L'alcol in carcere

 

L’alcol nell’ambito penitenziario ed i Club A.C.A.T.

 

L’alcol nell’ambito penitenziario, di Nicoletta Regonati

Formazione degli operatori del carcere di Verona sui problemi alcolcorrelati

"Strada facendo...", di Stefano Alberini, A.C.A.T. Guastalla

Programmi per la riduzione dei problemi alcolcorrelati nell’Area Penale

Corsi per operatori addetti ad istituti a custodia attenuata

Carcere e Comunità, Nanni Gennaro, ARCAT, Genova

Il Club nelle carceri, Mariantonia Papapietro, ARCAT - Puglia

Considerazioni conclusive

L’alcol nell’ambito penitenziario

 

Nei primi giorni di maggio del 1997, esattamente tre anni dopo l’uscita del numero di Alcolismi in cui, per la prima volta veniva da noi proposta una riflessione sui problemi alcolcorrelati nell’ambito penitenziario, il Ministero di Grazia e Giustizia emanava una circolare in cui veniva sancito di prestare maggiore attenzione, attivando idonei programmi, ai problemi alcolcorrelati nell’area penale, valorizzando le esperienze di mutuo aiuto allora esistenti, accorgendosi della loro efficacia nel sostegno alle persone. Un grosso riconoscimento per i CAT e per i programmi alcologici territoriali, ma anche una grande responsabilità per il futuro e soprattutto uno stimolo a continuare ed a migliorare il proprio intervento.

Uno stimolo anche per tutti gli operatori della salute, e non solo; per tutti quelli che in qualche modo si preoccupano di migliorare la qualità della vita nella loro comunità, (comunità alla quale il carcere appartiene e della quale è espressione!), a non sottovalutare il peso dei problemi alcolcorrelati sulle scelte di vita delle persone detenute, prima, durante e dopo la carcerazione.

Ricordo di averne avuto notizia dopo qualche giorno, durante il primo Interclub tenutosi nel Nuovo Complesso Penale "Due Palazzi" di Padova, dove dal 14 maggio 1992 sono attivi, prima uno ed ora quattro Club, frequentati nel tempo da circa cento persone che hanno trovato l’opportunità per riflettere sui propri comportamenti a partire da uno di essi.

La lettura della circolare, in quell’occasione, contribuì a dare nuovo senso, nuovo significato all’esperienza che le persone, dentro e fuori del Club, stavano vivendo; fu una spinta a continuare la scommessa.

A distanza di due anni l’esperienza è ancora cresciuta, non solo perché è cresciuto il numero di Club, ma perché al suo interno è cominciato il cambiamento della cultura rispetto ai problemi alcolcorrelati e complessi.

La sua vitalità e la sua ricchezza hanno fatto sì che intorno ad essa si sviluppassero le reti di sostegno egli accompagnamenti delle persone nei loro percorsi durante e dopo la detenzione, con un ‘attenzione in più per gli stranieri immigrati.

Oggi, nel carcere di Padova, accanto ai Club, il privato sociale e le Istituzioni lavorano con le persone e con il territorio per affrontare i PAC e le loro ripercussioni sulla comunità, progettando interventi, riflettendo sulle esperienze in atto ed aprendo via via nuove strade alla dignità della persona, al suo rispetto, alla sua valorizzazione.

Sono molte le cose che questo cammino, come altri che si sono svolti nelle carceri italiane, ci stanno insegnando: non solo la scoperta, mai scontata, della ricchezza che le persone sanno produrre anche in momenti di difficoltà, ma anche la validità di un approccio, il diverso messaggio trasmesso dai diversi atteggiamenti degli operatori, 1’influenza della "cultura" circostante.

