Donne in carcere, la morte lenta. Prigioni affollate in Francia

di Marina di Silva

 

Le Monde Diplomatique, settembre 2003

 

Mai le prigioni francesi erano state così affollate dopo la Liberazione. Aumento della repressione, allungamento delle pene e maggior ricorso alla detenzione preventiva hanno fatto sì che i detenuti, nel giugno 2003, raggiungessero la cifra record di 60.963, per 48.600 posti. Anche se le donne sono meno numerose degli uomini (2.275), il loro numero è quasi raddoppiato rispetto al 1980 (1.159).

Quando una donna arriva in carcere:

  1. la mettono in una vasca da bagno e la spruzzano con un prodotto disinfettante, la lasciano macerare per un quarto d’ora e la sciacquano;

  2. la portano dal dottore, la vaccinano contro rabbia, colera, malaria;

  3. la rinchiudono in una cella con la sua dotazione e lei aspetta.

Perché il pepe è proibito in carcere?

  1. perché è un afrodisiaco;

  2. per evitare che le detenute lo gettino negli occhi del personale;

  3. perché ingoiandolo non si trasformino in draghi.

Quanto guadagna una donna che lavora in carcere?

  1. due euro l’ora;

  2. tre;

  3. undici.

Oggi tocca a Fanny Ardant rispondere alle domande. Sono dieci. Le propone l’èquipe di Radio Meuf, catturata dallo charme dell’ospite come le cinquanta donne che costituiscono il pubblico di questa singolare trasmissione, realizzata settimanalmente dalle detenute di Fleury Mèrogis. Condotta da "professioniste" formate alla dizione, alla respirazione e alla scrittura, rappresenta un’esperienza unica in Europa, iniziata sedici anni fa grazie all’Association de recherche d’animations cultureles, che lavora al reinserimento (1). Accolta da un entusiastico "È una cannonata!", l’attrice non sfuggirà per questo alle domande impertinenti e pertinenti: "Da dove viene la sua reputazione di mitomane?"; "Cosa pensa della guerra in Iraq?". Ma c’è feeling e il momento è felice. Per poco, uno non si dimentica dove si trova...

Ma dietro le quinte, una volta terminata !a trasmissione, la realtà riprende rapidamente il sopravvento: "Passo tutta la giornata a sistemare le perle e dopo mille tubi ho guadagnato appena dieci euro" butta lì Laure, che ha appena compiuto 20 anni (2). Elodie, di poco più vecchia, ha fermamente deciso che a questi prezzi non è disponibile a lavorare. Non ha necessità economiche stringenti e questo le permette di riprendere gli studi.

Fleury-Mèrogis parrebbe quasi un carcere di "alta gamma" per il gran numero di attività e di corsi di formazione che vi si svolgono e per i programmi pedagogici di aiuto alle detenute che sembrano dimostrare una reale attenzione al reinserimento. Ma, secondo Carole, tutte queste attività non possono far dimenticare la brutalità dell’essere incarcerati, che ad intervalli regolari provoca suicidi, "talvolta parecchi in pochissimo tempo". La prigione non è solo le condizioni di detenzione, ma anche la durata della pena. "Dalla nomina di Nicolas Sarkozy, le donne tornano dal tribunale con condanne raddoppiate o triplicate per delitti minori. Dover pagare questo prezzo per il successo della sua campagna per la sicurezza è molto angosciante". Nel giugno 2003, le prigioni francesi hanno raggiunto un record storico di sovrappopolazione (3). Il progetto di legge Perben, denunciato dal Sindacato della magistratura, comporterà un eccesso di repressione nei confronti delle componenti più svantaggiate della popolazioni. A Fleury Mèrogis, è già in funzione.

 

Dall’aeroporto in prigione

 

Mayra, 23 anni, è guatemalteca. La sua bambina di tre mesi è nata in carcere. Era incinta di poche settimane quando "il mondo le è caduto addosso". Trasportava cocaina con suo marito, lei ne aveva addosso un mezzo chilo, lui ne aveva ingoiato il doppio. "Una capsula si è rotta. È morto sul corpo. Non sapevo nemmeno che potesse succedere", Della Francia, non ha visto altro che Roissy e Fleury Mèrogis. "Nel mio paese la situazione economica è terribile. Io ho un diploma di segretaria, ma non trovavo lavoro e neppure mio marito. Vivevamo con i miei insieme a mio figlio che oggi ha sei anni. Abbiamo tentato il tutto per tutto".

