Carcere e droga

 

Carcere e droga: il percorso a ostacoli

di Marco Cafiero (Avvocato)

 

Tratto da: www.progettouomo.net

 

Sezioni a custodia attenuata, ricovero coatto in Comunità terapeutica, affidamento in prova, detenzione domiciliare: per i detenuti tossicodipendenti si dibatte sulle diverse soluzioni possibili anche alla luce della riforma Fini sulla droga.

Esiste il detenuto tossicodipendente? Si tratta di una categoria criminale? In realtà è un gruppo di soggetti eterogeneo con carriere criminali del tutto diversificate, come abbiamo già avuto modo di vedere, e, soprattutto, con differente rapporto con la sostanza. Si passa da quello che ha la posizione sociale elevata e che è stato "pizzicato" a vendere in discoteca, e non si percepisce come "tossico", all’extracomunitario. La concentrazione di tossicodipendenti in carcere è molto elevata e costituisce un serio problema per gli operatori sociali che devono intervenire a gestire le situazioni più disperate: autolesionismo, Aids e sindromi da astinenza.

La tossicodipendenza ha rappresentato, nel tempo, un fattore di cambiamento del carcere. La massiccia presenza di assuntori di droga negli istituti di pena ha richiesto la preparazione specifica degli operatori addetti, con particolare riguardo alla riqualificazione del personale di polizia penitenziaria. Inoltre ha favorito necessariamente la collaborazione tra gli operatori del territorio e l’Amministrazione penitenziaria fino a creare appositi presidi interni che fungono da raccordo anche con gli operatori del privato sociale ammessi a frequentare gli Istituti ai sensi dell’art. 78 dell’Ordinamento penitenziario.

Il fenomeno delle "nuove droghe", ad esempio, ha rappresentato anche per il pianeta carcere un problema: ha determinato un ulteriore incremento del numero, spesso oscuro, delle presenze di tossicodipendenti. Così come era avvenuto a metà degli anni 80 quando si registrò la crescita dell’uso di cocaina che, pur non rappresentando una nuova droga, individuava una nuova tipologia di utenza e si rifletteva sulla popolazione penitenziaria.

 

Le sezioni a custodia attenuata

 

Fino dalla sua emanazione, il DPR 309/90 ha previsto la necessità che la pena detentiva, nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendenza, debba essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi (art. 95 T.U. Dpr 309/90). Ci sono voluti anni, ad eccezion fatta per la realtà di Sollicciano e poche altre, per assistere alla creazione di apposite sezioni all’interno delle strutture penitenziarie.

La normativa per la prima volta si occupa del dramma sociale del tossicodipendente detenuto, modificando l’assetto ed i compiti istituzionali del carcere, inteso non più come istituto di pena, ma anche come istituzione che deve favorire la rieducazione ed offrire al soggetto la certezza della solidarietà sociale attraverso i programmi di recupero.

La creazione di sezioni a "custodia attenuata" consente al tossicodipendente di prendere le distanze, dagli altri detenuti, e coscienza del fatto che la commissione del reato è avvenuta in stato di necessità psico-fisica e non per istinto criminale.

L’obiettivo del legislatore, che l’attuale proposta di riforma Fini lascia inalterato, è il programma che partendo dalla struttura muraria utilizza l’ambiente come ambito fondamentale per la rinascita dell’identità che il soggetto aveva perduto.

Per cui l’intento è quello di utilizzare la detenzione come fase di cambiamento e come momento di valutazione motivazionale, trasformando l’ambiente carcerario in una struttura a carattere trattamentale, vagamente similare alle comunità terapeutiche. Preciso "vagamente", perché l’esperienza insegna che l’acquisizione della filosofia trattamentale all’interno di una realtà custodiale non potrà mai identificarsi come una struttura di recupero, ma consentirà di respirare l’ambiente "terapeutico".

A mio avviso la scelta di accedere a una comunità di recupero non è assimilabile a quella di accedere ad una sezione specifica, quando ci si trova in carcere in sezioni altamente promiscue. La spinta motivazionale è fondamentalmente diversa. La ricerca di un "posto al sole", anche se impegnativo, consente anche al detenuto meno motivato di trovare una collocazione di riguardo all’interno di una istituzione totale poco attenta alla relazione. Non va dimenticato, inoltre, che il tossicodipendente ritiene questo accesso come un passaggio obbligato e propedeutico ad un’anticipata rimessione in libertà. Ciò rappresenta il primo e grosso condizionamento di un intervento di recupero all’interno del carcere.