Ciò che li accomuna e permette loro di essere produttivi sono, a mio avviso, alcune attenzioni alle quali è bene non rinunciare:

il partire dalle persone e non dai problemi, pensando la persona nella sua unitarietà e complessità e costruendo, ogniqualvolta risulti possibile, percorsi individualizzati:

il favorire la nascita di una richiesta a discapito della proposta di offerte, lanciando stimoli che inducano a scelte:

il lavorare con le persone e non solo per loro o su di loro, sforzandosi di dare senso e continuità alle diverse esperienze;

lo spostare l’attenzione dall’alcolismo delle persone detenute, al bere di tutti, dentro e fuori il carcere, dentro e fuori la cultura di appartenenza, dove il perché, il quanto ed il come una persona assuma bevande alcoliche diventa esperienza condivisa o condivisibile e non motivo di diagnosi. Da qui la necessità di sensibilizzare l’intero ambiente carcere, vale adire tutti coloro che vi operano e che condividono parte del loro tempo con le persone detenute.

il promuovere in carcere la salute, nella sua più ampia accezione, rendendo possibili le scelte sane dando ad ognuno la possibilità di conoscere, capire. confrontare e scegliere.

il non dimenticare, pur nella difficile realtà del carcere, che nessuno è solo, e quindi va sempre pensato inscindibile dalla propria famiglia e dalla propria comunità. Leggendo gli articoli che seguono e ripensando a quanto descritto su Alcolismi dal ‘94 ad oggi, si ha l’impressione che tali attenzioni siano vive ed attente, ma serpeggia il rischio di un adagiamento dopo lo slancio iniziale, che ha visto nascere la preoccupazione rispetto ai P.A.C. negli istituti di pena, i tentativi di risposta soprattutto dei Club degli Alcolisti in Trattamento, la formazione degli operatori, gli utili ed indispensabili stimoli legislativi.

Si ha a volte la sensazione e non solo. di un vuoto che tiene ancora separate le persone detenute ed i loro percorsi dalla comunità locale e che le vede spesso sole o addirittura impossibilitate a trasferire l’esperienza vissuta in carcere nella "vita libera".

Qualcosa ancora manca in questo collegamento che non può essere affidato alla sorte, ma deve trovare radici già nella nascita di ogni esperienza e via via coltivato, arricchito, rinforzato per permettere alle persone di essere accompagnate nel cambiamento ed accolte da condizioni che ne permettano la continuazione. Questa la direzione che anche a Padova è stata presa. non senza difficoltà, ma con la convinzione che la strada debba essere percorsa fino in fondo.

 

Nicoletta Regonati

 

Progetto Carcere - Agenzia del Centro Alcologico Territoriale - ULLSS 16 di Padova

Formazione degli operatori del Carcere di Verona sui problemi alcolcorrelati

di Gian Paolo Brunetto, Maurizio Donati Servizio di Alcologia, div. Neurologia - Ospedale Borgo Trento - Verona

 

Nell’articolo sono descritte le riflessioni che hanno portato il Servizio di Alcologia di Verona ad organizzare la formazione per gli operatori della Casa Circondariale della città, partendo da una descrizione del lavoro che già vi si svolgeva. Dall’esperienza fatta e dai risultati ottenuti si auspica la prosecuzione per i prossimi anni, tenendo conto anche delle indicazioni fornite dai corsisti.

A Verona esiste un carcere, il che non è affatto una notizia consolante ma, non avendo ancora trovato una soluzione realmente alternativa per sanzionare i crimini, ai due operatori di un Servizio di Alcologia incaricati di esercitare la loro professione anche all’interno di quella struttura, non restava che prenderne atto e verificare se tra le persone detenute vi fossero problemi alcolcorrelati.

Già dal 1992 un’operatrice volontaria dell’A.C.A.T. di Verona aveva attivato un gruppo composto da quei detenuti che, all’interno della struttura, chiedevano di essere seguiti per una abitudine problematica di uso di sostanze alcoliche, che non trovava ostacoli particolari dato che la distribuzione di vino non era considerata nelle innumerevoli restrizioni della libertà personale.

L’operatrice stessa ha avuto la caparbietà necessaria per far si che oltre al suo intervento si integrasse quello del Servizio di Alcologia. In base alla stipula di una Convenzione tra il Carcere e l’U.L.S.S., un assistente sociale e un medico del Servizio iniziarono nel 1994 un’attività di:

colloqui di valutazione delle problematiche alcolcorrelate dei detenuti;

formulazione di programmi di trattamento per i condannati sia a pene reclusive che alternative alla detenzione;

collaborazione con il gruppo di auto aiuto presente nella struttura carceraria;

collaborazione con il personale del carcere e del Centro di Servizio Sociale del Ministero di Grazia e Giustizia.

