Carceri nel mondo

 

L’istruttoria processuale nelle legislazioni penali europee

 

La nozione stessa del "processo" implica l’idea di un cammino da percorrere in vista del raggiungimento di certi obiettivi. Il più evidente degli obiettivi connessi alle regole del processo penale è quello della scoperta della verità. Esplicitata dal codice francese e da quello belga a proposito dei compiti del giudice istruttore (il quale procede, appunto, "a ogni atto che egli ritenga utile alla scoperta della verità"), e prevista anche in Germania, questa formula fondamentale è scomparsa dal codice italiano assieme alla figura stessa del giudice istruttore. Ma, la Corte Costituzionale ha più volte ricordato, in pronunce successive alla riforma del 1998 che abolì la figura del giudice istruttore, come la ricerca della verità rimanga "fine primario ed ineludibile del processo penale". E, dall’Inghilterra, il giurista John Spencer, affermava già nel 1993 che, dietro le divergenze fra i diversi sistemi probatori "si nasconde uno scopo comune, quello della scoperta della verità".

Dopo questa premessa, una prima difficoltà riguarda la disciplina della ricerca della verità. Sta qui il nodo cruciale della tematica della prova, soggetta a regole che contrappongono tuttora, e però sempre meno, la concezione accusatoria (in Inghilterra e, con il nuovo codice, in Italia) a quella inquisitoria (Germania, Belgio, Francia). La difficoltà, comune alle due concezioni, è che la verità dev’essere ricercata non a qualsiasi prezzo, ma nei limiti imposti dai diritti fondamentali della persona.

Certo, un ricorso indiscriminato alle intercettazioni telefoniche permetterebbe, in molti casi, di conoscere e provare la verità, ma esse sono ammissibili solo a condizioni molto rigorose, così da essere compatibili con il rispetto della privacy. Quanto alla tortura, anche supponendo che sia efficace, nessuno oserebbe sostenere che vi si possa ricorrere in nome dell’esigenza di accertare la verità, dato il disprezzo per la dignità della persona che essa comporta.

 

La prova come passaggio obbligatorio per la condanna penale: una regola fondamentale… ma non dappertutto

 

Nel diritto francese è regola fondamentale che la responsabilità penale della persona sottoposta a processo debba necessariamente essere stabilita sulla base di prove; e lo stesso è a dirsi per gli altri Paesi continentali di cui ci si occupa.

In questi ordinamenti l’obbligo di attenersi alle prove non viene meno neppure quando l’accusato, nella fase istruttoria o in quella di giudizio, si riconosce colpevole: se l’accusato ammette i fatti, la sua confessione è una prova come tutte le altre. Insomma, sebbene una prova del genere sia frequentemente idonea di per se a convincere l’organo giudicante, è pur vero che quest’ultimo non è vincolato ad ammetterla e, anche dopo averla ammessa, conserva la sua libertà di pronunciare una decisione di proscioglimento.

A tal riguardo si riscontra invece una notevole peculiarità del diritto inglese, come nel diritto degli altri paesi di common law. Qui, è determinante il fatto che l’accusato si riconosca colpevole: se ciò accade, l’accusa è conseguentemente dispensata dall’obbligo di produrre prove e il giudice non può far altro che condannare l’accusato, anche quando egli non sia intimamente convinto della sua colpevolezza.

Non si deve sottovalutare l’importanza pratica del fatto che, nel diritto inglese, un guilty plea (dichiarazione di colpevolezza) dispensa le corti dall’onere di fondare una condanna su (vere e proprie) prove. In Inghilterra, le regole probatorie sono notevolmente più rigorose di quanto non siano nei paesi dell’Europa continentale; ma il fatto che la stragrande maggioranza delle cause passino attraverso un guilty plea porta in pratica ad aggirare largamente una disciplina pur tanto rigorosa: il che pone un serio problema nel caso in cui l’accusato si dichiara colpevole, e perciò ammette i fatti che fondano la sua responsabilità, ma contesta all’accusa l’esistenza di qualche elemento suscettibile di aggravare o di attenuare la pena (ad esempio, quando egli ammette sì di aver ferito una persona, ma contrariamente alla versione dei fatti data dall’accusa afferma che l’aggressione è partita dalla vittima). Secondo la giurisprudenza, il giudice, in una situazione del genere, ha di fronte a se una scelta: o convoca i testimoni per stabilire la verità, oppure accoglie le richieste della difesa circa la pena.

Insomma, non può infliggere una pena conforme all’ipotesi dell’accusa senza aver sentito oralmente i testimoni. È solo in Italia, tuttavia, che qualcosa d’analogo è stato introdotto con il cosiddetto "patteggiamento" (che la legge chiama «applicazione della pena su richiesta delle parti»).Tale istituto è meno radicale che il suo omologo inglese nel rimuovere l’onere, gravante sugli organi giurisdizionali, di fondare la condanna su prove, poi che il giudice italiano a differenza del suo attuale collega d’Oltremanica dispone dell’espresso potere di respingere l’accordo che le parti gli sottopongono, con la conseguenza, in tal caso, di obbligare l’accusa a portare le sue prove, sulle quali l’organo giurisdizionale sarà poi tenuto a fondare il proprio giudizio. C’è poi una differenza di principio, giacché in Italia l’accusato che "patteggia", sebbene accetti di essere punito, non ammette formalmente di essere colpevole, e non è dunque formalmente condannato, mentre il suo omologo inglese, attraverso il guilty plea, ammette invece la propria colpevolezza e appare dunque come un condannato.

 

La presunzione d’innocenza

 

In tutti gli ordinamenti qui presi in considerazione e, probabilmente, ovunque in Europa la presunzione d’innocenza è riconosciuta come principio cardine del sistema di giustizia penale. Nei quattro paesi continentali di cui ci si è occupati, e nei quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è applicata direttamente, la presunzione d’innocenza trova una base legale nell’art. 6.2 della Convenzione medesima, per cui «ogni persona accusata di un reato si presume innocente fino a che la sua colpevolezza non venga legalmente provata». In Francia e in Italia, inoltre, la presunzione ha altresì la sua base nel diritto interno: in Francia il principio discende dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, del 1789, oggi incorporata nel cosiddetto "blocco di costituzionalità"; in Italia è riconosciuta dall’art. 27, comma 2, della Costituzione.

In Inghilterra il principio non ha una base legale testuale di fonte interna, come quasi tutti gli altri principi fondamentali della procedura penale inglese; in una celeberrima sentenza, però, la Camera dei Lords ha paragonato il suddetto principio ad un filo d’oro, dicendo che nella tela del diritto penale inglese tale filo è sempre visibile.

In Inghilterra, d’altronde, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non trova applicazione diretta, ma è pur vero che l’art. 6.2 rinforza la presunzione, nella misura in cui il giudice e il legislatore stesso fanno generalmente in modo che il diritto interno sia conforme alla Convenzione.

 

Presunzione d’innocenza e presunzioni di segno opposto

 

Qual è, però, l’effetto di tale articolo della Convenzione, in rapporto all’abitudine che hanno giudici e legislatori, di creare situazioni in cui l’onere della prova è invertito, nel senso che viene a farsi carico all’accusato di dimostrare la sua innocenza se non vuol essere condannato?

