni? La proposta del Riformista ha suscitato qualche mezzo sorriso, qualche sguardo imbronciato. Eppure, nel mondo, già oggi esistono più di 180 carceri private (fra Stati Uniti, Gran Bretagna ed Australia) che ospitano circa 140 mila detenuti. Negli Usa, la prima esperienza di un istituto di detenzione affidato in appalto data il 1984: il contratto venne stipulato fra la Hamilton County (Chattanooga, Tennessee) e la Corrections Corporation of America (i capitali sono gli stessi del popolare fast food Kentucky Fried Chicken). Nel 1985, segue l’intesa fra lo stato del Kentucky e la Us Corrections Corporation, di lì a poco il primo appalto a livello federale. Oltre alla Cca, l’altra maggiore impresa nel settore è Wackenhut, fondata nel '54. Inizialmente, si pensava che l’intervento dei privati in un settore così strategico per il "pubblico" dovesse limitarsi a strutture di dimensioni limitate, destinate a detenuti di pericolosità ridotta. Tuttavia ormai è prassi che il governo - statale o federale - stipuli contratti per la gestione di penitenziari che stipano dai 1000 ai 2000 galeotti, per un livello di sicurezza medio o alto. Nel 1994, secondo Charles W. Thomas della University of Florida, il ricorso alle carceri private contribuiva a far risparmiare ai contribuenti 150 milioni di dollari l’anno. L’assottigliamento dei costi riguarda non solo stipendi e impianti, ma germoglia dall’evaporazione degli intoppi burocratici. Gli istituti privati sono organizzati in modo da facilitare una gestione con meno personale e, di necessità, con personale sovente meno qualificato. Questo è vero soprattutto per quel che riguarda i quadri intermedi, e ha scatenato in passato qualche polemica. È altrettanto vero che è assai difficile comparare i costi di una struttura privata con quelli di una statale: difficile imbattersi in realtà che siano adeguatamente commensurabili, tanto più che non sempre il settore pubblico brilla per trasparenza. Tuttavia, ci sono alcune esperienze significative: l’economista australiano Allan Brown ha sottolineato come una prigione "privata" nel Queensland avesse costi inferiori del 20% rispetto ad una "gemella" prigione pubblica.

Un paper del 1989, firmato da uno dei massimi esperti sul tema, il sociologo Charles H. Logan, ha invece concentrato l’attenzione su Hamilton County, sottolineando come la privatizzazione avesse ridotto i costi del 5,4%. Nel 2000, lo stato dell’Arizona stimava un risparmio del 15% sui costi della gestione giornaliera, mentre in Texas si parla di circa il 10%. È interessante notare come anche le spese di costruzione di un nuovo istituto siano, in media, del 15-20% inferiori. Vero e proprio boom dell’edilizia carceraria è quello che ha luogo negli stati del Sud, ai quali - assieme al frequente sfrigolio della sedia elettrica - ha fruttato l’appellativo di punishment belt. Certo l’industria della detenzione lì fiorisce, innaffiata da un generoso flusso di fondi pubblici.

D’altro canto, gli standard restano a un livello elevato (in vent’anni, solo una di queste strutture, in Texas, è stata chiusa d’imperio per palese inadeguatezza), un po’ grazie alla supervisione del governo, un po’ perché l’industria ha i propri meccanismi di accreditamento, stabiliti dalla American Corrections Association. Curiosamente, mentre il 45% delle prigioni private supera gli scogli dell’accreditamento, con una punta dell’85% per quanto riguarda il gigante del settore Cca, solo il 10% delle carceri di stato riesce a vantare un riconoscimento analogo. In Gran Bretagna (dove oggi i penitenziari privati sono sei), la proposta di de-statalizzare gli istituti di correzione venne avanzata, per la prima volta, in un paper dell’Adam Smith Institute nel 1984, ma fu dapprima lasciata cadere nel vuoto. È solo nel 1988 che l’idea cominciò a prender corpo. Nel 1991 viene bandita una gara d’appalto per la gestione della Wolds Remand Prison, vinta dallo stesso gruppo che ne conserva tutt’ora la gestione (Group 4 Prison Services).

L’istituto apre i battenti nel 1992 (costruita da Mowlem e McAlpine per 35 milioni di sterline), e si conquista giudizi lusinghieri nei rapporti puntigliosi stilati, periodicamente, per verificarne il rendimento. La capienza è di circa 300 galeotti. Nel 1999, è al centro di una storia curiosa: alcuni detenuti, infatti, chiedono di essere trasferiti altrove perché i secondini sarebbero "troppo amichevoli", spezzando così il gioco delle parti tra guardie e ladri. Del resto, il "Mission Statement" di Wolds salutava come proprio obiettivo principe il "fornire ai prigionieri un ambiente corretto, sano, umano e costruttivo". Un rapporto dell’istituto di criminologia dell’Università di Cambridge segnala come i miglioramenti che in anni recenti si sono avuti nella gestione pubblica del sistema carcerario siano in grossa parte un effetto della pressione competitiva di strutture private.

La tesi che le prigioni private rappresentino un significativo salto in avanti sulla strada della "produzione privata della sicurezza", è fatta propria da un recente volume del californiano Independent Institute, curato dall’economista Alex Tabarrok. Tuttavia, se c’è molto entusiasmo da parte di studiosi libertari, c’è almeno un problema che non si può tacere. Il fatto, cioè, che carceri orientate ad un uso proficuo del lavoro forzato, costituiscono naturaliter una lobby che mira ad evitare la legalizzazione dei victimless crimes. Non solo perché la "guerra alla droga" ha fatto lievitare la popolazione carceraria, ma soprattutto in quanto è più facile gestire (e spremere) detenuti colpevoli di crimini "minori", anziché ladri e assassini. Ecco perché il sovrintendente del Dipartimento penitenziario del Nuovo Galles del Sud (Australia) si è detto inquietato dalla "prospettiva di imprese private il cui futuro economico dipende da un numero crescente di reclusi (con pene più lunghe), che potrebbero influenzare i partiti politici". Nemmeno la privatizzazione delle carceri, insomma, esaurisce la riforma della giustizia.

 

 

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