 

Invio coatto in Comunità o trattamento specifico in carcere?

 

La commistione tra la realtà custodiale e quella trattamentale rappresenta un motivo per cui molte Comunità terapeutiche sono diffidenti nei confronti della proposta di legge Fini che vuole istituire l’invio, quasi obbligatorio o comunque fortemente condizionato, di imputati tossicodipendenti nelle strutture di recupero. Temono, infatti, una sorta di trasformazione in sezioni a custodia attenuata extramurarie. Onestamente credo che sussisterebbe, comunque, una differenza essenziale costituita dall’assenza di elementi custodiali esclusivi della realtà carceraria. Sicuramente assisteremmo ad una coartazione del grado di motivazione al cambiamento che potrebbe interferire con l’intervento in maniera sensibile.

Ed è per questo che l’esperienza presenta alcuni rischi tra cui quello secondo il quale il tossicodipendente sperimenta, in una situazione particolare, e non completamente volontaria, l’illusione di una relazione diversa con forti cariche affettive che non troverà nell’ambiente esterno. Inoltre se l’operatore addetto non ha sufficienti esperienze di psicoterapia il soggetto potrebbe sviluppare una personalità "come se…", che certo non conduce ad una reale presa di coscienza dei suoi problemi.

Da queste considerazioni sorge necessariamente l’interrogativo se sia possibile parlare di trattamento all’interno delle carceri o meno.

Per rispondere al quesito occorre schematizzare le problematiche che pesano sull’intervento: la difficile integrazione dei servizi coinvolti, dovuta essenzialmente, alle diverse modalità di approccio al problema; la discrepanza tra approccio custodiale ed approccio terapeutico; il sovraffollamento e la promiscuità carceraria che rendono difficile la strutturazione di un intervento nelle sezioni ordinarie e lo riducono ad un mero trattamento di tipo sanitario; la problematicità di istituire un rapporto medico/paziente attraverso un setting adeguato, in considerazione anche della presenza di personale addetto alla custodia che effettua i controlli rituali; la difficoltà di comunicazione tra tutti gli operatori che intervengono (servizi,volontariato, comunità terapeutiche) che porta ad una frammentazione degli interventi stessi; la strumentalità della richiesta di aiuto all’ottenimento dei benefici di legge, di cui ho accennato, che porta alla dissimulazione delle motivazioni al cambiamento; la diversificazione delle posizioni giuridiche (custodia cautelare, pena definitiva, pena breve, pena lunga) che rende difficoltoso quantificare i tempi di permanenza per la strutturazione di progetti di recupero inframurari.

E’ ovvio che non esiste una soluzione che vada bene per tutte le realtà. Ogni situazione penitenziaria deve predisporre un modello sulla base dei parametri di cui sopra, ma soprattutto delle risorse di cui dispone e della valorizzazione dei contati sul territorio. La riuscita del progetto si fonda, in via principale, sull’integrazione dei servizi e sull’ottimizzazione della comunicazione tra gli stessi.

Ritengo, inoltre, che non sia possibile predisporre un progetto di recupero che si effettui esclusivamente tra le mura penitenziarie e non preveda un accompagnamento fuori dal carcere, sia che si tratti di un reinserimento sociale, sia che si tratti della prosecuzione del trattamento all’esterno o con i servizi territoriali di competenza o con le realtà del privato sociale.

Un progetto limitato alla permanenza carceraria renderà verosimile il rischio che il soggetto, non ritrovando all’esterno quell’ambiente affettivo e protettivo creato dagli operatori, ricada in una situazione di emarginazione che, attraverso il meccanismo della "porta girevole", lo riporterà in carcere.

 

L’affidamento in prova e la detenzione domiciliare

 

Sarebbe più interessante parlare dell’affidamento, ma si sono spesi già fiumi di parole per decantarne, da un lato gli effetti benefici e reinseritivi, dall’altro per denigrarne la scarsa efficacia deterrente.

