Custodia attenuata a Bergamo

 

Allo studio una sezione a custodia attenuata
destinata a tossicodipendenti e alcolisti

 

L’Eco di Bergamo, 23 luglio 2002

 

Il dramma del carcere si fa ancora più cupo se alla disperazione del dover vivere in cella si affianca quella del dover convivere con lo strazio di una malattia già difficile da sopportare in libertà: Aids piuttosto che tubercolosi, sifilide piuttosto che epatite. Una realtà che anche la Casa circondariale di Bergamo conosce bene, pur se oggi - con l’impossibilità di sottoporre i detenuti ad un regime obbligatorio di sorveglianza e prevenzione delle malattie infettive - non è possibile definire un quadro esatto del fenomeno. Tuttavia, da alcuni controlli eseguiti dall’Asl su un campione di detenuti sottopostisi volontariamente ai test, è emerso che su 200 detenuti italiani testati (186 maschi e 14 femmine) l’8% è risultato positivo alla «mantoux» per la tubercolosi, così come il 9,5% di 179 detenuti extracomunitari (169 maschi e 19 femmine). Il test per l’Hiv ha dato risultato positivo per il 23% dei 139 carcerati italiani testati e per il 3,3% dei 90 detenuti extracomunitari, mentre è risultato positivo al test per la sifilide il 2,6% dei 226 detenuti che hanno deciso di sottoporsi all’esame diagnostico.
Numeri che dicono poco, ma comunque in grado di tracciare una tendenza che il carcere non può ignorare, soprattutto a fronte di un grave problema di sovraffollamento con cui la Casa circondariale di Bergamo è alle prese e che - come ha recentemente rilevato un sopraluogo dell’Azienda sanitaria locale - provoca uno stato di precarietà tra la popolazione detenuta. Attorno al mondo della tossicodipendenza ruota, seppure su un proprio asse, anche quello dell’alcolismo, altra piaga che aggiunge disperazione a disperazione dentro i quattro muri di una cella. Un problema delicato da affrontare e complesso da risolvere, fonte di litigi e risse a volte violente, capace nel contempo di gettare il detenuto alcolista in un clima di sconforto e di depressione dalle conseguenze inimmaginabili. Nasce da tutta questa situazione l’idea di dar vita, all’interno del carcere di via Gleno, ad una sezione a custodia attenuata per detenuti tossicodipendenti e alcolisti, uomini e donne per i quali si potrebbero ipotizzare alcuni «premi» (arresti domiciliari piuttosto che un regime carcerario in stato di semilibertà, a seconda dei casi) di fronte all’accettazione di sottoporsi con provata serietà a programmi di recupero mirati. Asl e ministero di Grazia e Giustizia sono infatti convinti che poter iniziar «da dentro» programmi terapeutici di recupero, creando una condizione migliore per la loro applicazione (meno affollamento, più vicinanza ai soggetti bisognosi di aiuto), ha senza dubbio un ricaduta positiva sulla buona riuscita dei percorsi alternativi alla detenzione. Inevitabilmente, però, l’ostacolo più difficile da superare resta legato alle «ideologie» di fondo dei due soggetti protagonisti dell’iniziativa: da una parte l’Azienda sanitaria, motivata a portare avanti innovativi progetti di riabilitazione dentro le mura del carcere; dall’altra l’Amministrazione penitenziaria, il cui atteggiamento «custodialistico» finisce comprensibilmente col prediligere le esigenze di sicurezza. E così le frizioni che a volte si determinano rischiano di vanificare i grossi sforzi che le due istituzioni cercano di portare avanti nell’interesse dei detenuti. Dopo attente valutazioni, comunque, il progetto è in fase di gestazione e quasi certamente coinvolgerà operatori anche di altre associazioni. Per i soggetti più gravi - quelli cioè alla prese con l’Aids conclamata o sindromi correlate di uguale rilevanza - vige comunque un accordo tra carcere, Asl e Caritas Diocesana per la loro presa in carico nella comunità «San Michele», un centro di accoglienza della Comunità Emmaus.

 

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