Il ruolo degli operatori negli anni seguenti è stato principalmente di risposta ad esigenze dei detenuti, aspetto che, in una realtà costrittiva. assumeva connotati alquanto frustranti. Spesso gli operatori si trovavano di fronte a situazioni ambigue in cui le persone erano principalmente interessate a ottenere benefici e possibilità "evasive" più che realizzare un vero e proprio programma in cui si rendessero disponibili a riflettere realmente sulla loro condizione e stile di vita.

La mancanza di una reale motivazione degli interessati e la difficoltà a ricomporre il quadro familiare e sociale dei problemi. ci chiamava a individuare forme nuove di intervento rispetto a quelle tradizionali di un approccio territoriale e relazionale.

Abbiamo quindi tentato una strada alternativa considerando l’ambiente di vita del Carcere come il luogo privilegiato per formulare un programma (anche se i reclusi avrebbero senza dubbio preferito scegliere con "maggiore libertà" l’ambito in cui riabilitarsi).

Il Carcere ha a sua disposizione un numero notevole di operatori addetti alla sorveglianza e ai programmi riabilitativi che sono a contatto quotidianamente con i detenuti: non potevamo prescindere da questa realtà per realizzare un qualsiasi intervento. Si è sviluppata così l" idea di un corso di formazione. assimilabile ad una Scuola Alcologica Territoriale di III° modulo, per gli operatori della Casa Circondariale, che si è realizzato nel maggio del 1997.

 

Nel formulare il corso ci siamo posti alcuni obiettivi:

permettere una sensibilizzazione degli operatori ai problemi alcolcorrelati;

fornire informazioni sui P.A.C. e sul rapporto con i comportamenti criminosi;

facilitare il riconoscimento di P.A.C. nei detenuti da parte del personale sia al momento dell’ingresso che nelle valutazioni successive;

permettere uno scambio di esperienze tra gli operatori del Servizio e gli operatori del carcere;

consentire nuove forme di collaborazione e prassi operative tra gli operatori carcerari.

 

I temi proposti sono stati i seguenti:

concetto di salute e modalità di consumo sociale degli alcolici;

danni alcolcorrelati;

alcol e comportamenti devianti;

metodi e possibilità riabilitative in occasione di misure alternative.

 

Al corso hanno partecipato 12 operatori delle diverse professioni presenti nella struttura: Agenti di custodia, Educatori. Infermieri. Psicologi e la Direttrice Sanitaria. La metodologia del Corso ha privilegiato l’aspetto partecipativo attraverso lavori in sottogruppi autogestiti, gioco dei ruoli e simulata ed elaborazione di proposte operative.

Nei contenuti sono stati introdotti oltre agli argomenti tipici di una Scuola Alcologica Territoriale, temi specifici della realtà carceraria; in particolare abbiamo analizzato il rapporto tra alcol e crimini. Nella nostra ricerca di documentazione al riguardo non siamo riusciti a trovare dati relativi alla situazione italiana, mentre molto ricca si è rivelata quella anglosassone. In Gran Bretagna, per esempio, nel 1980, ricerche su vittime di aggressione hanno dimostrato che tra loro il 65-80% erano intossicati dall’alcol. In Scozia nel 1981 il 63% degli aggressori in età giovanile era sotto l’ effetto dell’alcol al momento del reato. Nel 1985, negli U.S.A., nel 60% degli omicidi almeno una delle due parti era sotto l’effetto dell’alcol.

 

Nelle valutazioni finali dei corsisti alcune delle considerazioni che hanno incontrato maggiore consenso sono state le seguenti:

ho ricevuto informazioni che prima non avevo;

il lavoro proposto stimolava a partecipare;

simulata e gioco dei ruoli sono stati utili;

ho avuto lo spunto per una futura collaborazione interdisciplinare;

ne ho parlato con familiari e conoscenti;

ho conosciuto nuovi aspetti umani dei colleghi.