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha fissato una serie di regole, affermando in particolare che il principio della presunzione d’innocenza è derogabile, a condizione che le presunzioni di segno opposto ammettano la prova contraria e che le stesse non oltrepassino i "limiti ragionevoli", tenuto conto della serietà della posta in gioco e delle esigenze di salvaguardia dei diritti della difesa. Così la Corte europea ha ritenuto non fonata la doglianza di una persona, condannata per contrabbando di sostanze proibite pur in mancanza di una prova diretta del fatto che essa era a conoscenza della natura di stupefacente della sostanza da lei posseduta.

Nelle normative dei cinque paesi esaminati, troviamo deroghe di tre tipi. In primo luogo, esistono reati in ordine ai quali uno degli elementi costitutivi generalmente, quello psicologico è presunto, incombendo quindi sulla difesa l’onere di provarne l’assenza. In Francia, così come in Inghilterra, per esempio, è colpevole di sfruttamento della prostituzione, colui che non può giustificare d’avere risorse economiche corrispondenti al suo tenore di vita, convivendo con una persona dedita abitualmente alla prostituzione.

In secondo luogo, vi sono casi in cui, l’onere della prova, grava sull’accusato quanto ai fatti giustificativi o alle cause di non imputabilità. Il diritto francese, ad esempio, sembra mettere a suo carico la prova delle esimenti come la legittima difesa, nonché di cause che escludono l’imputabilità come la coazione o il vizio totale di mente, considerando che esiste una presunzione generale d’equilibrio mentale e di libera determinazione.

Nel diritto inglese è la stessa cosa per l’infermità mentale, ma attualmente la situazione è rovesciata per quanto concerne la maggior parte degli altri elementi che escludono la punibilità o l’imputabilità: la difesa ha l’onere di invocarli portando prove a sostegno; però, una volta sollevata la questione, tocca all’accusa convincere la corte dell’inesistenza dell’esimente o della causa di non imputabilità. Quanto all’Italia, la soluzione favorevole all’accusato, anche in caso di dubbio sulle esimenti, si ricava direttamente da espresse disposizioni di legge.

In terzo luogo, vi possono essere disposizioni specifiche in tema di prova dei reati minori, di competenza delle corti inferiori. In Francia, per esempio, l’art. 537 CPP prevede che, salva diversa disposizione di legge, i verbali o i rapporti redatti da ufficiali e agenti di polizia giudiziaria fanno fede fino a prova contraria. Nel diritto inglese esiste qualcosa di simile per via dell’art. 101 del Magistrates’ Court Act, dove si prevede che, quando una legge impone un divieto e contempla altresì un’eccezione al divieto medesimo, è l’accusato ad avere l’onere di provare che il suo caso rientra nell’ambito dell’eccezione.

Può aggiungersi che anche l’approccio ad un’altra tematica, teoricamente distinta da quelle appena ricordate, porta in pratica, negli ordinamenti analizzati, a uno sbocco analogo: ci si riferisce alle fattispecie per le quali la rilevanza dell’elemento psicologico è sostanzialmente messa in parentesi. In Francia si parla di reati materiali, categoria alla quale appartiene la maggioranza delle contravvenzioni: il che spiega pure come mai si parli di colpa contravvenzionale per indicare la non necessità di una colpevolezza nel senso normale del dolo o della colpa per negligenza.

 

L’evoluzione della normativa in materia di prova e di presunzione d’innocenza

 

In prospettiva storica, si può dire che gli ordinamenti giuridici dei paesi europei rispettino sempre di più la presunzione. Quale esempio di tale tendenza possiamo citare la limitazione recentemente operata

nel diritto francese per ridurre la portata della colpa presunta, che anteriormente si riferiva anche a un buon numero di delitti, ma che il nuovo codice penale restringe salvo disposizione contraria alle sole contravvenzioni. Possiamo anche ricordare che nel diritto inglese moderno l’onere della prova grava di regola sulla Prosecution, non solo per quanto attiene all’elemento psicologico, ma anche a proposito delle cause di giustificazione e di quelle di non imputabilità, mentre antecedentemente, a tal riguardo, era l’accusato a dover sopportare quell’onere. Possiamo ancora citare la soppressione, da parte del vigente codice italiano di procedura penale, dell’assoluzione "per insufficienza di prove", vale a dire di quella formula che consentiva bensì ai giudici di assolvere in caso di dubbio, ma rendendo tuttavia palese, già nel dispositivo della sentenza, la convinzione che il soggetto assolto era probabilmente colpevole.

D’altra parte il legislatore moderno, sotto la pressione dell’opinione pubblica, tende a creare sempre nuovi reati, talvolta gravi, per i quali i testi di legge fanno gravare sull’accusato l’onere di provare l’innocenza. Ad esempio, una legge italiana de11992, per intensificare la lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, poneva a carico dell’accusato la mancata dimostrazione della provenienza legittima di determinati beni (la Corte costituzionale ha però dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale disposizione).

È il caso di ricordare che la presunzione stessa ha un campo di applicazione molto più vasto: cosi, ad esempio, nel campo delle misure cautelari e, in particolare, della custodia in carcere. Su un piano diverso, ma in una prospettiva analoga, si mira a tutelare la reputazione delle persone, trattandosi di evitare che la condizione di accusato produca un danno che finisce col perdurare anche qualora il processo abbia un esito a lui favorevole.

 

Il livello di certezza da conseguire

 

Con riferimento ai paesi di common law si sostiene in teoria che la colpevolezza dell’accusato va dimostrata "al di là d’ogni ragionevole dubbio": formula, questa, sviluppata dai giudici inglesi nel corso del XVII e del XVIII secolo per istruire le giurie circa i loro doveri. Attualmente la formula che i giudici utilizzano ufficialmente, nell’atto di dare le loro direttive alle giurie, è la seguente: "Prima di poter condannare l’accusato, dovete essere certi della sua colpevolezza". La giurisprudenza inglese sconsiglia ulteriori elaborazioni di tale frase; e la dottrina afferma generalmente che " oltre ogni ragionevole dubbio" è un concetto insuscettibile di precisazioni; è però chiaro che "beyond reasonable doubt" denota un livello di certezza notevolmente più elevato di quello della "balance of probability", che è il livello da raggiungere in materia civile.

 

La formula "dell’intimo convincimento"

 

Per diritto francese, il giudicante non deve condannare, se non quando ha una profonda convinzione (intime conviction) che l’accusato è colpevole. Il concetto trova la sua più nota espressione nella famosa direttiva per i giurati, stabilita nell’art. 353 del codice francese di procedura penale: <La legge pone loro questa sola domanda, che racchiude tutta l’estensione dei loro doveri: "avete una profonda convinzione?">. E un analogo concetto si trova nel diritto belga, in quello tedesco e in quello italiano, come in genere nei sistemi che hanno subito, nel XIX secolo, l’influenza del diritto francese. C’è una reale differenza tra il livello di certezza evocato dall’espressione "beyond reasonable doubt" e quello cui fa riferimento il concetto della "intime conviction"?

