Trattamento dei tossicodipendenti

 

Il trattamento penitenziario del tossicodipendente

(da "Trattamento penitenziario e misure alternative", di Adriano Morrone)

 

Il fenomeno dell’uso di stupefacenti, pur risalendo ad antiche origini, ha avuto un’ampia diffusione tra la popolazione italiana a partire dalla fine degli anni Sessanta e costituisce, ormai, uno dei più gravi problemi sociali del nostro tempo. La droga, profondo disagio umano e sociale, non è un fenomeno che si configura in modo isolato ed a se stante. Essa è parte del più complesso fenomeno della devianza, che ha origine principalmente nel disagio e nella conflittualità giovanile, che la società industrializzata e tecnologica produce. Concorrono, inoltre, a costituire il fenomeno - ed a renderlo più acuto - fattori personali, familiari, ambientali ed anche casuali, i quali, correlandosi con le componenti strutturali del problema, lo rendono estremamente complesso e stratificato.

Oggi, il consumo di sostanze stupefacenti non rappresenta più un tema di novità. Si tratta, infatti, di un problema sociale ed esistenziale, politico e sanitario, economico e giuridico, che nel corso degli anni è divenuto oggetto, anche in Italia, di studi e ricerche, non che di interessi e interventi di varia natura.

L’ampia diffusione degli stupefacenti ha destato un notevole allarme sociale, dovuto sia alla presa di coscienza degli effetti altamente nocivi derivanti dall’uso di tali sostanze, sia alla constatazione del nesso causale intercorrente tra droga e criminalità.

Tuttavia, la percezione sociale del fenomeno della tossicodipendenza è stata, nel corso degli anni, tutt’altro che univoca. Si è passati, infatti, da una diagnosi della tossicodipendenza che, partendo da fattori patogenetici, giungeva a forme di prevenzione basate sulla paura e su indebiti allarmismi per concludersi, alla fine, con metodi terapeutici che privilegiavano la risocializzazione coatta, il carcere, il reparto psichiatrico e la cura farmacologia, ad una concezione che considera la tossicodipendenza come conseguenza, da un lato, dell’esistenza e delle pressioni del mercato, dall’altro, della condizione di crisi culturale, di conflitto sociale ed economico, di anomia diffusa che è propria, in diversa misura, di tutte le società industriali contemporanee.

Le diverse percezioni del fenomeno non potevano non influire anche sull’aspetto normativo della questione droga. Infatti, la regolamentazione dell’uso di stupefacenti, pur avendo esteriormente una veste normativa, è intrisa di quelle scelte etiche, ideologiche e di governo dell’esistente che costituiscono l’essenza del politico (Gius, 1982).

L’evoluzione della legislazione in materia di stupefacenti è, quindi, partita dai problemi sollevati dal consumo, dall’abuso, dal traffico e dai meccanismi di mercato delle varie droghe illegali, per giungere, sulla spinta di mutamenti della concezione sociale della tossicodipendenza, a porre sempre più l’attenzione anche sulla condizione sociale e sanitaria del tossicomane e, conseguentemente, sull’aspetto della cura e dell’assistenza del medesimo.

Ma nel momento in cui si pone l’attenzione - nell’ambito di una politica generale di contrasto del fenomeno - sugli aspetti terapeutici, si deve tener conto del fatto che la stretta connessione tra droga e criminalità ha come effetto naturale l’ingresso nel circuito penitenziario di un ingente numero di tossicodipendenti.

Sorge, pertanto, l’esigenza di assicurare a tali soggetti un intervento terapeutico e socio-riabilitativo anche all’interno del carcere, di modo che la detenzione possa costituire non un momento esclusivamente afflittivo, ma l’occasione per stimolare nell’individuo un processo di cambiamento che lo conduca all’abbandono dello stile di vita e degli atteggiamenti connessi alla tossicodipendenza, in coerenza ai principi di rieducazione della pena e di individualizzazione del trattamento.

L’individuazione e l’attuazione di modalità di intervento efficaci nei confronti del detenuto tossicodipendente costituisce un problema di non facile soluzione, in quanto deve necessariamente tenere conto delle specificità della realtà penitenziaria (sovraffollamento, carenza di strutture, etc.), nonché delle esigenze di ordine e sicurezza dell’istituto. Il trattamento penitenziario del tossicodipendente non può, peraltro, essere considerato un tipo di intervento a se stante, ma deve necessariamente inserirsi in una più ampia strategia di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza, che coinvolga non solo il carcere, ma anche le altre istituzioni dello Stato e, più in generale, l’opinione pubblica.

Prima di approfondire la tematica in argomento, è opportuno premettere che finora si è fatto riferimento indistintamente alle figure del tossicodipendente e del tossicomane. Si tratta, invero, di condizioni personali molto diverse: il termine "tossicodipendenza" indica, secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, una condizione psichica caratterizzata da atteggiamenti che includono una compulsione all’uso periodico di droga per sperimentarne gli effetti psichi ci e per evitare i disturbi legati alla sua mancanza, mentre per "tossicomania" si intende l’organizzazione di tutto il comportamento dell’assuntore intorno alla ricerca ed all’assunzione della sostanza, fino alla completa scomparsa degli interessi propri del suo standard culturale. Ciò, tuttavia, non toglie che i due termini possano essere considerati - così come è dato evincere dalla terminologia legislativa - sostanzialmente equivalenti ed essere quindi utilizzati indifferentemente.

Per quanto concerne le forme di dipendenza dalle sostanze stupefacenti, si suole distinguere tra dipendenza fisica, consistente nell’alterazione dello stato fisiologico derivante da ripetute assunzioni della sostanza cui consegue la necessità di continuarne l’uso al fine di evitare gli sgradevoli sintomi della sindrome da carenza, e dipendenza psichica (o psicologica), che si ha quando nel soggetto insorge un impulso che richiede l’assunzione della droga per ottenerne piacere, mentre la mancanza della stessa in genera uno stato di sconforto. Tale distinzione tende, tuttavia, ad essere superata dal concetto di neuroadattamento, elaborato dall’Organizzazione mondiale della sanità, comprendente sia manifestazioni organiche che psicologiche e teso ad evitare una sottostima della pericolosità di quelle sostanze che procurerebbero "solo" dipendenza psicologica (Merzagora Betsos, 2001). Sebbene i primi interventi legislativi in materia di stupefacenti risalgano ai lontani anni Venti e Trenta, è solamente con la legge 22 dicembre 1975, n. 685, che si è prestata, per la prima volta, attenzione anche all’aspetto terapeutico e riabilitativo della tossicomania, attribuendo competenze specifiche al Ministero della sanità ed agli organi regionali e locali, nella consapevolezza che il fenomeno della diffusione e dell’uso degli stupefacenti richiedesse un impegno sociale, culturale e giuridico.