L’affidamento in prova al servizio sociale è la misura alternativa per eccellenza perché evita il contatto con il carcere, per chi è ancora in stato di libertà, e lo elimina per chi avanza l’istanza dallo stato detentivo. Misura introdotta dalla legge Gozzini ha avuto, nel tempo, numerosi aggiustamenti di tiro che l’hanno resa la misura più agognata. Per i tossicodipendenti, addirittura, è stata creata una forma speciale che, oltre ad alzare il tetto massimo della pena per potervi accedere, ha rappresentato una sorta di norma di favore per una categoria di soggetti che non sempre l’opinione pubblica ha inteso vedere in questa ottica. Tuttavia i risultati sono sotto gli occhi di tutti gli operatori del sociale, pubblici e privati, i quali, grazie a questo istituto hanno avuto ampie possibilità di interagire.

Nel caso dell’intervento sul tossicodipendente, in particolare, i Centri di Servizio Sociale hanno potuto usufruire di un valido appoggio e contributo da parte dei Ser.T. per la gestione delle misure e, in particolare, da parte del privato sociale per quanto concerne i programmi residenziali. Questi ultimi hanno fatto dormire più tranquilli i giudici del Tribunale di Sorveglianza e gli assistenti sociali, la cui attività di controllo, grazie ad una buona comunicazione con gli operatori, si è sempre ridotta allo stretto indispensabile.

Anche le Forze dell’ordine, deputate meramente ad un controllo sulle prescrizioni notturne, hanno ridotto l’attività nei confronti di soggetti a programmi residenziali, confidando nella serietà degli operatori nell’effettuare la comunicazione ogniqualvolta vi fossero interruzioni o modifiche di percorso.

Non dobbiamo, però, sottovalutare una sempre mal celata diffidenza da parte dei Tribunali di Sorveglianza allorquando vi è da concedere l’affidamento in prova per programmi ambulatoriali con requisiti minimi. Mi riferisco a quell’intervento terapeutico limitato alla somministrazione di farmaci antagonisti o sostitutivi ed al controllo di metabolici urinari con cadenza settimanale. Diverso l’atteggiamento, invece nei confronti dei progetti, sempre ambulatoriali, caratterizzati, però, da una rete sociale di sostegno più articolata: ad esempio attività psicoterapica di supporto o borse di inserimento lavorativo.

In considerazione di ciò voglio fare alcune considerazioni sull’istituto della detenzione domiciliare: stiamo assistendo ad una tendenza giurisprudenziale tesa a ripiegare su questa misura alternativa, che sembra segnare un passo indietro rispetto a quella più aperta e rivolta al pieno reinserimento sociale.

La detenzione domiciliare è un beneficio istituito dall’art. 13 della legge 10/10/1986 n. 663 ed è concedibile nei confronti dei condannati a pena detentiva, non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, ed è eseguibile all’interno della propria abitazione o in altro luogo di privata dimora nonché di cura. Le condizioni per la concessione sono costituite dalla presenza di patologie fisiche o psichiche, o condizioni personali quali la giovane età o lo stato di donna incinta.

Per i non addetti ai lavori assomiglia a quella degli arresti domiciliari, nelle modalità pratiche di esecuzione, in realtà se ne differenzia nella forma e nella sostanza. Con gli arresti domiciliari si attende ancora la definizione del procedimento che potrebbe chiudersi con un’assoluzione, con la detenzione domiciliare si sconta una pena ormai passata in giudicato.

La legge Simeone-Saraceni ne ha ampliato l’ambito di applicazione allargando la casistica ad una serie di situazioni anche residuali, rispetto alle altre misure ed alzando il quantitativo di pena utile per la concessione individuando una serie di soggetti fruitori. In particolar modo è diventata la misura per eccellenza che consente a tutti coloro con patologie gravi, ma non del tutto invalidanti, in stato di incompatibilità con il regime carcerario, di scontare pene anche di lunga durata. In questo senso è diventata, anziché una misura alternativa, una modalità di esecuzione del differimento dell’esecuzione della pena: una contraddizione per cui la pena è differita ma di fatto è in esecuzione perché il soggetto sconta e matura tutti i benefici che ne derivano (liberazione anticipata).