L’origine di questa seconda espressione è certamente diversa da quella della prima. L’idea dell’intime conviction risale all’abbandono del sistema della "prova legale" all’epoca della Rivoluzione francese, quando si volle sottolineare che una corte non era più tenuta a condannare per il semplice fatto che si era messo insieme un certo numero di prove e che, reciprocamente, essa era libera di condannare sulla base di prove di qualsiasi tipo, purché le trovasse concludenti. Del resto, la maggior parte delle discussioni dottrinali e giurisprudenziali relative alla "intime conviction" non verte sul livello di certezza che la formula comporta, ma piuttosto sulla libertà che concede alle corti, di valutare le prove come sembra loro meglio. Si può aggiungere che il livello di certezza fornito dal criterio dell’intime conviction è ancora più difficile da determinare di quello che si vorrebbe ricavare dalla formula del beyond reasonable doubt.

Quale che sia il livello di certezza teoricamente richiesto dalla legge, è probabile che in pratica esso dipenda largamente dalla disposizione di spirito di colui o di coloro che hanno il compito di giudicare: se sono scettici o inclini a pensare che nessuno sia mai sottoposto a processo se non c’è qualche ragione per farlo essi saranno portati a condannare anche sulla base di prove comparativamente deboli; al contrario, quanto più essi sono ingenui o, per dirla in termini meno cinici, più hanno uno spirito aperto, tanto più concludenti dovranno essere le prove necessarie per convincerli. Si afferma talvolta che il giudice professionale (vale a dire il magistrato), più del giudice popolare, tende ad esprimere, in materia penale, un atteggiamento pregiudizialmente scettico verso le tesi difensive. Se il rilievo dovesse essere esatto, conseguenza ne sarebbe che il livello di certezza per condannare non varia, in realtà, in funzione della formula che un ordinamento giuridico adotta per esprimere la relativa regola, ma piuttosto in funzione della composizione degli organi giudicanti, e soprattutto del ruolo rispettivo che vi svolgono i giurati e i giudici professionali.

In tutti gli ordinamenti giuridici, la prova è libera, nel senso che ogni elemento pertinente può, di regola, costituire una prova. Il principio generale è quello dell’inclusione; non è, peraltro, meno vero che in ogni ordinamento esistono delle categorie di dati che, sebbene pertinenti, fanno eccezione alla regola, ossia non possono essere utilizzati come prove. Il numero e la natura di tali categorie varia da un ordinamento all’altro, come apparirà da quanto si sta per dire.

 

La prova ottenuta illecitamente, o slealmente

 

Una problematica ovunque presente è quella delle prove viziate nelle modalità per ottenerle. E l’interrogativo sull’ammissibilità delle prove ottenute illecitamente o slealmente pone questioni di principio profonde e controverse. Da un lato, si può constatare abbastanza facilmente una tendenza a fissare norme sulla ricerca delle prove cosi, ad esempio, sul modo di raccogliere le dichiarazioni di persone volte a garantire la qualità delle prove stesse: e si ammette che, una volta constatata la violazione di tali norme, debba giungersi fino all’estromissione della prova nella misura in cui l’inosservanza di quelle norme ne ha scalzato l’affidabilità. A ben vedere, però, il problema è più complicato. L’idea che la legge, senza tener conto dell’affidabilità o dell’inaffidabilità della prova, deve incoraggiare la polizia a rispettare i limiti dei suoi poteri, conduce a privare la polizia medesima, a titolo sanzionatorio, di tutti i vantaggi che possa ottenere per il fatto di non aver rispettato quei limiti. Le limitazioni dei poteri di polizia esistono per salvaguardare la libertà dei cittadini: un cittadino, resta tale anche quando è sotto processo e, tanto più se abbia già subito un danno per via della lesione apportata alla propria libertà, non deve subirne un secondo per via dell’utilizzazione, contro di lui, dei frutti del primo. Inoltre vi è l’idea che lo Stato perde la sua autorità morale, e dunque la legittimazione ad esercitare il diritto di punire coloro che violino le sue leggi, se, per ottenere le prove delle violazioni, i suoi stessi funzionari si rendano colpevoli d’altre violazioni. In senso inverso, tuttavia, c’è la necessità di punire i criminali, soprattutto coloro che si sono resi responsabili di delitti gravissimi. Quando un indizio illegalmente ottenuto dimostra che l’accusato è colpevole di uno di tali delitti, e non soltanto di un reato bagatellare, suscita sconcerto il sopprimere l’indizio stesso, se il risultato è di lasciare che un pericoloso criminale sfugga alla giustizia.

La legge ha anche il difficile compito di conciliare le diverse esigenze, e di trovare un equilibrio fra le tensioni che l’influenzano in differenti direzioni. Ecco perché la parte della normativa concernente le prove illegalmente ottenute è, nei paesi analizzati, particolarmente complicata. Ne, qui, è possibile, di conseguenza, trattarne se non in modo molto superficiale. Tra questi paesi è l’Italia quella che sembra avei adottato la posizione più rigorosa in tema di prove illecite: l’art. 191 del nuovo codice dispone, infatti, che "le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate".

Meno rigido, l’atteggiamento del diritto inglese. L’art. 76 del Police and Criminal Act 1984 impone un divieto totale, quanto all’utilizzazione come prova della confessione che sia stata ottenuta in forza di pressioni o in conseguenza di un comportamento che la rende meno credibile. Inoltre, l’art. 79 di tale legge accorda alle corti il potere discrezionale di escludere una prova che l’accusa si propone di portare, "se sembra alla corte che, tenuto conto d’ogni circostanza, ivi comprese quelle in cui la prova è stata ottenuta, l’acquisizione della prova stessa avrebbe un effetto cosi pregiudizievole per la correttezza processuale da impedirle di acquisirla". Tale ultima disposizione consente dunque di estromettere, dal materiale utilizzabile come prova, una confessione che pur non essendo stata ottenuta nelle circostanze che, ai sensi dell’art. 76, la rendono inutilizzabile, si caratterizzi per il mancato rispetto di regole essenziali: in particolare per quell’inosservanza delle norme sulla redazione delle dichiarazioni, che fa venir meno l’affidabilità del rapporto redatto dalla polizia; oppure per la violazione del diritto all’assistenza, da parte di un avvocato, nei locali della polizia. Lo stesso art. 78 consente di escludere l’utilizzazione di una confessione, che la polizia abbia ottenuto attraverso stratagemmi, che la corte consideri come gravemente sleali. C’è da rilevare, tuttavia, che quello delineato dall’art. 78 è un potere discrezionale d’esclusione della prova, non un obbligo di agire in tal modo: di fatto, nelle cause di una certa serietà le corti inglesi sono inclini ad ammettere la prova di una confessione, anche se ottenuta con mezzi discutibili, salvo che essa appaia palesemente non veritiera.