Liliane vive in Francia da quindici anni. In Guyana. Dopo essere fuggita dal Suriname lacerato dalla guerra. "Nel 1987, ho perso tutto. La mia famiglia è stata decimata, tranne mia madre, ferita e amputata, e mia sorella che si è rifugiata in Olanda e con la quale sono rimasta in contatto. Ho passato tre anni in un campo di rifugiati a Saint Laurent du Maroni". A 35 anni è madre di due ragazze di 14 e 15 anni, di cui una è affidata a un’amica e l’altra vive con il padre di cui non ha più notizie. Condannata su denuncia a quattro anni di carcere per traffico di droga, è persa, stordita. "Quando sono arrivata qui, non sapevo parlare il francese. In Guyana, tutti capiscono la nostra lingua, il taki-taki. Ma qui no, nessuno, questa solitudine è troppo dura. Sono sempre malata, lo stress è troppo forte".

Per Maria, i suoi 20 anni non sono la più bella età della vita. Meticcia americana, nata nel Bronx, cresciuta con la madre che ha gravi problemi di salute e che oggi è a suo carico, si ritrova, a sua volta sola con un bambino, a dover provvedere ai bisogni "di questo trio perseguitato dal destino" lavorando nei bar. "Dopo l’11 settembre, la situazione economica è diventata molto più dura".

Francoforte – Parigi – New York: 6 chili di ecstasy in valigia. "Penso che ne avrei ricavato appena di che vivere qualche mese, ma in quel momento non ho capito". Sono algerine, polacche, angolane, nigeriane, sudafricane, boliviane, brasiliane, filippine... Con il 68% di donne straniere incarcerate, oggi Fleury Mèrogis sembra diventata la succursale del terzo mondo e occupa un posto particolare nel panorama carcerario francese. "Tutte le donne arrestate a Roissy finiscono a Fleury Merogis", spiega la direttrice del penitenziario, alla quale questa molteplicità di origini pone seri problemi specifici" di comunicazione, ma anche di punti di riferimento culturali o di pratiche alimentari". Traffico di droga, prostituzione, infrazioni alla legislazione sugli stranieri sono i capi d’accusa più comuni. Nel primo caso, le donne vengono condannate anche ad esorbitanti multe doganali. Non potendo pagare, si vedono prolungata la pena, di uno o due anni.

All’interno della stessa amministrazione penitenziaria, risulta chiaro che sono crimini prodotti dalla povertà: "La maggior parte delle donne lavora e invia i soldi alla famiglia. Non solo non sono assistite, ma sono loro a mantenere chi è fuori". Per questa sorvegliante capo, che in passato ha lavorato in carceri maschili, ciò che caratterizza la popolazione carceraria femminile è la grande vulnerabilità. "Solo poche donne usano la violenza, ma in genere l’hanno subita tutte".

Nell’universo carcerario, la donna è ben lontana dall’essere la metà del cielo... In Francia, sono solo 2.275 contro quasi 60.000 uomini cioè, il 3.7%. una cifra normale rispetto al panorama mondiale. In Europa, solo Spagna e Portogallo hanno più donne in carcere, (9 e 10%), molto al di sopra della media francese. Ma questi dati non sembrano destare curiosità. Il numero di lavori e ricerche sull’argomento è infatti molto scarno.

Secondo l’avvocato Benoit Dietsch, è vero che le donne commettono meno delitti rispetto agli uomini, ma è altrettanto vero che sono punite meno, anche se questo suona anacronistico in tempi di rivendicazione della parità: "Ma, se l’insieme della popolazione carceraria è caratterizzata soprattutto da povertà, precarietà ed esclusione, questo è ancor più vero per le donne la cui miseria è sempre più evidente". Fragilità sociale e psicologica sarebbero quindi elementi tenuti in considerazione. Nella maggior parte dei casi vengono considerate complici, trascinate dagli uomini più che dalla propria volontà. Su quest’approccio giuridico si innesta poi la questione della maternità, che in genere spinge i giudici a una maggior clemenza.