 

I rischi dell’abuso della detenzione domiciliare

 

La detenzione domiciliare, legislativamente inserita come misura alternativa alla detenzione, non è considerata tale da tutti gli operatori. L’osservazione è pertinente solo in relazione all’altra misura prevista dal capo VI dell’Ordinamento penitenziario, quale l’affidamento in prova al servizio sociale. Abbiamo visto che la caratteristica di quest’ultimo integra gli estremi di una vicenda modificativa della privazione della libertà personale in struttura carceraria e dalla sottoposizione del condannato ad una serie di interventi di controllo e di sostegno attuati nel contesto esterno; mentre, invece, per la detenzione domiciliare permane una grande limitazione della libertà di contatti con il contesto sociale.

Poiché la logica delle misure alternative è quella del recupero del reo, considerando prioritario il suo inserimento nel contesto sociale, questa misura stride con l’obiettivo prefissato. La privazione della libertà permane con più o meno modesti margini di autodeterminazione.

Riprendendo le considerazioni sulla concessione di misure alternative a soggetti tossicodipendenti in trattamento, assistiamo ad un massiccio ricorso da parte dei Tribunali di Sorveglianza all’istituto della detenzione domiciliare per creare un contrappeso alla Legge Saraceni, che sembra privilegiare interventi di mera decarcerizzazione e, nello stesso tempo, in omaggio alla stessa che amplifica le ipotesi di applicabilità.

L’intervento della legge 165/98 era soprattutto quello di razionalizzare i meccanismi applicativi delle misure alternative, nel segno del riequilibrio. In realtà sembra aver contribuito in modo determinante a snaturare il sistema con il meccanismo della sospensione della pena da parte del pubblico ministero, senza alcuna valutazione nel merito dell’affidabilità o meno del condannato e delle sue proposte di reinserimento sociale. Ecco che il Tribunale di Sorveglianza, obbligato a scendere nel merito, cerca un riequilibrio ed utilizza gli istituti anche nei confronti di soggetti per i quali è necessario puntare sul pieno reinserimento sociale.

Favorire l’applicazione quasi automatica delle misure alternative, senza riguardo per la sicurezza dei cittadini toglie valore alle misure stesse. La misura alternativa può invece risultare tanto più giusta, quanto più è applicata con una visione equilibrata degli interessi su cui essa incide.

Nell’ottica di questo riequilibrio, a mio avviso, negli ultimi due anni, anche in omaggio alla necessità di garantire una maggiore sicurezza ai cittadini, stiamo assistendo ad un decollo considerevole della detenzione domiciliare, la misura meno trattamentale prevista dall’ordinamento penitenziario, con un contemporaneo incremento delle revoche della stessa, più alte di quelle dell’affidamento in prova.

La Magistratura sta usando la detenzione domiciliare prevalentemente in sostituzione dell’affidamento, quando il soggetto non offre particolari garanzie di affidabilità, nella convinzione che una misura più restrittiva e controllata dia maggiori risultati. Questo accade nei confronti dei soggetti tossicodipendenti che richiedono l’affidamento terapeutico con programmi ambulatoriali di minima, a volte anche sostenuti da progetti più qualificati. Non accade per chi si trova in Comunità: la Magistratura di Sorveglianza ben conosce la riluttanza delle strutture residenziale ad accogliere soggetti con provvedimenti troppo restrittivi e tale da inficiare la terapia ma, soprattutto, tali da limitare la possibilità di interrompere il contratto terapeutico con facilità.

Si è potuto notare che i tassi di revoca riguardano prevalentemente i tossicodipendenti provenienti dal carcere, siano essi in affidamento che in detenzione domiciliare. In particolar modo per quanto riguarda la detenzione domiciliare gli operatori dei servizi hanno difficoltà a gestire situazioni così coartate soprattutto da limitazioni orarie. Accade spesso che vi siano momenti di scarsa organizzazione nei servizi con ricaduta sugli utenti in detenzione domiciliare autorizzati con permessi di durata prestabilita. Poiché è necessario che il soggetto faccia rientro in tempo utile al luogo ove trovasi ristretto, spesso deve rinunciare all’intervento.

Un’ultima considerazione riguarda le possibili ed eventuali trasgressioni alle prescrizioni. Una violazione in regime di affidamento spesso causa al soggetto un semplice richiamo da parte del Magistrato di Sorveglianza, senza alcuna conseguenza sul piano giuridico. La violazione di prescrizioni della detenzione domiciliare, anche laddove il Magistrato non intenda revocare la misura e limitarsi al richiamo scritto, comporta necessariamente l’iscrizione del detenuto nel registro degli indagati per violazione dell’art. 385 c.p. (evasione).

 

 

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