Di regola, l’art. 78 si applica tanto alle confessioni ottenute con mezzi irregolari, quanto agli indizi, come nel caso delle risultanze ottenute per il tramite di una perquisizione non autorizzata; in pratica, però, le corti inglesi sembrano poco disposte a estromettere una prova cosi "solida" per il solo fatto che è stata ottenuta illegalmente. Neppure in Francia vi è un divieto assoluto di utilizzare le prove ottenute illegalmente.. La normativa, tuttavia, è notevolmente più complessa e, qui, il risultato non dipende dalla valutazione discrezionale del giudice, ma dalla natura della norma che non è stata rispettata. Per l’inosservanza di determinate norme sulla ricerca delle prove, la prova può essere colpita da nullità, ma esistono due specie di nullità: quelle testuali che ricorrono ogniqualvolta è la legge a collegare espressamente la sanzione di nullità all’inosservanza di una data norma e quelle sostanziali o virtuali che si configurano quando è il giudice, nonostante l’assenza di un’espressa previsione della nullità, a ritenere che la norma sia talmente importante da giustificare l’operatività della sanzione processuale. La disciplina delle nullità è complicata, e le complicazioni sono state accentuate da una legge del 1975 che ha aggiunto al codice di procedura penale l’art. 802, il quale, nella sua attuale dizione, stabilisce che, "nei casi di violazione di forme prescritte dalla legge a pena di nullità o d’inosservanza di formalità sostanziali, ogni organo giurisdizionale che sia investito di una domanda d’annullamento o che rilevi d’ufficio una tale irregolarità può dichiarare la nullità soltanto quando questa ha l’effetto di ledere gli interessi della parte che ne è coinvolta". Pure in Belgio, questi problemi sono visti in termini di nullità degli atti e l’evoluzione della giurisprudenza si può prospettare oggi secondo le seguenti linee: quando le modalità utilizzate (oppure le condizioni nelle quali la prova è stata raccolta) sono inficiate da nullità, le indagini ne sono irrimediabilmente viziate ed è nullo il giudizio che si fondi poi su prove del genere.

Il diritto tedesco è, al riguardo, a sua volta abbastanza complicato; impone il divieto assoluto di usare come prove le confessioni ottenute con metodi espressamente proibiti. Per il resto, invece, il diritto è largamente giurisprudenziale e la giurisprudenza distingue due concetti: il divieto di ricorrere a un dato metodo, per ottenere la prova, e l’inibizione, indirizzata ai giudici, di utilizzare una data prova.

Così, ad esempio, è vero che solo un medico è autorizzato a operare un prelievo di sangue; ma un prelievo effettuato senza rispettare tale norma può pur essere utilizzato come prova.

 

Il diritto al silenzio

 

Negli ordinamenti analizzati (ma, si può dire, dappertutto, nel mondo civile), al sospettato e all’accusato si riconosce il diritto al silenzio, almeno nel senso che durante tutto il corso del procedimento penale essi possono rifiutarsi di rispondere alle domande loro rivolte, senza esporsi, per l’esercizio di tale diritto, ad alcuna sanzione e tale diritto al silenzio è stato recentemente consacrato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La dichiarazione, che sia stata ottenuta in violazione del diritto al silenzio, mette d’altronde in evidenza un importante profilo del tema delle prove ottenute con mezzi inaccettabili.

L’aspetto più discusso, a tal proposito, è quello della possibilità di utilizzare la dichiarazione dell’indiziato, resa senza che questi sia stato avvertito del suo diritto di tacere. Ne scaturisce, ancora una volta, la questione della prova ottenuta illegalmente: e la soluzione dipende, ovunque, dall’esistenza, o dall’inesistenza, di un obbligo di avvertire l’interessato circa il suo diritto al silenzio, dai termini di tale obbligo (là dove esiste), e dall’atteggiamento del giudicante quanto alle conseguenze della sua inosservanza.

Circa il diritto al silenzio, esistono però anche due altri problemi, distinti ma connessi. In primo luogo, se si possa utilizzare contro l’accusato una dichiarazione che egli, per legge, è obbligato a rendere fuori del processo penale. In Inghilterra, per esempio, la disciplina legislativa del fallimento obbliga il fallito, sotto minaccia di sanzione penale, a rispondere alle domande del commissario liquidatore: tali risposte sono utilizzabili come prove in un eventuale, successivo processo penale? La questione, per il diritto inglese, è complicata; ma, in via di principio, tre soluzioni sono concepibili, in relazione al tenore della legge che impone l’obbligo di rispondere:

  1. il rischio di un’incriminazione, in caso di risposte aventi un certo contenuto, esclude l’obbligo di rispondere;

  2. la persona è obbligata a rispondere, ma il carattere coatto della risposta ne impedisce l’utilizzazione quale prova penale;

  3. la persona è obbligata a rispondere e le sue risposte, sebbene forzate, possono costituire prova a carico in un eventuale processo penale.

Per la terza, se non anche per la seconda, delle soluzioni prospettate, si configura un’incompatibilità con la citata sentenza, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo, avendo deciso che la Convenzione riconosce implicitamente un diritto al silenzio, dichiara che tale diritto era stato violato per via di un procedimento penale instaurato contro una persona per il reato di rifiuto di esibire alle autorità documenti su conti bancari all’estero, vale a dire per il rifiuto di fornire informazioni suscettibili di essere utilizzate a suo danno come prova a carico, dimostrativa di violazioni penali della legislazione valutaria.

La seconda questione concerne il trattamento dell’accusato che, nel corso del procedimento penale, abbia scelto di esercitare il suo diritto al silenzio. Suscita indubbiamente sospetti il fatto di non dare spiegazioni, in una situazione in cui un innocente avrebbe potuto spiegarsi. Ma un tale esercizio del diritto al silenzio, può di per sé costituire prova indiretta di colpevolezza?

Nel diritto statunitense, la risposta è stata a lungo negativa: negli U.S.A., il diritto al silenzio è riconosciuto sotto un duplice aspetto, vale a dire che non si può punire nessuno per il fatto del rifiuto di parlare, né giudicarlo colpevole (del reato di cui è accusato) a causa di tale rifiuto. Sotto l’influenza americana, il diritto inglese ha poi adottato la stessa posizione durante il XX secolo, così come il diritto tedesco.

Nel diritto francese, invece, la posizione è differente: la persona sottoposta a procedimento penale può sempre rifiutarsi di rispondere, se valuta tale atteggiamento più conforme agli interessi della sua difesa, fermo restando, per magistrati e giurati; il diritto di trarre da tale atteggiamento ogni conseguenza utile al formarsi della loro convinzione.

Nella stessa Inghilterra, del resto, la questione ha ultimamente dato luogo ad accese controversie. Secondo una parte della dottrina e dell’opinione pubblica, è poco opportuna l’imposizione ufficiale di un divieto di trarre conclusioni sfavorevoli da un ambiguo rifiuto di spiegarsi. Nel 1993, il Governo britannico ha adottato un progetto di legge tendente a consentire alle corti di trarre "la conclusione che sembri migliore" dal rifiuto di un indiziato di rispondere alle domande della polizia, oppure dall’esercizio del diritto al silenzio, da parte di un accusato, in dibattimento; e, malgrado l’opposizione di chi accusava il Governo di voler distruggere i principi fondamentali della procedura penale rovesciando la presunzione d’innocenza, la legge è stata varata nell’ottobre 1994.

In materia, sono d’altronde da registrare anche due importanti decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. In una prima occasione, ha ritenuto che non possa dirsi a priori incompatibile con la Convenzione europea una disciplina che in certe situazioni consenta a un organo giudicante di trarre una prova implicita di colpevolezza dal silenzio di una persona sottoposta a procedimento penale. Con una decisione successiva, la Corte ha però censurato, sotto il profilo del diritto di non incriminarsi da soli, l’uso di dichiarazioni autoindizianti.

