Francia

 

Il lavoro nelle carceri della Francia

di Severine Vatant

 

Le Monde Diplomatique, 16 giugno 2003

 

"Il 22 giugno 1987 tutto è cambiato", ricorda Francois Tillol, direttore dell’ufficio del lavoro, della formazione e dell’occupazione alla direzione dell’amministrazione penitenziaria "prima di questa data il lavoro in prigione faceva parte della pena, era obbligatorio. Poi la legge sul servizio pubblico penitenziario ha chiaramente ridefinito i limiti giuridici della pena e l’ha limitata al carcere".

A partire dal 1987, il lavoro svolto in prigione può tornare a essere legalmente ciò che è per tutti i cittadini liberi, cioè un diritto, un mezzo di sussistenza e uno strumento d’integrazione sociale. Il codice di procedura penale, aggiornato per l’occasione, assegna all’amministrazione penitenziaria l’obbligo di dotarsi dei mezzi adatti per assicurare un lavoro a chiunque ne faccia domanda.

Il lavoro in prigione, liberato da ogni connotazione punitiva, acquista, sulla carta, una dimensione eminentemente umana e dignitosa, strumento di sviluppo dell’autonomia personale e del reinserimento.

Tuttavia, prima ancora di promettere la liberazione al detenuto, l’attività professionale svolge una funzione elementare: procurare dei soldi al lavoratore: "I soldi sono necessari per l’indennizzo delle parti civili - precisa Tillol - ma servono anche ad accumulare un risparmio per il momento dell’uscita, a mantenere un’eventuale famiglia all’esterno e, soprattutto, a soddisfare i bisogni propri del prigioniero nel periodo di detenzione".

In effetti, in prigione, tutto costa. Televisione, abbonamento a una rivista, fornitura di un piccolo frigorifero, alimentari per migliorare i pasti quotidiani, sovente mediocri, carta e penna, dentifricio e detersivo. I soldi sono ancora più crudelmente vitali per alcuni, visto che l’imprigionamento è sinonimo di soppressione dei versamenti sociali anche minimi (assegno di disoccupazione o reddito minimo), che fuori contribuivano alla sopravvivenza loro e delle loro famiglie.

Il 10 novembre 2002 nelle prigioni francesi (compresi i dipartimenti d’oltremare), c’erano 54.500 detenuti. Nel corso del 2001 solo il 47 % aveva potuto lavorare. Benché il lavoro sia diventato un diritto, tutti coloro che cercano un impiego nel mondo carcerario non sembrano potervi accedere.

È abbastanza raro che il primo incarico venga rifiutato, salvo per incompatibilità particolare. Salvo per mancanza di posti disponibili, al fortunato eletto si aprono due strade: il servizio generale o le officine. Il servizio generale raggruppa i lavori di cucina, di pulizia e di manutenzione - precisa il sorvegliante capo della prigione di Nantes - le officine propongono una serie di lavorazioni artigianali e industriali.

In questi laboratori esistono due tipi di datori di lavoro. Da un lato, la Regie, ente industriale degli istituti penitenziari (RIEP), struttura pubblica (economica) dello Stato, le cui attività sono principalmente rivolte alla produzione industriale di qualità. Dall’altro lato, imprese private esterne, firmatarie di un contratto di "concessione" sottoscritto con uno o più istituti penitenziari. Queste concessionarie sono i maggiori datori di lavori del mondo penitenziario: nel 2001 il 44 % dei lavoratori era impiegato da esse, contro il 30 % per il servizio generale e il 5 % per il RIEP, mentre il resto si divide tra la formazione professionale remunerata e il lavoro all’esterno.