Il legislatore del ‘75 si è preoccupato di garantire comunque un trattamento terapeurico al tossicodipendente a prescindere dall’eventuale consenso di quest’ultimo, non effettuando alcuna riflessione in merito all’effettiva utilità di un trattamento coercitivo. In particolare, verificata la sussistenza della causa di non punibilità prevista dall’articolo 80 (c.d. "modica quantità"), il soggetto detentore-consumatore non veniva colpito da sanzione penale, ma poteva essere coattivamente sottoposto, mediante provvedimento giurisdizionale, al ricovero ospedaliero oppure a cure ambulatoriali o domiciliari, con esclusione dell’internamento in ospedale psichiatrico.

L’articolo 100 consentiva, altresì, al tribunale, previo accertamento delle condizioni della persona segnalatagli, di disporre un "trattamento necessario", indipendentemente dal consenso dell’interessato. Il tossicodipendente veniva, pertanto, affidato ad un presidio ospedaliero, ambulatoriale, medico e sociale, localizzato nella regione, per l’attuazione del trattamento medico-assistenziale.

Sempre in tema di assistenza, la legge n. 685/75 non poteva non tener conto del costante aumento del numero dei tossicomani che entravano nel circuito penitenziario e della necessità di assicurare un intervento terapeutico in un contesto che, inevitabilmente, amplifica le carenze fisio-psichiche del soggetto. L articolo 84, dopo aver genericamente sancito che "chiunque si trovi in stato di custodia preventiva o di espiazione di pena e sia ritenuto dall’autorità sanitaria abitualmente dedito all’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope ha diritto di ricevere le cure mediche e l’assistenza necessaria a scopo di riabilitazione", impone la creazione di "reparti carcerari opportunamente attrezzati".

È, però, solamente con la legge 26 giugno 1990, n. 162- confluita nel Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 - che è stata rivolta particolare attenzione al trattamento terapeutico e riabilitativo del tossicodipendente.

Muovendo dalla premessa che i fattori eziologici della tossicomania sono molteplici ed interagiscono con forme e contenuti diversi tra loro, la normativa teste citata prevede una eterogeneità di forme trattamentali mediante le quali intervenire tendenzialmente su tutte le possibili cause del fenomeno, adattandosi al singolo individuo nella graduazione e nelle modalità di intervento.

L’espressione trattamento designa, pertanto, una eterogeneità di interventi di tipo terapeutico, socio-riabilitativo, farmacologico e psico-sociale, i quali devono essere non solo personalizzati e rispettosi del consenso dell’interessato, ma devono anche assicurare la garanzia dell’anonimato.

Al fine di assicurare la più completa attuazione degli interventi di assistenza socio-sanitaria su tutto il territorio, la legislazione del 1990 ha previsto l’attribuzione di competenze specifiche allo Stato, agli enti territoriali e ai cosiddetti enti ausiliari (comuni, comunità montane, servizi pubblici per le tossicodipendenze presso le aziende sanitarie locali).

Venendo, ora, all’esame delle problematiche peculiari del tossicomane, si può rilevare anzitutto che tale soggetto porta con se elementi di disorganizzazione affettiva, di difficoltà di comunicazione che lo rendono incapace di accogliere le istanze quotidiane di rapporto. Non trovando in se un equilibrio apparente, una possibilità di adeguamento e di accettazione, il tossicodipendente ricerca artificialmente condizioni apparenti per sopravvivere e si chiude in un mondo ermetico limitato a quel microcosmo che aggrega altre persone come lui.

Sovente il tossicomane proviene da nuclei familiari disgregati o disarmonici, nei quali l’autorità paterna viene vissuta come assente oppure come minaccia, mentre la madre è spesso assente oppure fin troppo presente con attenzioni eccessi,;re e soffocanti, inutili e controproducenti; il tutto determina la perdita della stima di se e l’insorgere di auto/etero-aggressività.

Siffatti nuclei familiari non assolvono, quindi, alla propria funzione di "agenzia di riduzione dell’ansietà", ma costituiscono un importante terreno sul quale può agevolmente innestarsi il fenomeno droga. Sul piano psicopatologico le conseguenze della condotta tossicomane sono caratterizzate da una prima fase nella quale si verifica una grossolana accentuazione dei tratti della personalità con conseguente slivellamento sul piano sociale, seguita da una progressiva destrutturazione della personalità con decadimento dell’intelligenza.

Nelle fasi non avanzate, spesso si assiste all’insorgenza di crisi reattive che prendono vita da una residua capacità di giudicare direttamente la propria situazione e che sfociano in sindromi depressive talora seguite dal suicidio. Sulla personalità, inoltre, influiscono in modo rilevante le alterazioni psichiche di origine organica, quali il disgregamento della personalità, la demenza, etc.

Il soggetto tossicomane presenta un’intossicazione, acuta o cronica, la cui sintomatologia varia in relazione al tipo di stupefacenti utilizzato. Riguardo alle sostanze stimolanti il sistema nervoso centrale, occorre distinguere tra anfetamina e sostanze assimilabili, e cocaina.

La dipendenza da anfetamina accresce il desiderio o bisogno di continuare ad assumere il farmaco in quantità crescenti, in modo tale da ottenere un maggior effetto eccitante ed euforizzante, e combattere più efficacemente la depressione e la fatica; si determina, pertanto, una dipendenza psichica dal farmaco, in relazione all’apprezzamento individuale e soggettivo degli effetti del farmaco stesso. Sul piano fisico 1’utilizzo di anfetamina non determina dipendenza fisica, ma può causare dimagrimento eccessivo fino all’anoressia, allucinazioni e schizofrenia.

Caratteristiche simili ha la dipendenza da cocaina, che è di natura esclusivamente psichica e può sviluppare, oltre ad un elevato grado di tolleranza, talune alterazioni comportamentali tra cui abbastanza tipiche sono l’ipersessualità nelle femmine, le deviazioni sessuali nei maschi e le stereotipie. Sono frequenti, inoltre, un forte sviluppo dell’aggressività ed una profonda depressione, accompagnata da sonno, allo scemare dell’effetto euforizzante dello stupefacente.

Riguardo all’oppio ed agli oppiacei (morfina, eroina, derivati sintetici), la farmocodipendenza è caratterizzata da grave dipendenza psichica, marcata dipendenza fisica e dallo sviluppo di elevatissima tolleranza. Effetti della dipendenza sono, in particolare, la miosi, l’apatia, la diminuzione della libido. Relativamente all’intossicazione da eroina, è stata anche riscontrata un’alterazione della personalità in senso criminogeno, con spiccata aggressività e comportamento generalmente brutale.

In soggetti con tali carenze fisio-psichiche l’impatto con il carcere si rivela particolarmente problematico, soprattutto a causa della improvvisa privazione della libertà personale, della mancanza di capacità di adattamento alla nuova realtà, della ulteriore emarginazione che il tossicodipendente subisce all’interno del penitenziario, per il fatto che viene considerato dagli altri detenuti come un potenziale portatore dell’infezione da HIV e, comunque, come un elemento di disturbo; tale condizione personale, obiettivamente difficile, è ulteriormente aggravata dalla improvvisa interruzione dell’assunzione di stupefacenti e dalla conseguente crisi da astinenza, che si verifica nelle prime 24- 72 ore di detenzione.