 

 

La prova della personalità dell’accusato

 

Un limite all’utilizzazione generalizzata dei possibili mezzi di prova riguarda, in alcuni ordinamenti, la personalità dell’accusato. Ci si domanda se si può provare che egli abbia commesso dei reati in passato, oppure che abbia cattive abitudini, o, ancora, che (secondo gli psichiatri) abbia una personalità la quale lo predispone a commettere il reato contestatogli.

I dati sul carattere e sulla personalità dell’accusato sono quasi sempre considerati pertinenti nel momento in cui si deve determinare la pena da infliggere all’accusato, una volta chiarita la sua colpevolezza circa il reato addebitatogli. Problematica è invece la loro pertinenza in rapporto in rapporto alla questione della colpevolezza. In alcuni casi il dato può essere molto pertinente: e, se le circostanze di specie sono particolari ad esempio, quando l’accusato abbia già commesso uno o più reati più o meno identici ciò potrà, evidentemente, essere preso in considerazione. Però il semplice fatto di aver commesso anteriormente dei reati è meno probante se suggerisce soltanto che l’accusato ha l’abitudine di non rispettare la legge. Ed ancor meno affidabile è la congettura circa la tendenza dell’accusato a commettere un certo reato, qualora sia fondata soltanto sul parere di un perito (base evidentemente meno solida di quanto non sia l’esistenza di una serie di condanne per aver commesso in passato reati del genere).

In via generale il diritto inglese consente che ci s’informi sulla personalità dell’accusato e sulle condanne da lui già riportate, quando si tratta di determinare la pena, ma esclude riferimenti del genere quando è in gioco la questione della colpevolezza. Nel diritto inglese, del resto, non è meramente teorica la possibilità di limitare la portata di tali informazioni, giacché la fase decisionale del processo qualora l’accusato stesso non ammetta di aver commesso il fatto è scissa in due: un primo momento per determinare se l’accusato è o non è colpevole; e poi, in caso di condanna, un secondo momento per determinare la pena. Nella seconda sottofase è liberamente ammesso il riferimento a condanne precedenti, così come sono ammessi i pareri dei periti sulla personalità del condannato. Nella prima sottofase, viceversa, le corti non ascoltano mai tali pareri circa la tendenza a delinquere dell’accusato e non assumono prove su altri reati che costui abbia commesso, se non quando apportano elementi più convincenti di quanto non sia il solo fatto che egli ha la tendenza a violare il diritto penale in genere o a commettere reati vagamente simili a quello di cui è attualmente accusato.

Tra i giuristi continentali vi è chi ammira questa "cesura", propria del processo penale inglese. In Inghilterra, però, una parte dell’opinione pubblica trova troppo favorevole all’accusato la regola per cui sono escluse, nella prima sottofase, non solo le perizie sulla personalità, ma anche i riferimenti ai "precedenti". D’altronde, si finisce con il configurare un’ipocrisia: l’accusato che non ha precedenti è sicuro di poter addurre il suo "buon carattere" come prova d’innocenza, cosicché è facile che le corti deducano dalla mancanza di una prova del genere una conclusione negativa.

In Italia, il vigente codice di procedura penale contiene una norma per cui sono vietate le perizie intese a stabilire la personalità del soggetto e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (art. 220 CPP). Peraltro, sempre in Italia, i giudici del giudizio sono sistematicamente informati dei precedenti giudiziari dell’accusato, e nulla impedisce che si porti a loro conoscenza il suo passato in tutto quanto ha riferimento ad atti riprovevoli da lui compiuti.

In Francia, in Germania e in Belgio, non ci sono né restrizioni di carattere generale alle perizie sulla personalità dell’accusato né "cesure". Nella fase decisionale, conseguentemente, le prove sulla colpevolezza sono frammiste a quelle che riguardano soltanto la pena: donde il rischio che l’accusato innocente venga condannato per una perizia che, fondata sull’ipotesi di una sua colpevolezza, lo dichiari pericoloso per la sua tendenza a delinquere.

 

La prova "per sentito dire" e il principio d’immediatezza

 

Inammissibile è, per diritto inglese, la prova "per sentito dire": nozione, questa, molto ampia, che in via di principio comprende non solo le affermazioni orali di terzi (testimonianze indirette), ma anche le affermazioni scritte di un non - testimone; e cosa difficile da accettare, in particolare, da uno spirito francese il divieto colpisce altresì le scritture informali così come i verbali degli interrogatori effettuati dalla polizia. In base a una regola analoga, sono poi escluse le dichiarazioni anteriori dei testimoni che compaiono in giudizio, salvo quelle che contraddicono la loro testimonianza oralmente resa in udienza.

La regola che esclude la prova "per sentito dire" incontra però un gran numero d’eccezioni. La più importante, in pratica, è quella della confessione stragiudiziale dell’accusato, che può valere contro di lui come prova del reato (a meno che non sia stata estromessa dal giudice, perché slealmente ottenuta). Altre eccezioni concernono le dichiarazioni alla polizia, rese da testimoni che non possono comparire in giudizio. Un certo numero di eccezioni sono esistite per fronteggiare problemi da sempre avvertiti; ma, a tali ipotesi da tempo configurate, il Criminal Justice Act 1988 ne ha aggiunge altre: per avvalersi delle disposizioni di questa legge occorre ottenere l’autorizzazione del presidente della corte, che può rifiutarla quando la ritenga non conforme agli interessi della giustizia.

In anni recenti, la regola d’esclusione della prova "per sentito dire" ha incontrato critiche sempre più frequenti in Inghilterra. Da un lato, il sistema viene criticato a causa della sua complessità: il numero delle eccezioni è molto; gran parte delle opere inglesi dedicate alla procedura penale risulta dedicata alla trattazione sulle ramificazioni della regola. D’altro lato, si levano critiche perché, nonostante la sua complessità, questo sistema di regola ed eccezioni non appare logico e funziona piuttosto male. Le eccezioni sono sparse qua e là e non riconducibili a principi coerenti; per ogni esempio di "sentito dire" che risulta ammissibile in rapporto a una delle eccezioni, esiste un contro - esempio, più probante, in favore della regola di esclusione; e può aggiungersi che in materia civile la regola è stata abrogata da una legge del 1968. In relazione alla materia penale, essa è stata criticata dalla Royal Commission on Criminal Justice nel suo rapporto del 1993, dopo di che la Law Commission è stata ufficialmente incaricata di formulare un progetto di riforma.

Se la disciplina inglese del "sentito dire" non soddisfa nessuno, non è, però, meno vero che alla base della regola c’è un’idea di grande rilievo; vale a dire che c’è la convinzione che sia essenziale, per aiutare un organo giudicante a scoprire la verità, l’offrire alle parti (e al giudice stesso) la facoltà di verificare e di controllare la narrazione dei testimoni: il che si fa con facilità quando si tratta di un teste che depone oralmente, poiché egli può essere sottoposto a un esame e a un controesame, mentre diventa estremamente difficile ove la sua testimonianza si rechi per iscritto oppure indirettamente, per il tramite di un intermediario. E c’è poi l’idea connessa, incorporata nell’art. 6.3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che considera essenziale a un "giusto processo" la possibilità, per l’accusato, di interrogare (o far interrogare) i testimoni a carico e di metterne a confronto le dichiarazioni con la propria versione dei fatti.