 

Citiamo ora alcuni punti delle conclusioni redatte dai corsisti e sottoposte alla Direzione del Carcere per un miglior funzionamento dell’intervento sui P.A.C.:

dare maggior risalto al colloquio di "primo ingresso";

nel limite del possibile eseguirlo nei primi giorni di detenzione anche rendendolo "quasi obbligatorio" per lo psicologo;

affiancarci all’equipe esterna del Servizio di Alcologia prevedendo, nel caso, un coinvolgimento con i familiari.

 

L’equipe di alcologia andrebbe coinvolta, volta per volta nell’equipe interna allargata:

informare il detenuto al momento del suo ingresso (approfondire il colloquio per verificare eventuali problematiche) della presenza di gruppi di auto-aiuto e di come si accede e le relative funzioni;

istituire per tutti i medici che prestano servizio all’interno del carcere, corsi di formazione circa le problematiche alcolcorrelate affinché siano sensibilizzati e preparati ad affrontare i problemi dei detenuti.

 

Per noi conduttori, l’esperienza è stata senz’altro gratificante, dal punto di vista relazionale, in quanto abbiamo potuto conoscere meglio le persone con le quali avevamo contatti strettamente professionali e per il buon clima empatico che si è instaurato nel corso dei quattro incontri. La richiesta di ulteriori corsi per altri operatori carcerari è stata un indicatore del gradimento e dell’utilità di tale iniziativa. Ci proponiamo di proseguire questa esperienza anche negli anni futuri.

"Strada facendo..."

di Stefano Alberini, ACAT Guastalla

 

L’autore racconta l’esperienza di un Club degli Alcolisti in Trattamento (C.A.T.) nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia.

 

L’incontro con l’amministrazione dell’O.P.G. è stato facilitato dal fatto che molte persone internate hanno commesso reati più o meno gravi in una condizione di ubriachezza. L’Ospedale Psichiatrico Giudiziario è un’istituzione totale dove si vive una dimensione di drammaticità unica, un luogo dal quale è difficilissimo uscire. L’O.P.G. si distingue dai manicomi per due aspetti:

  1. la pericolosità sociale degli ospiti

  2. carcerazione per espiare una pena La carenza di strutture adeguate per l’ assistenza a queste persone fa sì che questi ammalati siano degli "internati" in un mondo che potremmo definire tutto ciò che la società rifiuta.

Per loro esisteva una vita più o meno bella prima dell’arresto e ne esiste una più o meno bella dopo la fine della detenzione.

La Legge Gozzini ha avuto il merito di ristabilire un dialogo con le persone che sono passate dalla parte del mondo degli altri, e consentire inoltre, nel rispetto del diritto e nella certezza della pena, la possibilità di mantenere una relazione tra la reclusione e il mondo civile.

In una società civile non si preclude neppure a colui che ha commesso i reati peggiori di potere avere la possibilità di una progettualità verso la propria vita, anche se si è in una situazione di carcerazione.

 

Il Club in O.P.G. come tante altre iniziative si è inserito in questa possibilità di dialogo. Che cosa è stato fatto:

una sensibilizzazione sulle problematiche alcolcorrelate rivolte alla Direttrice, Vicedirettrice, educatori;

una sensibilizzazione ai medici psichiatri che operano all’ interno dell’Istituto;

presentazione del Club degli Alcolisti in Trattamento;

richiesta al Tribunale di sorveglianza di potere operare con un gruppo di dodici persone senza la presenza degli agenti e delle figure istituzionali.

Ciò che non è stato possibile fare è la sensibilizzazione agli agenti di custodia e al personale infermieristico. Dopo questa prima fase durata circa un anno, nel marzo 1992, è stata possibile l’apertura del Club con dieci persone.

 

I suoi obiettivi sono:

la costruzione di una relazione umana significativa ed accettabile;

una migliore qualità di vita, anche se può sembrare una utopia, (però si è notato che la persona ha cominciato ad avere più cura di sé);

la possibilità di un avvicinamento alla famiglia di origine o, in alcuni casi, acquisita.

Negli anni sono state numerose le persone inserite nel Club; ognuna di queste ha trovato, per quanto possibile, delle risposte tramite la relazione e le esperienze con gli altri componenti del Club.