In particolare, nei soggetti dipendenti da oppiacei naturali e sintetici la sindrome da carenza è caratterizzata da lacrimazione, sbadigli, rinorrea, midriasi, nausea e vomito, lieve aumento della pressione arteriosa, diarrea, febbre e sintomi di irritabilità del sistema nervoso centrale, quali l’insonnia, l’accentuazione dei riflessi, crampi e dolori muscolari. Conseguente alla sindrome da astinenza da oppiacei e da sostanze stimolanti del sistema nervoso centrale è lo sviluppo di uno stato ansioso-depressivo, fonte di tendenze autolesionistiche o suicide.

Ma l’autolesionismo può avere origini e finalità diverse: per alcuni soggetti può essere un mezzo per ottenere attenzione e aiuto;per altri, invece, rappresenta un atto dimostrativo di reazione ad una situazione (quella detentiva) che sfugge alla propria volontà e al proprio controllo. In questo caso il soggetto intende dimostrare - attraverso la violenza e, a volte, anche la minaccia di contagio, nel caso in cui il soggetto si proclami (a torto o a ragione) siero positivo - una propria forza, un potere sulle cose, sulle persone, sulla struttura e sugli operatori penitenziari "che lo costringono".

l’autolesionismo è in realtà un fenomeno possibile in qualsiasi fase dell’esecuzione della pena, ma trova nelle prime ore della detenzione uno dei momenti di più frequente verificazione.

Dinanzi a problematiche così delicate l’amministrazione penitenziaria deve farsi carico, prima ancora di porre in essere gli interventi trattamentali finalizzati al recupero del soggetto, di due problemi fondamentali per la tutela del diritto alla salute sancito dall’arti colo 32 della Costituzione: l’individuazione dello stato di tossicodipendenza e l’azione di controllo e sostegno nel primo periodo della detenzione.

Premesso che l’assegnazione del nuovo giunto presso un istituto o una sezione idonei rappresenta un atto discrezionale dell’amministrazione penitenziaria, che deve comunque tenere conto di quanto stabilito dall’articolo 14, comma 2, della legge n. 354/75, circa la possibilità di procedere ad un trattamento rieducativo comune e l’esigenza di evitare influenze nocive e reciproche, l’amministrazione, nell’esercizio del potere discrezionale, deve necessariamente osservare gli altri criteri indicati nell’articolo 42, commi 1 e 2, della stessa legge, vale adire: i motivi di sicurezza, le esigenze dell’istituto, i motivi di giustizia, di salute, di studio e familiari, la destinazione dei soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie. Tali criteri possono considerarsi "generali", in quanto debbono essere osservati nei confronti di tutti i detenuti.

In relazione al tossicodipendente, la legge ha, invece, disciplinato in modo specifico le fasi dell’assegnazione e del trattamento. Il legislatore, infatti, già dal 1975 ed ancor più ne11990, ha preso atto della necessità di separare i tossicodipendenti dagli altri reclusi, in primo luogo per sottrarre quest’ultimi dal pericolo della diffusione dell’uso della droga e per sottrarre i primi, in quanto soggetti più fragili fisicamente e psicologicamente, al pericolo di prepotenze, SOpraffazioni, strumentalizzazioni, ricatti e violenze di ogni genere da parte degli altri detenuti; in secondo luogo, per poter assicurare ai tossicodipendenti un regime penitenziario nel quale gli aspetti trattamentali non siano limitati dalle esigenze della sicurezza.

Ciò costituisce la ratio degli articoli 95 e 96, comma 1, del Testo unico di cui al D.P.R. 309/90, i quali prevedono, rispettivamente, che la pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi e che la persona in stato di custodia cautelare o di espiazione di pena per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente o che sia ritenuta dall’autorità sanitaria abitualmente dedita all’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope o che comunque abbia problemi di tossicodipendenza ha diritto di ricevere le cure mediche e l’assistenza necessaria all’interno degli istituti carcerari a scopo di riabilitazione.

A tal fine il Ministro della giustizia organizza, con proprio decreto, su basi territoriali, reparti carcerari opportunamente attrezzati, provvedendo d’intesa con le competenti autorità regionali e con i centri che si occupano della riabilitazione dei tossicodipendenti.

La scelta operata dal legislatore, nella consapevolezza del ruolo fondamentale che il trattamento terapeutico e socio-riabilitativo riveste nel recupero del tossicomane, ha inteso creare all’interno del circuito penitenziario - luogo nel quale la privazione della liberà personale, la rigidità delle regole e la problematicità dei rapporti umani influiscono negativamente sulle condizioni fisio-psichiche del tossicodipendente - un circuito differenziato in senso positivo, e cioè come intenzione e possibilità di offrire a tali detenuti, in sezioni di istituti e in istituti idonei, le cure mediche, l’assistenza, i programmi terapeutici e socio-riabilitativi che la legge impone. Un circuito penitenziario speciale, nel senso indicato, per detenuti tossicodipendenti in genere, utile per promuovere nel soggetto l’interesse ad iniziare o a proseguire il programma riabilitativo e, comunque, necessario ad evitarne l’ulteriore decadimento delle condizioni fisio-psichiche. Il tutto in un contesto di individualizzazione del trattamento, nel senso che il soggetto tossicodipendente in carcere presenta problemi diversi che richiedono una serie di accertamenti particolari e di interventi specifici, che non possono essere affrontati e risolti solamente attraverso un’azione di mero sostegno psicologico e/o farmacologico.

Affinché il trattamento intramurario possa conseguire risultati apprezzabili, ad ogni tossicodipendente ristretto dovrebbe essere assicurato un programma minimo che comprenda: interventi di urgenza per il controllo dei comportamenti di dipendenza, per la disintossicazione, per la cura degli aspetti fisici generali, etc.; un’informazione ampia, capillare e continuata nel tempo sui rischi connessi all’abuso di droghe, anche con riferimento all’AIDS e ai comportamenti che ne facilitano il contagio, mediante l’impiego di metodologie attive implicanti un coinvolgimento partecipativo degli interessati (distribuzione di opuscoli, gruppi di incontro con l’intervento di specialisti ed operatori, seminari, dibattiti, tavole rotonde, etc.); interventi psicologici di sostegno; un aiuto pedagogico-sociale che serva da stimolo al mantenimento e all’ampliamento degli interessi affettivi, culturali e sociali, con particolare riguardo alle relazioni familiari, mediante programmi e modalità di intervento che vanno adattate alla particolare condizione ed alla cultura dei soggetti in questione, nonché alle diverse esigenze di sicurezza dei singoli istituti o sezioni; occorre, pertanto, agevolare, sia i colloqui e gli incontri con i familiari, anche con prolungamento di orari e con ampia utilizzazione di spazi verdi, sia la corrispondenza telefonica dei detenuti tossicodipendenti stranieri, onde non interrompere le relazioni con i loro familiari, sia le attività istruttive, sportive, ricreative, socioculturali, lavorative; un’analisi approfondita dei problemi personali/relazionali sottesi alla tossicodipendenza ed una conseguente azione volta a motivare il soggetto ad aderire ad un programma di trattamento più impegnativo; interventi preparatori alla dimissione e al successivo eventuale percorso di recupero in stretta collaborazione con la comunità esterna.