Tali idee sono state consacrate, nel corso del XIX secolo, dal diritto tedesco, che vede inserito nel codice di procedura penale un principio di "immediatezza": se la prova di un fatto dipende da quanto ha percepito una persona, questa deve essere interrogata in dibattimento. L’interrogatorio non può essere sostituito dalla lettura del verbale di un interrogatorio precedente né da una dichiarazione scritta.

Il principio offre a sua volta un certo numero d’eccezioni, per le situazioni in cui il teste, il quale abbia già reso una dichiarazione, non può comparire. A prima vista, il principio d’immediatezza del codice tedesco sembra vicino al divieto della prova "per sentito dire" del diritto inglese.

Ma la somiglianza è solo superficiale, giacche il principio d’immediatezza comporta una regola d’inclusione, e non d’esclusione. Il principio non vieta al giudice di ascoltare chi narra "per sentito dire": piuttosto, lo obbliga a escutere la fonte originaria dell’informazione, se è disponibile. Se un accusato volesse dolersi di un’inosservanza del principio d’immediatezza, la sua censura non si rivolgerebbe al fatto che è stata ammessa un prova inammissibile ma al fatto che il giudice ha trasgredito all’obbligo di far comparire il testimone che era in grado di render conto di quanto aveva direttamente percepito: al che avrebbe dovuto provvedere in relazione al suo dovere di fare tutto il possibile per stabilire la verità.

In Germania, il "sentito dire" è dunque ammesso, in via generale, come prova: così, la madre del minore che sia stato oggetto del reato di violenza sessuale, di cui si fa carico all’accusato, può ripetere nella sua deposizione quel che le ha detto il figlio (il che sarebbe invece impossibile per diritto inglese); non solo, ma cosa più discutibile il poliziotto tedesco, quando è chiamato a deporre, può ripetere quel che gli ha detto un informatore anonimo. Tutto ciò non significa che i giudici tedeschi, a differenza di quelli inglesi, dimentichino che il "sentito dire" può essere pericolosamente ingannevole; però, anziché dichiararlo inammissibile, come fa la giurisprudenza, inglese si è creato un obbligo di maneggiarlo con prudenza: secondo la giurisprudenza tedesca il "sentito dire" non basta da solo per condannare; dev’essere corroborato da un’altra prova più affidabile.

In Francia e in Belgio non c’è nulla che corrisponda alla regola inglese di esclusione del "sentito dire" o al principio tedesco d’immediatezza. Davanti al tribunale correzionale e al tribunale di polizia i verbali delle deposizioni dei testimoni, incorporati nel fascicolo, hanno la dignità di prove. In corte di assise la situazione è teoricamente diversa, in quanto i testimoni sono tenuti, di regola, a comparire: il presidente, peraltro, ha facoltà di leggere alla corte il verbale della deposizione di un teste assente; ne consegue che, in pratica, la situazione non è poi tanto diversa. Inoltre, nulla impedisce ad un testimone di ripetere, nel corso della sua deposizione, i racconti di un altro. In passato l’assenza di un principio d’immediatezza, e la possibilità di utilizzare il "sentito dire" come prova, esponevano l’accusato al rischio di venire condannato sulla base del racconto di testimoni che rimanevano assenti e che lui non aveva avuto la possibilità di contestare.

Vi sono anche situazioni in rapporto alle quali, contrariamente alla regola generale, si esige che il giudice del merito tratti con prudenza un certo tipo di prova. In Inghilterra, era tradizionalmente il caso, questo, delle testimonianze dei minorenni, dei correi e delle persone che si dicessero vittime di una violenza sessuale; al qual riguardo una giurisprudenza di lunga data obbligava il giudice ad avvertire la giuria circa il rischio di errore che avrebbe commesso, ammettendo la deposizione di testimoni del genere senza il supporto di una prova oggettiva. In anni recenti, peraltro, questa giurisprudenza è stata sottoposta a critiche sempre più insistenti: secondo i critici, i minorenni e le vittime di violenze sessuali sarebbero infatti più credibili di quanto non riconosca la giurisprudenza; quanto ai complici, poi, il rischio della menzogna sarebbe talmente evidente da non meritare neppure avvertimenti speciali. Prestando orecchio a tali critiche, il Parlamento inglese ha legiferato per rovesciare quella giurisprudenza.

Al tempo stesso ci si allarma sempre più, in Inghilterra, per gli erronei riconoscimenti di persone e per le confessioni false (soprattutto quando si tratta di handicappati mentali); e, nel momento in cui rovescia un vecchio orientamento, la giurisprudenza più recente impone al giudice il dovere di avvertire la giuria circa questi nuovi rischi e, se ritiene che il pericolo di una condanna ingiusta si sia fatto particolarmente grave, ha il dovere di sollecitare la giuria stessa alla pronuncia di una sentenza assolutoria.

La giurisprudenza tedesca restringe, dal canto suo, il potere del giudice di condannare su un "sentito dire" non corroborato da prove. Inoltre essa esige che la persona accusata di una lesione sessuale subita da un ragazzino non sia condannata senza una previa perizia sulla credibilità del minorenne accusatore.

 

 

Prove e motivazione delle decisioni giudiziali

 

Un utile antidoto contro la negligenza e l’arbitrio nella valutazione delle prove è l’obbligo, che incomba sul giudice, di enunciare nella sua decisione le prove che l’hanno convinto e quelle che non l’hanno con vinto, nonché di spiegare, rispetto alle due situazioni, i rispettivi "perché". In qual misura, però, s’impone al giudice un obbligo di motivare e, così facendo, di scendere dal livello delle astrattezze ad una discussione concreta delle prove?

È quanto accade nel diritto tedesco, che prevede: "Se l’accusato è condannato, la motivazione deve indicare i fatti che si ritengono provati, nei quali si riscontrano i caratteri legali del fatto di reato. In quanto la prova dei fatti si desume da altri fatti, anche questi altri fatti devono essere indicati". In forza di tale disposto, la motivazione delle sentenze pronunciate da un giudice tedesco contiene sempre un riassunto delle prove addotte e di quelle che hanno convinto il giudice.

Pure il giudice italiano è vincolato da un simile obbligo: l’art. 546 CPP esige che la motivazione contenga, tra l’altro, "l’indicazione delle prove poste a base della decisione ...e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie".

In Inghilterra, la Magistrates’ Court non è automaticamente tenuta a rendere decisioni motivate. Esiste però una procedura, avvalendosi della quale le parti possono, se vogliono, esigere una motivazione: lo scopo di tale procedura è quello di fare scoprire gli errori di diritto, ma la motivazione che deve rendere la Magistrates’ Court indica i fatti e le prove in base alle quali essi sono stati accertati e può anche mettere a nudo una valutazione irrazionale delle prove. La giuria, per contro, non pronuncia mai una decisione motivata; anzi, ogni tentativo di scoprire il ragionamento in base al quale è pervenuta a tale decisione è considerato come una invasione del segreto della camera di consiglio ed è penalmente sanzionato: sorprendente incoerenza, quest’ultima, rispetto alla disciplina relativa alla Magistrates’ Court, anche se nessuno sembra accorgersene. Ne viene comunque che solo rarissimamente si scopre che una giuria ha valutato le prove in maniera irrazionale (un esempio è quello di due persone giudicate insieme e per il medesimo crimine sulla base delle stesse prove, e delle quali una sia condannata e l’altra assolta).