Al contrario, osserva un altro avvocato, Jean Louis Chalanset, "quando sono considerate veramente responsabili per traffico di stupefacenti, prostituzione aggravata o questioni politiche e di terrorismo, ricevono sanzioni più pesanti e sono trattate più duramente". A Fleury, "le prigioniere politiche sono sempre segnalate con etichette rosse" ricorda Fabienne Maestracci (4) che ha trascorso tredici mesi in carcere durante l’inchiesta sull’uccisione del prefetto Erignac, "i trasferimenti sono oggetto di elaborate strategie perché non si incontrino e non comunichino tra loro". Joelle Aubron e Nathalie Menigon, le due prigioniere di Action Directe, classificate come "detenute particolarmente sorvegliate", vi sono rimaste incarcerate, in regime d’isolamento duro, dal febbraio 1987 all’ottobre 1999 (5), mentre le loro condanne, pronunciate nel 1994, avrebbero consentito l’assegnazione a centri penitenziari (6) e la possibilità di migliori condizioni di detenzione

Oggi 63 penitenziari su 186 possono accogliere donne. Quattro case di reclusione, Fleury Merogis, Fresnes, Rennes e Versailles e tre centri di detenzione, Rennes, Bapaume e Joux la Ville - classificazioni del resto un po’ vaghe, visto che le case di reclusione spesso ospitano donne condannate sono situati nel centro nord della Francia, il che pone notevoli problemi al mantenimento dei legami familiari. "I costi di treno, taxi, albergo rendono impossibili le visite dei familiari, mentre le donne già patiscono tutta una serie di situazioni di abbandono", osserva Geneviève, visitatrice volontaria della zona.

Le altre prigioni sono sezioni all’interno dei penitenziari maschili e lo scarso numero di donne giustifica la mancanza di formazione, servizi, attività. Non esistono zone riservate alle minorenni e soltanto venticinque strutture carcerarie sono attrezzate per ricevere anche i bambini - che possono restare con le madri fino ai diciotto mesi. Ogni anno una cinquantina di donne partorisce in carcere.

Hilaria sorride a tutti. Ha occhi vivaci e scintillanti. In equilibrio precario sulle gambe, si diverte un mondo a camminare, trotterellare, scappare. Hilaria ha dodici mesi. Nata da un momento d’intimità rubato dai suoi genitori, entrambi incarcerati, è una "bimba – parlatorio", una specie di "bambina - bomba" per l’amministrazione penitenziaria. Sono stata trasferita immediatamente da Marsiglia a Joux la Ville, vicino a Digione, poi a Fleury Mèrogis e continuo ad aspettare una condizionale che non arriva, dice sua madre, la quale, condannata dieci anni fa a diciotto anni di prigione per omicidio, sente che "ogni anno in più passato in prigione, crea odio".

La nursery sembra comunque un’isola privilegiata. Le celle sono più spaziose, meglio arredate e soprattutto rimangono aperte durante tutto il giorno. Madri e figli possono andare dall’una all’altra e condividere spazi comuni. Ci sono zone con i giochi e un giardino.

"Il bambino è libero", dichiara, serissima, la sorvegliante di giornata, "è piuttosto la madre che gode del trattamento realizzato per lui. I piccoli sono controllati ogni quindici giorni da un’èquipe medica, i psicologo, pediatra, ostetrica...) con cui abbiamo incontri regolari. Il nostro ruolo è controllare. Ci sono casi di bambini maltrattati, ma non è la regola e per quanto possa stupire i bambini sono piuttosto svegli. Senza dubbio perché fino ai 18 mesi è la relazione con la madre, da cui non sono separati, che è vitale".

Ma come sapere cosa introietta un bimbo in assenza di un orizzonte, dei rumori e dei ritmi della città o della campagna? Cosa produrrà in lui la relazione esclusiva con la madre e la mancanza di riferimenti affettivi allargati, prima di tutto con il padre, ma anche con altri parenti o con una qualsiasi presenza maschile? E il brutale distacco, dopo 18 mesi, dalla madre che non avesse ancora scontato la pena? Ci sono bambini che escono quasi quotidianamente per andare nelle loro famiglie. in famiglie di accoglienza o nelle nursery, ma non è cosi per tutti.