L’individuazione, la predisposizione e l’attuazione del programma terapeutico e riabilitativo non sono demandate dalla legge esclusivamente all’amministrazione penitenziaria, ma costituiscono un preciso obbligo gravante sugli enti territoriali, che devono provvedervi attraverso le proprie strutture. Infatti, l’articolo 96, comma 3, del Testo unico prevede che "le unità sanitarie locali (ora aziende sanitarie locali), d’intesa con gli istituti di prevenzione e pena ed in collaborazione con i servizi sanitari interni dei medesimi istituti, provvedono alla cura ed alla riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti o alcoolisti".

Tale norma costituisce un’ulteriore conferma del fatto che il legislatore concepisce il carcere e le problematiche che in esso confluiscono, non come un mondo isolato ed avulso dalla comunità esterna, bensì come una realtà sociale che è parte integrante della comunità stessa, del cui costante contributo necessita per la risoluzione delle peculiari problematiche in essa presenti.

In esecuzione al dettato dell’articolo 96, comma 3, il Ministero della giustizia ha elaborato, nel 1991, uno schema di convenzione da stipulare con le aziende sanitarie locali, nel quale vengono ulteriormente specificati i rispettivi obblighi dei soggetti firmatari ed i rapporti di collaborazione tra gli stessi.

Dal canto suo, l’amministrazione penitenziaria, in ottemperanza alle regole ed ai principi contenuti nell’ordinamento penitenziario e nel Testo unico, non ha attuato nei confronti del tossicodipendente un trattamento penitenziario unico ed indifferenziato, ma ha previsto una serie di interventi diversificati in funzione delle caratteristiche specifiche dei soggetti cui sono destinati, nonché delle peculiari caratteristiche strutturali degli istituti presso i quali il trattamento deve essere attuato.

Si possono distinguere, in generale, interventi di base (o di primo livello) e trattamenti avanzati (o di secondo livello). Gli interventi di base sono posti in essere negli istituti nei quali non sono realizzati trattamenti avanzati e sono diretti a tutti i soggetti con problemi di tossicodipendenza nella fase dell’ingresso negli istituti penitenziari dalla condizione di libertà.

l’attuazione di tali interventi continua anche successivamente, nel corso della carcerazione, nei confronti dei soggetti la cui liberazione è prevista a breve scadenza o che abbiano atteggiamenti di rifiuto ad assumere impegni sul piano trattamentale.

Riguardo ai contenuti degli interventi di primo livello, si possono distinguere quattro fasi: la fase di prima individuazione dei soggetti da inviare alle strutture riservate ai tossicodipendenti; la fase di accoglienza nella struttura riservata ai tossicodipendenti; la fase di trattamento; la fase di dimissione e di reinserimento sociale.

Nel corso della prima fase si avrà cura di rilevare, in occasione dei colloqui e degli interventi effettuati ordinariamente per tutti i detenuti provenienti dalla libertà all’atto dell’ingresso, l’eventuale condizione di tossicodipendenza, secondo i criteri e le procedure esaminate precedentemente. Il soggetto rilevato tossicodipendente verrà, quindi, immediatamente smistato nella struttura all’uopo predisposta con la segnalazione degli interventi di urgenza e delle cautele da realizzare per fronteggiare la situazione attuale.

Nella seconda fase verranno tempestivamente effettuati gli interventi eventualmente indicati come urgenti dal presidio che ha inviato il soggetto, ivi compreso l’inizio di un processo di disintossicazione o di mantenimento del trattamento farmacologico eventualmente già prescritto, ovvero il controllo delle reazioni da astinenza che il soggetto stesso presentasse. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, il medico si trova a dover operare necessariamente una scelta tra l’impostazione di un programma terapeutico con farmaci antagonisti (in particolare il metadone) ed una "terapia secca". La prima terapia consiste nella somministrazione, sotto rigido controllo del sanitario, di metadone in dosi sempre minori nel corso del tempo fino alla completa disintossicazione. Tale metodo, se da un lato permette di evitare al tossicodipendente le sofferenze dovute alla sindrome da astinenza, dall’altro causa un ulteriore abbassamento delle difese immunitarie dovuto al fatto che nell’organismo del soggetto continuano ad essere introdotte, anche se in quantità sempre minore, sostanze tossiche. Proprio la valutazione degli effetti nocivi derivanti dalla somministrazione di farmaci antagonisti costituisce il punto di partenza per i sostenitori della "terapia secca", che consiste nel far evolvere il decorso della crisi in modo naturale, senza ricorrere alla somministrazione di alcuna sostanza se non, in via eventuale, di farmaci leggeri e specifici come antiemetici, antidolorifici, etc. In tal modo si consente all’organismo del tossicodipendente di recuperare forze e salute in tempi più brevi, pur dovendo superare le notevoli sofferenze legate alle reazioni da astinenza. Il soggetto verrà, quindi, preso in carico sotto il profilo psicologico ed educativo-sociale, sia mediante colloqui con gli operatori penitenziari dell’istituto e con l’esperto ex articolo 80 della legge n.

354/75, sia mediante la segnalazione di esigenze e problemi familiari al centro di servizio sociale per gli interventi di competenza all’esterno. Sempre alla fase di accoglienza appartiene, inoltre, l’attivazione- ai sensi dell’articolo 23, comma 3, del regolamento di esecuzione - dei servizi specializzati nel trattamento delle tossicodipendenze operanti in istituto per l’avvio degli interventi di competenza.

La fase di trattamento prevede, da un lato, interventi degli operatori penitenziari, con l’apporto determinante di collaborazioni esterne, per la realizzazione di esperienze di trattamento significative, nelle quali, compatibilmente con le condizioni strutturali ed organizzative dell’istituto, sia dato particolare spazio ad iniziative formative, lavorative, di animazione culturale, di socializzazione e di rilancio delle relazioni affettivo-familiari; dall’altro, interventi dei servizi specializzati nel trattamento delle tossicodipendenze, diretti a:

- collaborare con il servizio sanitario dell’istituto nella definizione e nell’attuazione di un eventuale trattamento farmacologico e/ o di terapia, riguardante le condizioni fisiche e mentali generali; - informare i soggetti sulle opportunità curative e socio-riabilitative esistenti nella realtà intra ed extramuraria e sui comportamenti e le precauzioni da adottare per la prevenzione dell’AIDS, di altre forme morbose connesse all’abuso di droghe, etc.;

- fornire elementi di sostegno psicologico e di investimento relazionale, volti particolarmente al consolidamento della personalità dei soggetti più fragili o in situazioni di disagio pronunciato;

- motivare gradualmente il soggetto alla partecipazione attiva ad un trattamento più avanzato, da effettuare presso i presidi esterni (se la dimissione è prevista prossima) ovvero presso gli istituti penitenziari che attuano i programmi di secondo livello.