Quanto alla Francia, essa ha reso oggetto d’importazione l’istituto della giuria inglese, con i suoi meriti e i suoi difetti, ivi compreso il verdetto non motivato: ne consegue che non c’ è motivazione per le pronunce delle corti d’assise. Al contrario, tribunali correzionali e tribunali di polizia sono obbligati a rendere decisioni motivate; peraltro, nella sua motivazione, il giudice francese, benché tenuto a indicare i fatti che considera come prove, non ha alcun obbligo di spiegare la valutazione delle prove che hanno sorretto la sua convinzione: secondo la tradizione francese, un obbligo del genere sarebbe incompatibile con il principio dell’intime conviction e con quello della libertà delle prove.

Fin qui, la trattazione si è limitata all’obbligo di motivare le decisioni di condanna o d’assoluzione. Sono diverse, però, le regole relative alla motivazione d’altre decisioni, in particolare della decisione sulla sanzione. In Belgio, ad esempio, l’art. 19 del Code d’Instruction Criminelle obbliga il giudice a motivare la scelta della pena, mentre un obbligo del genere non esiste, per tradizione, in Francia, anche se ora il nuovo codice penale impone di motivare specificamente, in materia di delitti, l’inflizione della pena detentiva dell’emprisonnement ferme: il che potrebbe far evolvere la prassi, se la Corte di Cassazione dovesse controllare l’applicazione di tale disposto. In Inghilterra, inoltre, è il giudice della Crown Court, e non la giuria, a decidere circa la pena (anche se è la giuria a decidere anteriormente se l’accusato è colpevole o innocente, ogni qualvolta egli si sia dichiarato "non colpevole"): e, mentre la giuria non è tenuta ad alcuna motivazione, il giudice, viceversa, è talvolta obbligato dalla legge a motivare l’inflizione di determinate pene.

 

 

La responsabilità nella ricerca delle prove

 

Si tratta qui di sapere chi ha una responsabilità nella ricerca e nella produzione delle prove: soltanto le parti oppure le parti e il giudice? Sul punto, una sensibile differenza oppone i sistemi di tradizione inquisitoria e quelli di tradizione accusatoria.

Nel diritto francese dell’Ancien Regime, il tribunale cui spettava il giudizio finale aveva anche la responsabilità della ricerca delle prove nel corso della fase preliminare del processo. Con il compromesso tra il principio inquisitorio e il principio accusatorio realizzato dal Code d’Instruction Criminelle del 1808 (compromesso che si riscontra nell’attuale Code de Procedure Penale in ogni causa relativa a un "caso" grave quella responsabilità è attribuita a un soggetto che, è vero, non prenderà poi parte al giudizio finale, ma che nondimeno ha lo status del giudice: il giudice istruttore.

Così si può dire, in un certo senso, che "la giurisdizione" ha sempre la responsabilità iniziale della ricerca delle prove, in Francia come del resto in Belgio (dove è ancora in vigore il vecchio Code d’Instruction Criminelle). In realtà, la stragrande maggioranza delle cause penali, in Francia come in Belgio, sono definite senza che si passi dal giudice istruttore (senza contare poi che in numerosi procedimenti con istruzione la ricerca delle prove è già stata condotta, per l’essenziale, dalla polizia prima dell’apertura formale dell’istruzione stessa). Non è meno vero, tuttavia, che nelle cause serie e complicate quasi tutto, in materia di prove, dipende ancora dal giudice istruttore. È lui che sollecita il concorso dei periti e che definisce il loro compito. Ed è a lui che la difesa si rivolge se vuole che sia perseguita una certa linea di ricerca.

Nel diritto inglese, per contro, non c’è alcun giudice che prenda l’iniziativa della ricerca delle prove. Il ruolo del giudice è meramente reattivo. Certo, un determinato numero di misure coercitive ad esempio, determinati tipi di perquisizione non possono porsi in essere senza l’autorizzazione di un giudice; e sono sempre i giudici che autorizzano la detenzione cautelare. Non sono però i giudici a prendere l’iniziativa: essi si limitano a decidere, su richiesta della polizia o del Crown Prosecution Service, in relazione alla singola misura. Di regola, sono esclusivamente le parti ad avere la responsabilità della ricerca delle prove durante la fase preliminare. Quanto ai sistemi tedesco e italiano, si può osservare che in passato seguivano il modello francese conferendo ai giudici un ruolo attivo nella ricerca delle prove. Con l’abolizione del giudice istruttore in Germania sin dagli anni ‘70, in Italia con il nuovo codice del 1988 questi due Stati hanno però ridotto, a loro volta, il ruolo dei giudici, durante la fase preliminare, a quello che si è visto essere nel diritto inglese: autorizzare le misure maggiormente coercitive, su richiesta della polizia o del pubblico ministero.

Il modello accusatorio conferisce alle parti stesse la responsabilità della ricerca delle prove: la polizia cerca le prove a carico; la difesa, quelle a discarico. E una distribuzione di poteri talvolta lodata da coloro che in Francia criticano il sistema vigente nel proprio paese, per cui, nelle cause di maggiore complessità, tale responsabilità spetta al giudice istruttore. Secondo loro, solo teoricamente è buona cosa attribuire al giudice istruttore il compito di ricercare contemporaneamente le prove a carico e quelle a discarico; in pratica la soluzione mostra la corda: da un lato, la difesa è spiazzata se il giudice istruttore non è rigorosamente imparziale; d’altro lato, se questi è davvero imparziale, la sua stessa esistenza priva la difesa d’ogni iniziativa e limita le ricerche che essa potrebbe fare in proprio.

A dire il vero, tuttavia, anche in Inghilterra, la situazione, durante la fase preliminare è meno favorevole alla difesa di quanto non appaia prima vista. In teoria le due parti (polizia e difesa) possono ricercare le loro prove; ma in realtà solo la polizia "ha pale con cui scavare". Nella stragrande maggioranza dei casi, la difesa è priva di mezzi economici per effettuare indagini, anche se ottiene l’assistenza giudiziaria. Inoltre, vi sono misure coercitive cui può procedere soltanto la polizia: ad esempio, è solo un poliziotto a poter ottenere l’autorizzazione per perquisire un locale. La realtà è che, purtroppo, in Inghilterra nessuno ha veramente il dovere né il potere di occuparsi della ricerca delle prove a difesa.

In tema di ricerca delle prove, l’accusato è verosimilmente in una posizione migliore in Francia, almeno dopo le riforme del 1993 che obbligano ormai il giudice istruttore a motivare il rifiuto di effettuare determinate indagini che gli chiede la difesa. Per colmare questa lacuna, alcuni paesi che pur si ispirano al modello di common law, come gli U.S.A. e l’Australia, hanno sviluppato la logica del modello accusatorio sino a istituire un funzionario dotato di uno status equivalente a quello del pubblico accusatore e incaricato di gestire la difesa degli accusati che vogliano invocare il suo aiuto. In Inghilterra, invece, questo problema cruciale rimane senza una vera soluzione. Può semmai dirsi che la giurisprudenza l’ha in parte mitigato, imponendo alla prosecution il dovere di rivelare alla difesa, non soltanto gli elementi che si propone di utilizzare come prove a carico nel processo, ma anche ogni risultato delle sue indagini che possa essere utile all’accusato.