"Attualmente ci sono nove bambini e solo due posti al nido. Danno la precedenza alle francesi. Non posso né lavorare né allontanarmi per seguire un corso. In quanto straniera, non godo di alcun aiuto, né sussidio. I soldi in prigione sono un vero problema. Tutte le relazioni passano da lì. Vorrei affittare una televisione per la mia piccola Pamela, ma a nove euro la settimana è impossibile". Pamela e sua madre aspettano di ritornare in Colombia. Potrebbero uscire già da due mesi, ma stranamente la procedura d’espulsione è molto lunga.

Senza risorse, né famiglia, né amici, si sono sentite rispondere da un’assistente esasperata "che bisognava scrivere alla prefettura". Una logica che invece di prendersela con la povertà se la prende con i poveri!

 

Evelyne, per non stare sola, mangia davanti allo specchio

 

La superficie media di una cella è di nove metri quadrati. Non c’è mai uno spazio per sé. Si deve essere visibili sia di giorno che di notte. Ci si sente perseguitati anche nel sonno. Le celle sono perquisite regolarmente e arbitrariamente, ogni volta che l’amministrazione lo decide. Si è private di qualsiasi intimità. Ho visto donne piangere d’impotenza". Al suo arrivo, Marietta ha l’impressione "che essere in carcere vuol dire essere morta". Dal 1983 è riconosciuto, sia alle condannate che alle imputate, il diritto di corrispondere con chiunque. Dal 1987 il lavoro non è più obbligatorio. Ma resta inevitabile per chi non ha risorse cucina, pulizie, approvvigionamento, cucito, oppure piegare cartoni, imballare cose varie, per salari ridicoli ed estremamente variabili, tra i 100 e gli 800 euro al mese, a seconda dei compiti e dei luoghi, e dai quali verranno poi detratte altre spese di mantenimento da parte dell’amministrazione penitenziaria.

La legislazione del lavoro non si applica alle detenute che non hanno alcuna garanzia sociale e nessuna risorsa, in caso di perdita della loro attività. Entrando in prigione, le donne hanno tutte la sensazione di perdere, non solo la libertà, ma anche la propria identità, "Sentivo pronunciare il mio cognome e mi sembrava diventato un altro. Forse perché era amputato del nome. Oltre al carcere, all’impossibilità di vivere, di essere e di amare, c’era da affrontare questa relazione di frizione e scontro permanente con la guardiana.

Che con i suoi cento volti sarebbe ricomparsa come cento incubi a scandire le ore della giornata". Per Betty, significava perdere ogni spazio di tranquillità. Evelyne, che non ha mai sopportato la solitudine, mangiava in piedi davanti allo specchio, "per vedere qualcuno, per non sentirmi sola" e capiva che "d’un tratto non si ha più nessuno da guardare e non si è più guardate da nessuno". Annie scopriva che "chiunque poteva finire in carcere, ma soprattutto persone sfavorite, come se i ruoli fossero già fissati" e che le trasgressioni delle donne raccontavano soprattutto "spaventose fragilità e pericolosità per se stesse". Paradossalmente, "il carcere può, per alcune, rappresentare un asilo. Si può immaginare da dove vengono...".

Marie-Paule, animatrice di un laboratorio di arti plastiche a Fleury Merogis e che incontra 60 detenute ogni anno, le più strutturate, "l’elite" che mantiene capacità di socializzazione, è colpita anche lei da questa grande miseria - sociale, affettiva e intellettuale - e dall’eterogeneità delle persone. "Quando ci sono percorsi di vita difficili, chiunque può ritrovarsi in carcere. Ma ignoranza e pregiudizi sono molto forti. Il carcere consente di sbarazzarsi dei problemi. Protegge la società e nessuno vuoi sapere cosa succede dentro"

I reati per i quali le donne sono condannate sono rivelatori della loro condizione nella stragrande maggioranza si tratta di contenziosi familiari ed economici, mentre i crimini a carattere violento sono molto al di sotto della media. Secondo la fotografa Jane Evelyne Atwood, che dal 1989 lavora sull’incarcerazione femminile in Europa, Russia e Stati uniti (7): "Se le donne in carcere sono oggi più numerose, è perché sono state modificate le leggi sulla droga ed è cambiata la politica penale; l’89% delle donne sono incarcerate per delitti non violenti, assegni a vuoto, furto di libretti di assegni, falsificazione di carte di credito, uso o vendita di stupefacenti. Quasi sempre, i primi reati sono legati alla droga, e sempre più spesso le donne sono arrestate e condannate per questi motivi"