L’andamento del programma di trattamento e la condizione individuale dei singoli detenuti formano oggetto di una valutazione periodica congiunta da parte degli operatori penitenziari e degli operatori dei servizi territoriali che intervengono nel programma, anche al fine di valutare l’opportunità di segnalare i soggetti, la cui motivazione al trattamento risulta esistente ed autentica, per il passaggio alle strutture di secondo livello.

La fase di dimissione e di reinserimento sociale è caratterizzata, oltre che dai consueti interventi previsti dalla normativa in favore del dimittendo, da una particolare cura circa gli interventi da realizzare in favore del tossicodipendente dopo la dimissione, al fine di consentire un’efficace prosecuzione del programma terapeutico o socio-riabilitativo eventualmente iniziato, ovvero il suo inizio presso un presidio socio-sanitario o un altro organismo specializzato esterno. In questa fase è, inoltre, necessario richiedere ai servizi assistenziali territoriali un "intervento di seguito" adeguato, ai sensi della normativa che ha disposto la delega dell’assistenza post-penitenziaria agli enti locali, affinché possano essere soddisfatte le esigenze di base (di lavoro, di alloggio, di assistenza, etc.) che il tossicodipendente presenta al momento della dimissione e la cui soluzione risulta verosimilmente compromessa dalla stigmatizzazione che lo stesso subisce a causa della sua particolare duplice condizione di ex-detenuto e di ex-tossicodipendente.

Nel concludere l’esame del trattamento di primo livello è opportuno soffermarsi brevemente sugli operatori coinvolti nell’esecuzione del programma. Da quanto finora esposto si evince che la competenza degli operatori penitenziari nell’esecuzione del programma riguarda sia l’intervento diretto su problemi specifici della condizione penitenziaria dei soggetti tossicodipendenti, sia il coordinamento degli interventi effettuati dagli operatori esterni, appartenenti alle aziende sanitarie locali o agli altri organismi chiamati a collaborare nel trattamento del tossicodipendente.

Quest’ultima funzione riveste anche carattere di garanzia che l’amministrazione penitenziaria fornisce riguardo all’attuazione dei programmi in coerenza con gli orientamenti previsti dalla normativa, sempre che gli organismi esterni chiamati in causa adempiano compiutamente alle previsioni dettate in proposito dalla normativa.

Gli interventi di secondo livello sono svolti nelle sezioni o negli istituti individuati come strutture particolarmente idonee all’attuazione di un programma avanzato e sono diretti a quei soggetti che, in esito agli interventi di primo livello, risultano motivati ad un trattamento avanzato, ovvero che, all’atto del primo ingresso, risultano avere in corso un valido trattamento socio-riabilitativo.

Al fine di poter conseguire risultati apprezzabili, i programmi di trattamento avanzato sono riservati ai soggetti la cui durata di detenzione risulti sufficiente ad assicurarne la completa attuazione.

Riguardo agli aspetti contenutistici si possono distinguere tre fasi; la fase di accoglienza; la fase di trattamento; la fase di dimissione e di reinserimento sociale.

La fase di accoglienza differisce da quella propria dell’istituto di primo livello soprattutto perché i soggetti che giungono al trattamento avanzato non presentano crisi da astinenza ed esigenze urgenti di disintossicazione, sono sufficientemente informati del problema in cui sono coinvolti e sono motivati al trattamento.

La presa in carico del soggetto sotto il profilo psicologico ed educativo-sociale è qui svolta dagli operatori penitenziari in collaborazione con i servizi specializzati nel trattamento delle tossicodipendenze. Questa è finalizzata prevalentemente ad informare il soggetto circa le opportunità trattamentali offerte dall’istituto, a sensibilizzare il tossicodipendente ad aderire ad un programma terapeutico o socio-riabilitativo tra quelli realizzabili nell’istituto, a verificare, in relazione alle scelte fattibili, la consistenza delle motivazioni del soggetto e la sua idoneità ad iniziare il percorso trattamentale assumendone i relativi impegni.

La fase del trattamento persegue finalità che non sono più limitate, come nel primo livello, ad un’azione di sostegno psicologicoeducativo ed all’orientamento motivazionale, ma consistono nel favorire sia un cambiamento più profondo degli atteggiamenti personali connessi alla tossicodipendenza, mediante la realizzazione di attività terapeutiche specializzate (counseling individuale e di gruppo, programmi terapeutici personalizzati, etc.), sia un coinvolgimento più ampio e sistematico nelle attività formative, lavorative e socializzanti, in modo da accompagnare e sostenere validamente il processo condotto a livello terapeutico specifico.

Per quanto concerne, infine, la fase di dimissione e di reinserimento sociale, va considerato che, a differenza di quanto previsto nei programmi di primo livello, i soggetti hanno verosimilmente usufruito nel corso della detenzione - sia per la maggior durata di questa che per il trattamento svolto - di esperienze preparatorie alla dimissione o comunque con valore risocializzante, che facilitano il reinserimento sociale (permessi-premio, lavoro all’esterno, partecipazione a programmi di formazione professionale con prolungamenti all’esterno, etc.).

Il reinserimento sociale potrà essere tempestivamente e convenientemente programmato, con la ricerca di soluzioni (lavorative, di sostegno materiale, etc.) durature nel tempo e tali da rappresentare adeguatamente un nuovo e valido percorso alternativo da offrire al detenuto.

Lo svolgimento delle attività trattamentali di primo e di secondo livello in favore dei tossicodipendenti presuppone, come ineludibile condizione di fattibilità, la disponibilità di strutture edilizie che rispecchino i principi dell’articolo 5 dell’ordinamento penitenziario e dell’articolo 30 della legge n. 162/90, il che implica un idoneo adattamento dell’edilizia penitenziaria.

Tuttavia, poiché sia l’ampio programma di ristrutturazione degli istituti esistenti avviato ormai da diversi anni dall’amministrazione penitenziaria sia l’apertura di nuove strutture necessitano non solo di tempi adeguati, ma soprattutto di notevoli disponibilità di fondi, tale adeguamento non è stato tuttora completato. Infatti, a causa dell’insufficienza delle risorse economiche dovuta alla crisi della finanza pubblica dell’attuale periodo storico, l’adattamento dell’edilizia penitenziaria alle esigenze della popolazione detenuta tossicodipendente è stato parziale ed ha consentito finora di avere solo alcune esperienze significative di trattamenti avanzati.

La carenza o la fatiscenza delle strutture e le problematiche connesse al sovraffollamento spesso impediscono, di fatto, di attivare una completa differenziazione e separazione tra le varie tipologie di detenuti, che, invece, finiscono puntualmente con l’usufruire delle stesse strutture, nonché dei medesimi servizi e spazi comuni. Ciò sta alla base delle notevoli difficoltà che le direzioni di numerosi istituti penitenziari della penisola hanno incontrato nell’assicurare anche quel minimo di trattamento costituito dagli interventi di primo livello. Queste, infatti, sono state costrette ad occuparsi prevalentemente degli aspetti custodiali e della sicurezza della struttura ed hanno sovente instaurato un regime penitenziario indifferenziato per la totalità della popolazione ivi ristretta, nell’ambito del quale le esigenze della sicurezza hanno la priorità rispetto a quelle del trattamento.