Se poi guardiamo all’Italia, il pubblico ministero è, anche attualmente, vincolato dal codice a svolgere accertamenti anche a favore dell’accusato: il che, peraltro, non rimuove il problema delle investigazioni difensive, preso in considerazione sia pure in termini di un mero riconoscimento di principio dall’art. 38 delle norme d’attuazione del codice, che ha ammesso la facoltà dell’avvocato di fare (e di far fare) indagini, senza però stabilirne le regole: la giurisprudenza ha conseguentemente escluso un’utilizzazione diretta degli atti provenienti da tale "indagine difensiva"

Nella fase decisionale, sono le parti ad avere ovunque la responsabilità primaria di citare i testimoni e di produrre le altre prove. In questa fase, peraltro, in tutti i Paesi qui considerati, i giudici si vedono, almeno teoricamente, conferita a loro volta una parte di responsabilità al riguardo.

In Francia, in Belgio e in Germania, tale responsabilità è fortemente sottolineata. In una serie di articoli del codice di procedura penale francese troviamo enunciati o evocati i doveri del giudice in materia di prova: in particolare, l’art. 310 CPP prevede che in corte di assise il presidente sia investito di un potere discrezionale, in virtù del quale egli può, sul suo onore e in coscienza, adottare ogni misura che creda utile per scoprire la verità. Ancor più netta la legislazione tedesca, tra i cui principi figura l’Instruktionsprinzip, definibile nei seguenti termini: il giudice deve, al fine della ricerca della verità, estendere anche d’ufficio l’indagine probatoria a tutti i fatti e a tutti i mezzi di prova, che hanno rilievo per la decisione.

A differenza del giudice tedesco, il suo collega italiano non sembrerebbe avere oggi come primo dovere la ricerca della verità; ma l’art. 507 del codice vigente gli conferisce comunque il potere se risulta assolutamente necessario, di avviare anche d’ufficio la ricerca di prove ulteriori; e la Corte costituzionale, in una sua pronuncia, ha affermato che il potere istruttorio integrativo può essere esercitato dal giudice anche nei casi di comportamento omissivo delle parti, osservando tra l’altro che un’interpretazione più restrittiva contrasterebbe con il principio di legalità dell’azione penale, consacrato dalla Costituzione italiana: in altri termini, il principio secondo cui ogni reato deve essere perseguito obbligherebbe il giudice ad assicurarsi che ogni reato di cui deve conoscere sia provato se gli sembra suscettibile di esserlo.

Con riferimento all’Inghilterra, si dice di solito che i giudici del dibattimento non hanno alcuna responsabilità nella produzione delle prove. Le cose non stanno però esattamente in questo modo. In primo luogo, c’ è da osservare che il giudice inglese dispone teoricamente del potere di ascoltare un teste che le parti non hanno citato: e in passato i giudici esercitavano liberamente tale potere; in via generale, la giurisprudenza moderna sconsiglia l’esercizio di tale potere, ma una recente pronuncia afferma che esso esiste tuttora, che spetta tanto alla Crown Court quanto alle Magistrates’ Courts, aggiungendo che l’organo giudicante può e deve esercitarlo quando ciò risulta necessario per garantire alla difesa un processo "giusto". In secondo luogo, sul giudice inglese incombe un dovere di stampo inquisitorio, allorché egli impartisce le direttive alla giuria prima che questa deliberi il suo verdetto: quando riassume le prove, è tenuto a far menzione di tutti gli elementi a difesa che gli sembrano suggeriti dalle prove stesse, anche se l’avvocato della difesa non vi ha fatto cenno nella sua arringa. In terzo luogo, nella fase processuale in cui si determina la pena, è molto frequente che il giudice inglese ottenga d’ufficio dei rapporti e delle perizie sulla personalità, sull’ambiente sociale d’appartenenza, sulla salute e sullo stato mentale dell’accusato; e, prima d’infliggere determinate pene, egli è legalmente vincolato a disporre questi mezzi di prova.

In sede dibattimentale, sui giudici francesi, tedeschi e belgi incombe un’altra responsabilità in materia di prove: è il presidente che interroga i testimoni, a meno che egli non eserciti il suo potere discrezionale di consentire alle parti la diretta formulazione di domande. Negli ordinamenti di common law, invece, i testi sono sempre interrogati, in contraddittorio, dalle parti. Il giudice mantiene un ruolo passivo, e pone soltanto le domande che considera necessarie per risolvere le ambiguità delle risposte di un teste sottoposto all’esame incrociato. Se l’accusato si difende da sé, e non è in grado di interrogare egli stesso i testimoni, i giudici inglesi si vedono peraltro attribuito il dovere di porre essi stessi le domande necessarie per la sua difesa.

È palese che entrambi i metodi presentano, ciascuno, degli inconvenienti. L’esame dei testimoni, ad opera del giudice, comporta il rischio di compromettere la neutralità di quest’ultimo, e talvolta di nuocere all’accusato, che si vede privato della facoltà di contestare adeguatamente i testimoni a carico. Se l’accusato ritiene che le domande poste dal presidente ad un testimone non sono corrette, a chi può rivolgere le sue lamentele? Al giudice, ossia a colui che è un tempo l’arbitro incarico di garantire un processo imparziale e il soggetto per la cui condotta si protesta?

Per contro, l’esame in contraddittorio presenta l’inconveniente di deformare facilmente la deposizione, giacche le persone che pongono le domande lo fanno nella speranza di ottenere una risposta che concordi con la tesi che sostengono. Proprio quando si faceva la proposta, in Francia, di introdurre tale forma d’esame, i critici del sistema inglese evocavano con sempre maggior insistenza i vantaggi dell’esame condotto con l’altro metodo, facendo riferimento soprattutto ai testimoni in situazioni di debolezza. L’esame in contraddittorio, proposto nel 1990 dalla Commission Justice Penale et droits de l’homme e poi introdotto come uno degli elementi della riforma del gennaio 1993, è stato soppresso, prima ancora di entrare in vigore, dalla "riforma della riforma" dell’agosto 1993. Nel medesimo tempo, in Inghilterra, un organismo ufficiale proponeva l’esame senza contraddittorio per i ragazzi molto giovani o seriamente traumatizzati.

In Italia, l’esame in contraddittorio è stato introdotto dal codice del 1988, mantenendosi però l’esame da parte del presidente quando il teste è minorenne e riconoscendo comunque al presidente stesso, eventualmente anche su impulso degli altri componenti il collegio, il potere di porre domande ai testimoni e ai periti dopo gli esami condotti dalle parti. In Germania, il ricorso alla tecnica adversary di esame può essere preteso dalle parti, se d’accordo fra loro, ma rimane, pure qui, inapplicabile se il teste è minorenne.

 

 

Bibliografia

 

Procedure penali D’Europa, di Delmas Marty e Chiavario (CEPAM 1998)

Rassegne Stampa del Centro di Documentazione Due Palazzi

 

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