Un risultato, a parer mio, importante è stata la garanzia che i detenuti potessero usufruire di permessi per recarsi a casa per brevi periodi e essere seguiti dalla famiglia e dal Club. Per alcuni di questi è stato proprio il magistrato di sorveglianza a prescrivere la frequenza al Club.

Dove non è stato possibile attivare ne la famiglia di origine ne la famiglia sostitutiva si è cercato l’inserimento in comunità. Attualmente si è fatta una sensibilizzazione dei Club a Reggio Emilia per fare in modo che il Club in O.P.G.

non rimanesse più all’ interno dell’istituzione, ma che ogni Club si facesse carico di inserire come membri almeno due di queste persone, facendo così passare il concetto di multidimensionalità della sofferenza.

Che cosa insegna questa esperienza? L’alcolista che entra nei programmi alcologici comincia ad essere partecipe della sua sobrietà facendolo per vari motivi:

perché non vuole perdere la propria dignità;

per la paura di perdere la famiglia e il lavoro;

per riconquistare la fiducia sotto tutti gli aspetti.

Per l’internato queste paure non esistono, anzi, il rimanere sobrio può rendergli più dolorosa e più chiara la percezione del proprio stare in quel luogo di Istituzione totale. Per essere più chiari, non c’è più la paura di perdere questi valori, perché è dal conflitto con questi che è nata la rottura sociale e la conseguente marginalità dell’individuo. Posso quindi affermare che al momento attuale questa esperienza ci appare come una caratteristica che più di altre suggeriscono un processo costante di crescita che si è avviato e che non ha sicuramente bisogno di essere chiuso. È infatti mia convinzione che anche in un mondo così violento e "muto" possano scaturire delle relazioni umane significative tali da suscitare soddisfazione e riconoscimento sia all’interno dell’Istituto che nella comunità locale.

Formazione e programmi per la riduzione dei problemi alcolcorrelati nell’Area Penale

 

Luigi Colajanni, Servizio Salute Mentale n° 10- Milano

 

Da una panoramica sulla presenza di problemi alcolcorrelati nelle carceri italiane, si deduce la necessità di programmi di trattamento per le persone detenute e di formazione per il personale. L’esperienza pilota della Regione Lombardia, con i suoi risultati, diventa un utile spunto per la riflessione di quanti operano in questo ambito e per la formulazione di nuovi percorsi

 

Premessa

 

Scrivere di formazione è sempre un impegno utile perché ci permette di chiarire e mettere in ordine le idee che vanno prendendo forma nell’esperienza sul campo, e che così possono essere proposte al dibattito comune. La principale difficoltà circa il tema è legata al fatto che specifici contesti come quelli proposti dall’Area penale, che sono pure parte delle nostre comunità locali, rappresentano condizioni di vita e modalità che poco hanno a che fare con le qualità dei territori nei quali operano i programmi alcologici e i Club degli Alcolisti in Trattamento. Per Area penale infatti si intendono almeno due realtà specifiche nelle quali una persona che sconti una condanna penale può venirsi a trovare, spesso passando dall’una all’altra: il carcere con la sua struttura di istituzione totale, e in cui la libertà personale è fortemente compressa, e le misure alternative al carcere e i benefici di cui una persona può usufruire, che vanno dalla detenzione domiciliare alla messa alla prova con l’ affido al competente Centro di Servizio Sociale per Adulti .

 

In Italia

 

In Italia, stime del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria indicano 330 detenuti alcolisti presenti nelle carceri italiane al 30 giugno 1994; secondo l’A.M.A.P.I. sarebbero circa il 15% le persone con problemi alcolcorrelati tra le c.a. 50.000 persone ristrette, pari ad un numero vicino alle 7.500 unità. Come si vede, emerge la necessità di attrezzarsi con strumenti di rilevazione epidemiologica semplici e generalizzabili a tutti gli Istituti di pena italiani e a tutta l’Area penale, tali da permettere l’acquisizione di consapevolezza istituzionale e di attivare forme di intervento e trattamento.