Proseguendo nell’analisi degli interventi di secondo livello, particolare importanza riveste il progetto di creazione di strutture a custodia attenuata per detenuti con problemi di tossicodipendenza.

Il modello della "custodia attenuata" non costituisce un’innovazione introdotta dalla legislazione del 1990, anche se in questa trova il proprio fondamento giuridico. In verità, l’idea di istituire per i detenuti tossicodipendenti un circuito penitenziario differenziato nel quale sviluppare in modo capillare una molteplicità di interventi curativi, assistenziali e socioriabilitativi attraverso una profonda integrazione con il territorio, era già presente, verso la metà degli anni Ottanta, nell’ambiente penitenziario. Risale, infatti, al 1987 la prima sperimentazione di un modello di custodia attenuata, attuata presso la seconda casa circondariale di Firenze. Si è già visto che il D.P.R. n. 309/90 prevede, agli articoli 95 e 96, un circuito penitenziario speciale, in cui inserire tutti i detenuti che abbiano problemi di tossicodipendenza. Un circuito nel quale l’amministrazione penitenziaria, gli enti territoriali e la comunità esterna in generale sono tenuti ad assicurare al tossicodipendente cure mediche, assistenza, programmi terapeutici e socio-riabilitativi.

Ma il tenore letterale dell’articolo 95, là dove si parla di "istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi" e di "acquisizione di case mandamentali ed alla loro destinazione per i tossicodipendenti", ha consentito all’amministrazione penitenziaria di sviluppare il progetto relativo alle strutture a custodia attenuata, attraverso la creazione di un circuito penitenziario, ulteriormente differenziato in positivo - nel senso della netta prevalenza delle esigenze della solidarietà sociale su quelle, pur importanti, della sicurezza - per i detenuti tossicodipendenti che sono, o nel corso del trattamento diventano, più suscettibili e più motivati rispetto ad un’opera di riabilitazione e di recupero sociale.

Questo secondo circuito comprende, pertanto, case mandamentali ed altre strutture appositamente individuate e particolarmente idonee. Si tratta di strutture aperte, nelle quali vengono ulteriormente attenuate le limitazioni custodiali, tendenti ad inserirsi e ad integrarsi sia nel territorio, che nella rete delle agenzie pubbliche e private operanti nel settore. Tale circuito deve, dunque, essere orientato a permettere ai detenuti - nei tempi più rapidi, ma sempre con il massimo senso di responsabilità e con la massima serietà professionale - di uscire dal carcere in uno dei modi che la vigente normativa prevede per questa tipologia di soggetti. L’attuazione del circuito a custodia attenuata non può comunque prescindere da un’ampia ed intensa collaborazione tra l’amministrazione penitenziaria egli enti locali e territoriali, imposta non solo dalla comune consapevolezza che la civiltà del Paese esige un impegno comune delle istituzioni e della società nella lotta contro l’emarginazione e contro la sofferenza, ma soprattutto dalla legge n. 162 del 1990.

Gli articoli 113 eseguenti del Testo unico sono, al riguardo, estremamente eloquenti e vincolanti. In particolare, l’articolo 115 per quanto concerne le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, i loro consorzi ed associazioni, i servizi pubblici per le tossico dipendenze costituiti dalle aziende sanitarie locali, i gruppi di volontariato egli enti ausiliari - parla di "finalità di prevenzione del disagio psico-sociale, assistenza, cura, riabilitazione e reinserimento dei tossicodipendenti... omissis... finalità di educazione dei giovani, di sviluppo socio-culturale della personalità, di formazione professionale e di orientamento al lavoro".

Relativamente ai rapporti di collaborazione tra direzioni degli istituti penitenziari ed enti locali, l’amministrazione penitenziaria ha emanato nel 1991 uno schema di protocollo d’intesa specifico per il circuito a custodia attenuata, approvato dalla Commissione nazionale per i rapporti dell’amministrazione penitenziaria con le regioni e con gli enti locali.

Lo schema di protocollo d’intesa, - al quale possono essere apportate solamente modifiche marginali che tengano conto di eventuali esigenze e caratteristiche locali nel rispetto delle linee generali prefissate - contiene le modalità di attuazione del citato articolo 96, comma 3, riguardante l’obbligo, da parte delle aziende sanitarie locali d’intesa con gli istituti di pena, di provvedere alla cura ed alla riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti.

Attraverso la "custodia attenuata" l’amministrazione penitenziaria, consapevole del fatto che le condizioni fisiche per lo più scadenti, l’indebolimento della volontà e della coscienza rendono i soggetti tossicodipendenti particolarmente bisognosi di un intervento terapeutico e sociale, ha realizzato, in conformità al dettato normativo, strutture e spazi alternativi al normale circuito carcerario, nell’ambito dei quali poter agevolare un percorso trattamentale terapeutico finalizzato al reinserimento del soggetto nell’ambiente sociale. L’intento dovrebbe essere quello di trasformare l’esperienza detentiva da fattore moltiplicatore del disagio del tossicodipendente, anche per la inevitabile commistione con le varie frange di criminalità, ad occasione di recupero tramite l’offerta di opportunità terapeutico - riabilitative.

Tale progetto persegue, inoltre, lo scopo di facilitare il reinserimento sociale dei soggetti tossicodipendenti detenuti, preparandoli, attraverso un’opera di sensibilizzazione, a proseguire il loro iter terapeutico nel territorio, ove, parallelamente, dovrebbero essere state attivate le forze sociali disponibili. Tali linee trattamentali presuppongono, quindi, una stretta collaborazione operativa dell’istituzione penitenziaria con gli enti locali, gli organi sanitari e le strutture del privato sociale e del volontariato, al fine di attivare intef\’enti integrati nel carcere e di realizzare una continuità tra gli intef\’enti posti in essere in ambito penitenziario e la presa in carico, da parte delle strutture socio-riabilitative, del soggetto dimesso dall’istituto di pena.

La custodia attenuata viene attuata presso strutture penitenziarie costituite da sezioni annesse a grandi istituti, caratterizzate da una gestione particolare e indipendente rispetto all’istituto centrale, ovvero da istituti autonomi a bassa capienza. La struttura edilizia delle sezioni e degli istituti in questione deve conformarsi alle esigenze di limitazione degli aspetti custodiali, nonché alle attività socio-riabilitative che si intende privilegiare.

Ampi spazi devono essere riservati per le attività di gruppo terapeutiche, lavorative e ludiche. Gli stessi spazi personali del detenuto sono particolarmente valorizzati in funzione del programma trattamentale (es. celle singole, cucina comune autogestita). Le sale colloquio - ancor prima che il nuovo regolamento di esecuzione codificasse, all’articolo 37, la regola generale dei colloqui effettuati in locali interni sprovvisti di mezzi divisori oppure in spazi all’aperto - erano già approntate con criteri adeguati agli obiettivi prefissati e, dunque, arredate senza vetri divisori, in modo da poter favorire la creazione di un clima diverso negli incontri con i familiari e da poter essere utilizzate anche per l’effettuazione di colloqui terapeutici con le famiglie o per consentire la gestione della fase di accoglienza da parte delle comunità terapeutiche nei confronti di gruppi di detenuti.