Il ventaglio dei lavori accessibili e i tassi di attività variano considerevolmente da un carcere all’altro e l’autorizzazione per lavorare è sottoposta a un "via libera" amministrativo. Un responsabile della formazione in prigione racconta: "il nuovo arrivato, appena oltrepassa la porta di un carcere o di una prigione per lunghe pene, deve presentare la propria domanda di lavoro. A seconda degli istituti carcerari, la decisione di destinare a un posto di lavoro un detenuto è presa dal direttore del carcere, o dal sorvegliante che si occupa del lavoro o, più di recente, da una commissione di verifica, che riunisce la direzione e i rappresentanti del polo medico - psicologico, socio-educativo e giudiziario: motivazione, condotta, situazione economica e stato psicologico del candidato pesano sulla bilancia".

 

Senza tutele

 

Tuttavia, c’è una costante, nella situazione spinosa delle carceri per pene brevi, sottoposte alla rotazione della popolazione carceraria e alle prese con la difficoltà di organizzare attività professionali continuative in un contesto perpetuamente instabile. In questi tipi di carcere, il tasso di attività è il più basso e i lavori sono i meno qualificati.

Anche se la pena dovrebbe consistere nella privazione di libertà, sia i lavoratori del servizio generale, sia quelli delle officine, sono puramente e semplicemente esclusi dal comune diritto del lavoro, non hanno contratto, a loro non si applica alcuna convenzione collettiva. I contratti di concessione conclusi tra un carcere e un’impresa non prendono mai in considerazione i futuri dipendenti.

L’amministrazione penitenziaria riveste, in questo caso, il ruolo di società di lavoro in affitto e fornisce una manodopera che fa poco caso alle clausole del contratto. E a ragione, visto che non è la manodopera a firmare il contratto. Questi lavoratori senza status fanno quindi una croce sopra le conquiste sociali del mondo esterno: nessun periodo di prova o di preavviso, né una procedura di licenziamento, nessun salario minimo convenzionale, nessuna possibilità per i dipendenti di avere una struttura per esprimere la propria volontà o dei rappresentanti, e in mancanza di disposizioni legali, nessuna indennità in caso di malattia o di disoccupazione, neppure in caso di cassa integrazione.

Una sola concessione al diritto comune: "Applichiamo ormai le norme d’igiene e di sicurezza delle condizioni di lavoro" sottolinea Dominique Orsini, direttore dell’unità lavoro e occupazione della direzione generale dei servizi penitenziari di Parigi - e, nel quadro del piano di miglioramento del lavoro e dell’occupazione, abbiamo recentemente chiesto alle carceri di introdurre un "surplus di impegno", che ricordi principalmente le regole di funzionamento proprie al carcere, ma menzioni allo stesso tempo, per esempio, la remunerazione e gli orari di lavoro.

Questo succedaneo di contratto di lavoro, traccia scritta di un impegno reciproco, mai formalizzato prima, vale quello che vale, cioè è solo un simbolo di una volontà di progresso. L’amministrazione penitenziaria, benché cosciente della situazione, cura come può piaghe di cui, tutto sommato, non è completamente responsabile: senza una revisione legislativa di fondo, ha le mani legate e i suoi mezzi di azione restano limitati.

Per un minoranza di posti qualificati, soprattutto nelle carceri per lunghe detenzioni, il grosso dell’occupazione riguarda piuttosto un’attività con materiali forniti dal datore di lavoro, piegature, inscatolamento, piccoli montaggi, scampolatura, imballaggio: tutti lavori a debole valore aggiunto ma che richiedono molta manodopera.

Allo stesso modo, se si esclude qualche lavoro pagato correttamente, la media delle remunerazioni versate in prigione è incredibilmente bassa. Le imprese concessionarie, che producano direttamente o in subappalto, remunerano il lavoro quasi esclusivamente a cottimo. Viene stabilita una cadenza oraria, alla quale corrisponde un salario orario: una media di 3 euro nelle prigioni per pene brevi, dai 3,80 ai 4 euro nelle carceri per le lunghe pene detentive.