 

Un’esperienza pilota in Lombardia

 

Operando in tal senso, il Ministero di Grazia e Giustizia con la circolare 558023 del maggio 1997 indicava l’importanza dell’intervento verso le persone con problemi alcol correlati sottoposte a misure penali ed in particolare di "...favorire l’approccio ed esperienze di auto mutuo aiuto che sono possibili attraverso le associazioni volontarie... che si sono dimostrate, per consolidata pratica, essenziali per il recupero e la riabilitazione degli alcol dipendenti".

Inoltre la circolare dava indicazione alle Direzioni delle Carceri di mettere a disposizione idonei locali…" per la realizzazione delle attività, e sottolineava l’importanza di attivare "...incontri d’informazione e sensibilizzazione del personale penitenziario sui problemi alcol correlati e complessi".

Seguendo tale direttiva a Milano e in Lombardia si è pianificato un progetto articolato di sensibilizzazione del personale e di rilevazione epidemiologica "pilota". Grazie alla collaborazione tra Direzione del carcere, Direzione sanitaria e Associazione Italiana dei Club degli Alcolisti in Trattamento, è iniziato un progetto sperimentale nel Carcere di S. Vittore, finalizzato a rilevare la presenza e la numerosità di persone con PAC nella popolazione detenuta, e a promuovere un Club degli Alcolisti in Trattamento in carcere. Si è realizzato un semplice questionario sulle abitudini di vita adattando il test di Paul Wallace e traducendolo in francese e in arabo.

Tale progetto, come riportato prima, si inserisce in un più completo programma di formazione in Lombardia rivolto al personale dell’Area penale, che ha previsto due tipologie diverse:

la prima ha riguardato il personale di Polizia penitenziaria della Lombardia che è stato coinvolto in ogni Istituto (o aggregando due o più Istituti più piccoli) in Conferenze di sensibilizzazione sul consumo delle bevande alcoliche e i problemi alcol correlati;

la seconda, rivolta al personale psicopedagogico e sociosanitario, ha permesso la realizzazione, dal 1 al 6 settembre 1997 a Castiglione delle Stiviere presso la Scuola di formazione del personale minorile del Mino di G. e G., del I Corso di Sensibilizzazione alt’ approccio ecologico sociale ai problemi alcol correlati e complessi; al corso hanno partecipato 40 operatori di ruolo, convenzionati e volontari dell’Area penale, volontari e componenti di Club del territorio.

 

La valutazione

 

Sia le Conferenze rivolte alla Polizia penitenziaria, sia il Corso di sensibilizzazione hanno utilizzato strumenti di valutazione dell’esperienza, come il questionario di gradimento. L’attività di valutazione appare sempre importante perché ci permette di calibrare i nuovi interventi e quindi di migliorare i contesti e gli strumenti che pianifichiamo; si tratta della valutazione dei corsisti sul Corso attraverso un giudizio di gradimento su specifici aspetti e con la sollecitazione di risposte "aperte" per quanto riguarda la prospettiva futura. Utile sembra anche accogliere la frequente richiesta di formulazione di un documento conclusivo che permette anche una presa di responsabilità maggiore e più definita.

 

Gli obiettivi specifici di tali interventi formativi

 

Appare chiaro per i motivi legati al ruolo degli operatori penitenziari, come sia importante che ogni esperienza di sensibilizzazione e formativa si concluda proponendo con chiarezza le possibilità e i limiti dell’intervento alcologico di ciascuna figura professionale all’interno dell’Area penale. Posto che ciascuna persona, se disponibile, può sempre proporsi come servitore di Club nel territorio,è bene distinguere il ruolo di servitore di Club, magari nel carcere, da quello che un educatore, un agente di Polizia penitenziaria o un assistente sociale potranno svolgere all’interno della propria funzione nell’esecuzione penale; si tratta innanzitutto di formare una sensibilità a riconoscere le persone con P.A.C., per facilitare il loro arrivo e quello delle loro famiglie ad un Club, per facilitare e sostenere l’ avvio e la vita del Club nel carcere, per avviare le persone con problemi alcolcorrelati, ove possibile, ad utilizzare i benefici previsti dalla legge legati al trattamento, per proporre alla Magistratura percorsi sostitutivi alla carcerazione in cui la persona e la famiglia possano essere accolte in un Club della comunità locale.