Le esigenze di sicurezza vengono assicurate attraverso modalità tali da non interferire con la prevalente funzione di recupero sociale della struttura, nella quale la stessa relazione "personale di vigilanza/detenuti" deve assumere una connotazione qualitativamente diversa, in quanto il personale di polizia penitenziaria è parte attiva, insieme agli altri operatori, nel processo di responsabilizzazione del soggetto.

La struttura deve, inoltre, disporre di spazi aperti e verdi in cui i soggetti potranno lavorare e vivere. Il modello operativo della struttura a custodia attenuata è caratterizzato da un clima diverso, rispetto ad una sezione ordinaria e dalla stretta integrazione con gli organismi locali. Gli interventi trattamentali sono finalizzati a motivare il soggetto verso un processo di cambiamento personale autentico e, quindi, verso la condivisione di un modello di vita basato su obiettivi diversi - compreso il distacco dalla droga - da quelli della cultura di appartenenza.

L’approccio al detenuto presuppone un modello operativo di intervento ad ampio raggio, che coinvolge non solo gli operatori penitenziari del trattamento e della custodia, ma anche gli operatori socio-sanitari degli enti locali, delle aziende sanitarie locali e delle agenzie del privato sociale e del volontariato. In tal modo si concretizza il necessario collegamento tra la struttura penitenziaria e la rete dei servizi socio-riabilitati\~ deputati, per legge, al recupero sociale dei tossicodipendenti.

Conseguentemente, all’interno della struttura a custodia attenuata opera una equipe integrata composta dalle seguenti figure: il direttore dell’istituto, che la presiede; gli operatori penitenziari (educatore, assistente sociale, psicologo, medico e personale di polizia penitenziaria); il responsabile e gli operatori del servizio tossicodipendenti dell’azienda sanitaria locale territorialmente competente;gli operatori degli enti locali; gli operatori di comunità terapeutiche convenzionate con gli enti locali.

Il direttore dell’istituto è responsabile della gestione complessiva della struttura, mentre il coordinamento tecnico-funzionale degli interventi terapeutici riabilitativi in senso stretto è attribuito al responsabile del servizio tossicodipendenti dell’azienda sanitaria locale convenzionata, il quale esercita tale funzione nel rispetto delle competenze previste per il direttore dell’istituto dalla normativa penitenziaria, ivi comprese le esigenze custodiali e di sicurezza.

l’equipe plurispecialistica provvede, anzitutto, alla definizione del progetto terapeutico ed al coinvolgimento delle famiglie degli utenti nello stesso. Essa, poi, cura sia la presa in carico del soggetto detenuto, sia la definizione e l’attuazione dei programmi terapeutici individualizzati e di gruppo, previa autorizzazione del giudice competente.

l’equipe assicura, infine, il collegamento con le strutture pubbliche e private per la predisposizione di un piano di intervento esterno per il reinserimento ed il collegamento con la magistratura di sorveglianza e con le autorità giudiziarie procedenti per la creazione di un canale informativo inerente al percorso terapeutico compiuto dai soggetti in trattamento, allo scopo di consentire l’eventuale applicazione di misure alternative alla detenzione.

Per l’ingresso del detenuto nelle strutture a custodia attenuata, la specifica finalità terapeutica delle medesime, esige una selezione accurata dei soggetti tossicodipendenti particolarmente motivati al recupero ed il consenso del detenuto tossicodipendente ad accedere a tale opportunità ed a conformarsi alle regole di vita e di trattamento che il progetto terapeutico prevede.

Preliminarmente alla selezione vengono fornite ai detenuti tossicodipendenti le informazioni relative alla possibilità di beneficiare della custodia attenuata ed agli impegni che la stessa comporta.

La selezione degli utenti si svolge in due fasi: la prima ad opera dell’equipe di osservazione e trattamento degli istituti di provenienza, sentito il servizio per le tossicodipendenze territorialmente competente; la seconda ad opera dell’equipe integrata operante nella struttura, che procede all’ulteriore verifica dell’effettiva idoneità del soggetto ad avviare un processo di recupero. In tal modo si dovrebbe garantire una selezione il più possibile mirata, tendente a ridurre il rischio di fenomeni di strumentalizzazione, tipici di questa categoria di reclusi.

Il processo di selezione, attuato solamente nei confronti dei detenuti che ne facciano richiesta, avviene mediante colloqui diagnostici ed osservazione della personalità, tesi a valutare le caratteristiche del soggetto, con riferimento allo stato di tossicodipendenza, al grado di compromissione psico-fisica, al coinvolgimento con l’ambiente delinquenziale di provenienza, alla motivazione ad uscire dalla dipendenza dagli stupefacenti ed al contesto familiare.

Le caratteristiche principali del tipo di utenza alla quale è rivolta la selezione sono: l’età (compresa preferibilmente tra i 18 ed i 25 anni); la posizione giuridica; l’avvenuta disintossicazione e conclusione dei vari trattamenti farmacologici sostitutivi; il basso indice di pericolosità sociale; la territorialità.

Relativamente alla posizione giuridica, vengono preferiti, in linea di massima, i detenuti definitivi o già condannati in primo grado e si pone particolare attenzione sui soggetti alla prima esperienza detentiva. Per quanto concerne invece l’individuazione, nell’ambito dei detenuti tossicodipendenti, dei soggetti meno pericolosi e più suscettibili di agevole e rapido recupero e reinserimento, nell’impossibilità di individuare regole rigide, tassative ed assolute si deve necessariamente far ricorso ad un giudizio individuale sui singoli soggetti, che ne consideri la storia ed i caratteri particolari. Tale giudizio, espresso fondamentalmente dal direttore dell’istituto, il quale deve comunque avvalersi della collaborazione degli operatori penitenziari, deve necessariamente seguire alcuni criteri di massima, vale a dire: la gravità dei reati ascritti o della condanna inflitta (a seconda che essa sia minore o maggiore si può ragionevolmente dedurre, seppure non in via assoluta, una minore o maggiore pericolosità, giacche tal

volta detenuti con pene pesanti sono scarsamente pericolosi e viceversa ben recuperabili); il complessivo comportamento penitenziario, a seconda che indichi una minore o maggiore accettazione delle regole e dei principi di una convivenza pacifica e rispettosa, sia nei riguardi degli altri detenuti, sia nei riguardi del personale; i risultati dell’osservazione della personalità condotta dall’equipe; la disponibilità minore o maggiore ad accedere ai momenti ed alle iniziative trattamentali, con particolare riferimento anche alla volontà e determinazione del soggetto di uscire dalla condizione di dipendenza dalla droga; i comportamenti tenuti durante l’eventuale fruizione di benefici premiali o di misure alternative alla detenzione.

La territorialità, infine, consiste nell’accogliere - per quanto possibile - le domande presentate dai detenuti ristretti negli istituti della regione ove è situata la struttura stessa, in armonia con il criterio della territorializzazione della pena. Terminata la fase della selezione, ai soggetti selezionati viene sottoposto un programma terapeutico contenente le regole di vita previste nella struttura, che essi dovranno impegnarsi a rispettare.