Le donne incarcerate sono giovani, il 14% ha meno di 20 anni, la maggior parte tra i 20 e i 25 anni Per lo più sono state profondamente segnate da un qualche sconvolgimento nel loro ambiente di origine: decessi, separazioni, divorzi, affidamenti o situazioni di alcolismo e di violenza. Secondo l’Osservatorio carcerario internazionale, il 20% è analfabeta e il 50% ha un livello d’istruzione elementare. Molte sono state curate per turbe psichiche prima dell’incarcerazione. Sono più numerose degli uomini a prendere - e a vedersi proporre psicofarmaci. il 45% contro il 18%.

In loro, il senso di vergogna e di colpa legato alla detenzione è più intenso, il corpo diventa la sede privilegiata con cui esprimere il disagio somatizzano, si ammalano, presentano turbe alimentari o digestive. Perdono le mestruazioni, a volte per tutto il periodo della detenzione. Il problema della sicurezza si pone più per loro stesse che per gli altri. Gli stati di prostrazione o di depressioni gravi, i tassi di suicidio odi automutilazione, sono molto elevati. Ogni anno l’amministrazione penitenziaria registra un centinaio di suicidi, una cifra in costante aumento e che è già raddoppiata rispetto a quindici anni fa (8) In alcuni penitenziari, i tentativi di suicidio sono spesso puniti con ulteriori reclusioni che provocano disperazioni e ricadute, esasperando ciò che è già vissuto come una vera tortura mentale.

Cercando di dare un volto e una storia alle donne in carcere, si scopre che sono meno numerose degli uomini, ma più numerose che mai. La durata media della detenzione, nel suo insieme, è aumentata del 50% in 15 anni e il tasso di recidiva resta a livelli record, circa il 70% (9). La prigione funziona come semplice strumento di gestione delle diseguaglianze e provoca una disgregazione sempre più profonda dei legami sociali. È "privazione di libertà, ma anche di umanità", come sosteneva, già il 5 luglio 2000, il rapporto del Senato e dell’Assemblea nazionale, allarmato dal "gran numero di persone che non dovrebbero essere in carcere: tossicomani, malati psichiatrici, stranieri irregolari, persone molto anziane o malati in fase terminale, giovani appena maggiorenni, imputati...".

Con i beni di consumo che restano per loro inaccessibili ed esibiti con sempre maggiore ostentazione, come si può immaginare che vengano restituite alla società in una migliore disposizione di spirito donne rinchiuse per mesi o per anni in una costante passività e che nella trasgressione avevano cercato riscatto alle loro difficoltà esistenziali, alle ferite affettive, alla mancanza di prospettive sociali?

(1) La trasmissione va in onda all’interno del carcere. Il 30 maggio 2003, con le stesse modalità, è stata inaugurata la prima televisione in ambiente carcerario.

(2) Sèverine Vatant, Droit au travail au rabais pour les détenus,, Maniere de voir, n° 71, ottobre – novembre 2003.

(3) 60.963 detenuti. Con tassi di occupazione delle celle che possono raggiungere il 200%.

(4) Les murs de vos prisons, Albiana 2002.

(5) Edgar Roskis, Uno stato che sorveglia e punisce, Le Monde Diplomatique, luglio 2001.

(6) Case centrali: condannate a lunghe pene, multirecidive; case di reclusione: imputate, condannate a meno di un anno; centri di detenzione: fine detenzione o pene inferiori a tre anni; centri penitenziari: strutture che comprendono varie sezioni a differenti regimi di detenzione.

(7) Jane Evelyne Atwood, Trop de peines, femmes en prison, Albin Michel, Parigi, 2000.

(8) Nel 2002, tra uomini e donne, si sono avuti 120 suicidi, sette volte di più che all’estero.

(9) Francois Hulot, segretario del sindacato CGT-Pènitentiaire in "Compte rendu des travaux de la Commission Justice du Parti comuniste francesi, Parigi, febbraio 2001