Come già detto, si tratta di un campo del tutto sperimentale in cui le acquisizioni vanno poste a verifica e proposte nel dibattito comune; ma che soprattutto devono essere finalizzate a migliorare il lavoro alcologico dei Club, nella garanzia della loro autonomia, e a facilitare l’apertura dell’Area penale, alla comunità e viceversa, e dei Club alla complessità della multidimensionalità della sofferenza delle persone e delle famiglie.

Corsi per operatori addetti ad istituti a custodia attenuata o sezioni per tossicodipendenti

Santina Spanò, Centro Servizio Sociale Adulti, Genova

 

Nell’ambito delle iniziative legate ai fondi stanziati dalla legge 162/90 (l. 309/90), la direzione della casa circondariale di Genova, nella previsione dell’apertura di una sezione per il trattamento di detenuti tossicodipendenti ed alcolisti, ha organizzato corsi preparatori per il proprio personale. I corsi sono stati suddivisi in due moduli.

Il primo modulo, della durata di tre settimane per un totale di sei ore giornaliere di lavori teorici ed esercitazioni di gruppo, ha costituito un approccio ai problemi della tossicodipendenza. Sono state fornite informazioni generali sulla tossicodipendenza e sui problemi ad essa correlati e sono stati affrontati alcuni argomenti specifici quali la necessità di acquistare capacità nel lavoro di gruppo e comportamenti più adeguati nel rapporto con i soggetti tossicodipendenti detenuti.

I migliori risultati raggiunti hanno riguardato sia l’abbandono di pregiudizi e luoghi comuni, che l’acquisizione di una migliore capacità di lavorare in gruppo, superando diffidenze e rigidità collegate ai ruoli istituzionali senza perdere per questo il senso della propria professionalità e delle responsabilità a questa collegate.

A distanza di circa un anno è stata ripetuta l’esperienza formativa che ha previsto momenti di approfondimento delle tematiche già trattate ed un maggiore utilizzo dei lavori di gruppo. Questo secondo modulo ha avuto la durata di due settimane per un totale di sei ore giornaliere di lavori. In questa fase si è allargata la discussione ai problemi alcolcorrelati con il coinvolgimento di operatori dell’A.R.C.A.T. (Associazione Regionale Club Alcolisti in Trattamento), del volontariato penitenziario e del nascente Centro Alcologico Regionale.

Questo tema ha consentito di discutere in modo molto libero portando anche aspetti del proprio vissuto e delle proprie esperienze personali, familiari e sociali.

Ciò ha permesso di constatare come l’alcolismo sia un problema della nostra cultura e quindi molto più vicino alle nostre esperienze personali che non il problema della tossicodipendenza e questo ha consentito lo sviluppo di spunti di discussione e di un clima di lavoro di gruppo più ricco ed articolato. Particolarmente significativi sono stati i lavori elaborati nell’ambito dei gruppi autogestiti con spunti di riflessione e proposte che vogliamo sottoporre all’attenzione di tutti.

Sono state analizzate le conseguenze sociali dell’alcol con particolare riferimento alla violenza che il suo uso può scatenare all’interno della famiglia, sul lavoro e nei rapporti interpersonali ed è stata esaminata la politica statale che invece di disincentivare l’uso, di fatto, lo agevola, omettendo di promuovere campagne d’informazione sui suoi effetti e disapplicando la normativa che tutela i minori. Si è anche evidenziata la mancanza di informazione nelle scuole e l’assenza di strutture idonee alla cura ed al recupero dell’alcolista, finanziate dallo stato, e si è sottolineato come, al momento, tale problema sia demandato al volontariato. È stata infine rilevata la tendenza a considerare il problema dell’alcol secondario rispetto a quello della droga. Sulla base di tali considerazioni sono state elaborate dai gruppi autogestiti le proposte che seguono:

Limitare l’uso e la vendita di alcol negli spacci e nelle mense di polizia al solo personale fuori servizio.

Dare maggiore pubblicità ai problemi causati dall’alcol.