In particolare, il detenuto deve aderire ad un programma riabilitativo contenuto in un "contratto di trattamento" (o "contratto terapeutico"), che prevede sia le modalità di trattamento intramurario, sia l’attivazione delle risorse territoriali disponibili per un eventuale inserimento all’esterno. La mancata sottoscrizione del contratto terapeutico equivale ad una vera e propria rinuncia al programma riabilitativo e determina l’esclusione del soggetto dal circuito a custodia attenuata.

Dopo la presa in carico del detenuto da parte dell’equipe plurispecialistica operante nella struttura a custodia attenuata e la sua accettazione del regime di vita vigente nella stessa, ha inizio il trattamento penitenziario, il quale è prevalentemente orientato a stimolare un cambiamento più profondo degli atteggiamenti personali connessi alla tossicodipendenza ed a favorire un coinvolgimento più ampio e sistematico in attività formative, lavorative e socializzanti, che accompagni e sostenga validamente il processo condotto a livello terapeutico specifico.

I detenuti sono, quindi, inseriti in programmi terapeutici individuali e di gruppo, allo scopo di allontanare gli stessi dall’ambiente delinquenziale e di incoraggiare, se opportuno, la ripresa delle relazioni familiari e interpersonali significative. Vengono, cioè, potenziati tutti quegli strumenti trattamentali previsti dalla normativa attuale e volti tanto ad incrementare la partecipazione della popolazione detenuta alle opportunità esistenti in istituto, quanto a stimolare il più possibile processi di crescita, responsabilizzazione e maturità individuali. In particolare, vengono attivate ed allargate le rappresentanze dei ristretti, favorite le situazioni di confronto e dibattito con la società esterna, incentivate le attività espressive, sportive e culturali.

L’equipe integrata, oltre ad intervenire attraverso il trattamento intramurario sui problemi personali e comuni di dipendenza, concorre al reinserimento del detenuto mediante un piano programmatico gestito con gli organismi socio-riabilitativi esterni. In tale contesto risulta di fondamentale importanza il ricorso all’utilizzazione mirata delle misure alternative, al fine di consentire di programmare gradualmente il reinserimento sociale attraverso la ricerca di soluzioni, lavorative o di sostegno materiale, durature nel tempo.

Nel concludere l’esame del progetto relativo alle strutture a custodia attenuata, è opportuno effettuare alcune riflessioni sulla volontarietà del detenuto tossicodipendente a sottoporsi ad un programma terapeutico e riabilitativo. Precedentemente si è detto che l’adesione del soggetto al programma di trattamento avviene mediante la stipula di un "contratto"terapeutico.

Infatti, il ricorso ad un paradigma contrattuale tra utente ed amministrazione penitenziaria costituisce una ulteriore affermazione della necessità dell’elemento della volontà per la realizzazione e per l’eventuale buon esito del trattamento terapeutico e socio-riabilitativo.

Il tutto in armonia con quanto previsto dall’articolo 32 della Carta costituzionale in merito alla volontarietà dei trattamenti sanitari. Nel caso di specie, però, la volontarietà del trattamento avanzato, ben che formalmente libera, risente comunque della coercizione psicologica inevitabilmente connessa al fatto che il mancato accesso alla "custodia attenuata", riservata ai tossicodipendenti, determina il perdurare del regime penitenziario "comune", il quale, dovendo bilanciare le esigenze trattamentali con quelle della sicurezza, risulta di certo più sfavorevole per il condannato. Riguardo alla natura giuridica del contratto di trattamento, è stato sostenuto che dovrebbe trattarsi di un "contratto di prestazione d’opera, che constasse eventualmente di più parti prestampate e variabili e contenente reciproci diritti, oneri e facoltà di cotale rapporto" (Coco, 1989).

Tuttavia, a ben guardare, parlare di "contratto di trattamento" potrebbe apparire quantomeno improprio. Infatti, gli schemi di contratto utilizzati attualmente nelle strutture a custodia attenuata contengono clausole che riguardano l’indicazione degli interventi trattamentali e delle misure più propriamente terapeutiche che saranno effettuati, il regolamento vigente nella struttura, non che le cause e le modalità di interruzione del programma; l’accordo contrattuale è sottoscritto dall’equipe terapeutica e dal detenuto. Di conseguenza, nel contratto terapeutico non sembra assumere rilevanza quel contenuto patrimoniale posto a fondamento della definizione di contratto sancita dall’articolo 1321 del codice civile. Sembra, quindi, preferibile - nella difficoltà di ricondurre il contratto di trattamento ad un paradigma contrattuale - collocare il medesimo nel più ampio concetto di "negozio giuridico", atteso che quest’ultimo può essere definito come "dichiarazione di volontà tendente ad effetti giuridici" o, meglio, "atto di autoregolamentazione di interessi" (Ferri, 1989).

Nel caso di specie il termine "contratto" deve, quindi, considerarsi utilizzato in senso non strettamente tecnico, per sottolineare l’importanza della volontà (rectius: del consenso) del condannato quale condizione essenziale per la realizzazione e per il buon esito del programma riabilitativo. Per concludere, il circuito della custodia attenuata ha ormai da tempo superato la fase della sperimentazione ottenendo risultati ampiamente positivi ed attualmente si trova in una fase di sviluppo costante. Tale sviluppo non è, tuttavia, uniforme su tutto il territorio nazionale. Se da un lato, infatti, nel centro-nord la realizzazione delle strutture a custodia attenuata è stata favorita da un contesto caratterizzato da enti territoriali dotati di una struttura organizzativa efficiente, tale da poter assolvere ai compiti che il Testo unico affida loro in materia di trattamento di tossicodipendenti, nonché da una particolare sensibilità della comunità sociale e dei privati in genere verso i problemi della società, ivi compreso quello della tossicodipendenza; dal1’altro, nel meridione le carenze organizzativo-strutturali degli enti territoriali, la presenza del fenomeno mafioso profondamente radicato nel territorio e la carenza delle risorse economiche e sociali, rendono quantomai difficile effettuare quegli interventi necessari per l’attuazione dei programmi terapeutici o socio-riabilitativi in favore dei tossicodipendenti. Sul versante del penitenziario occorre prendere atto che le strategie d’intervento adottate dal Ministero della giustizia in tema di trattamento del tossicodipendente - sebbene a prima vista appaiano efficaci per la tutela della salute, il recupero ed il reinserimento sociale del soggetto - risultano spesso condizionate da limiti strutturali eziologicamente connessi al fenomeno del sovraffollamento delle carceri, i quali impediscono, di fatto, di operare quella completa differenziazione e separazione tra le varie tipologie di detenuti, che costituisce la conditio sine qua non per l’attuazione di un trattamento penitenziario specifico per i tossicodipendenti.

Infine, affinché il trattamento intramurario attuato nei confronti del tossicomane possa avere una concreta possibilità di riuscita, risulta indispensabile un’ampia utilizzazione delle misure alternative alla detenzione, quale strumento necessario al graduale reinserimento sociale del soggetto.

 

 

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