Chi riesce a superare la cadenza guadagna bene, ma chi è in ritardo prende una miseria. Una giornata normale, in officina, permette di guadagnare 15 - 16 euro lordi. Un montante che può raggiungere 25 euro o più raramente 45 - 50 euro per lavori a forte valore aggiunto.

Calcolate su base mensile, queste medie sono ancora più derisorie (446 euro netti nelle officine della RIEP, 382 euro nelle officine sotto concessione, 157 nel servizio generale), a causa dell’irregolarità dell’attività e della frequente disoccupazione, per motivi tecnici, imposta dalle concessionarie.

"Gran parte della popolazione carceraria è inadatta al mondo del lavoro - afferma però Tillol - e le qualifiche sono piuttosto rare". Il profilo di questa popolazione giustificherebbe quindi un’attività professionale senza contratto e con salari lillipuziani. Tuttavia, persino il gruppo privato GEPSA, presente in quattordici carceri a gestione mista e che non può essere sospettato di insensibilità alla questione della redditività, introduce la presentazione del suo "dispositivo di valorizzazione del lavoro penitenziario" precisando che «in termini di attitudini e di potenziale, non esistono differenze significative tra l’efficacia delle persone in carcere e quella di una popolazione identica, non "giudiziarizzata".

Alzare il costo sociale del lavoro? Introdurre dei vincoli contrattuali? L’idea fa fremere tutti i responsabili del lavoro che abbiamo incontrato. Secondo loro, non ci sarebbe miglior mezzo per far disertare le officine da parte dei datori di lavoro. Ma di quali datori di lavoro stiamo parlando? Si tratta di imprese che l’assenza di legge non costringe a mantenere un livello costante di occupazione, che dispongono di locali gratuiti, a volte anche di superfici di magazzino gratuite, di accesso all’acqua, all’elettricità, ecc., senza bollette, che pagano contributi ridotti al 15 % della massa salariale, contro il 40 – 50 % all’esterno. In presenza di un rincaro, dovuto a un riavvicinamento al diritto comune, il lavoro in prigione resterebbe, di fatto, più che a buon mercato.

Se, da un lato, l’inserimento nel mercato induce un livello di remunerazione che impedisce una decente progressione delle qualifiche e trasforma l’accoppiata occupazione - percorso di formazione professionale in un vero e proprio rompicapo; e se, dall’altro, l’assenza del diritto del lavoro azzera lo spirito della legge del 1987 e riduce la manodopera carceraria a una variabile dipendente, allora, forse, bisogna interrogarsi sulla pertinenza del sistema attuale.

Vi sono vari spunti di riflessione con origini diverse: da parte del senatore Paul Loridant, autore di un rapporto sul lavoro in prigione, da parte di militanti dei diritti umani, da parte dell’amministrazione penitenziaria stessa, ma anche da parte di concessionari scrupolosi e a disagio nella situazione attuale.

Alla fine, tutte le idee raccolte tessono un insieme piuttosto coerente: eliminazione delle attività private a vantaggio di impieghi a servizio dello Stato e della collettività (informatizzazione di archivi nazionali, restauro del patrimonio, produzione industriale o intellettuale che risponda a mercati pubblici), creazione di un ente di diritto pubblico per il lavoro, in occasione della prossima scomparsa della RIEP, inglobamento parziale o totale del lavoro penitenziario in strutture di lavoro protetto, tipo impresa di inserimento o Centro di Aiuto attraverso il Lavoro (CAT).

Tutte queste proposte hanno un obiettivo comune, cioè restituire al lavoro i valori, l’etica e la dimensione socializzante che in prigione non raggiunge. Ma il progetto di legge provvisorio di Mary Lise Lebranchy (ministra della giustizia del governo di Lionel Jospin), che conteneva significativi passi avanti in termini di diritto del lavoro, è passato nel dimenticatoio. La recente legge Perben, di orientamento e di programmazione della giustizia, invece, non abborda neppure la questione.

 

 

 

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