Educare la popolazione detenuta a controllare l’uso dell’alcol anche attraverso la partecipazione a gruppi autogestiti, peraltro già funzionanti per i tossicodipendenti.

Cercare di fare diminuire il consumo delle bevande alcoliche senza proibirle, in considerazione dell’esperienza USA dove il proibizionismo non ha funzionato.

Necessità di grandi campagne pubblicitarie contro l’uso dell’alcol.

Abolire la pubblicità sugli alcolici.

Fare apporre sulle etichette delle bottiglie la dicitura che l’alcol nuoce gravemente alla salute, in analogia con quanto stabilito per il tabacco.

Proibire nei film per adolescenti le scene in cui si fa uso di alcol.

Abolire nelle feste ufficiali dello stato e nei pranzi di lavoro l’uso dell’alcol.

Proibire l’accesso ai minori di 16 anni in bar, birrerie e spacci di bevande alcoliche.

Chiedere il rispetto delle leggi già esistenti in materia di consumo di bevande alcoliche.

Imporre maggiori controlli sulla qualità dell’alcol.

Costituire reparti di Polizia Giudiziaria che si occupino principalmente di controllare l’osservanza della legislazione inerente il consumo di alcolici.

 

In base alle indicazioni emerse dal corso il gruppo di lavoro, comprendente operatori dell’A.R.C.A.T., volontari e operatori penitenziari, ha elaborato alcune semplici ipotesi per dare una continuità al lavoro svolto:

Rendere pubbliche le considerazioni e le proposte sopra indicate, elaborando un cartellone che le sintetizzi da sistemare allo spaccio agenti della Casa Circondariale di Genova.

Elaborare un questionario a risposte chiuse mirato a conoscere le opinioni del personale di polizia penitenziaria relative alle problematiche legate all’uso delle bevande alcoliche con particolare riferimento al loro consumo da parte della popolazione detenuta.

Proporre "la giornata analcolica", cioè una giornata nell’arco dell’anno in cui, attraverso una serie di iniziative, tutti vengano invitati ad astenersi dal consumare bevande alcoliche.

Elaborare materiale informativo sulle conseguenze dell’uso di alcol da distribuire alla popolazione detenuta in concomitanza alla distribuzione giornaliera delle bevande alcoliche acquistate al servizio di sopravvitto.

Proporre all’equipe penitenziaria, nell’ambito delle consuete riunioni periodiche, momenti di aggiornamento, curati da volontari dell’ARCAT, sui problemi legati all’uso dell’alcol e di discussione ed individuazione di nuove modalità di intervento.

Coinvolgere, continuando momenti di formazione e aggiornamento, tutto il personale penitenziario ad avere un ruolo attivo e propositivo nell’affrontare il problema.

Carcere e Comunità

di Nanni Gennaro, ARCAT, Genova

 

Tra le buone leggi che quest’Italia si è saputa dare c’è la 354 venuta alla luce più di 20 anni fa, nel 1976; essa tratta della carcerazione dei cittadini colpevoli di reato e del loro modo di essere recuperati alla società introducendo procedure nuove ed utili per raggiungere lo scopo.

Non è questa mia una difesa d’ufficio nei confronti di un parlamento troppo spesso accusato di non volere o non sapere legiferare bene; è semplicemente una constatazione.

Sono un assistente volontario che da quasi 13 anni frequenta, nella sua qualità, le patrie galere e che può quindi riconoscere buona una legge fatta per tentare il recupero del reo quando questi voglia pensare seriamente al suo comportamento riconoscendolo socialmente sbagliato. A lui, infatti, è attribuito il diritto d’incontrare persone che lo inducano a riflettere e a tentare un reinserimento duraturo nella società, anche prima che la pena sia completamente espiata tra le mura della prigione.

Non sto a spiegare le procedure giuridiche, esse sono note agli addetti ai lavori; voglio solo far osservare quanto il metodo Hudolin sia utile per mettere in discussione non solo l’alcol, ma anche lo stile di vita di ognuno.

Nelle carceri ci sono molti alcolisti ed ancor più spesso si incontrano persone diventate consumatrici abituali di alcol quale surrogato alla dipendenza, ormai non più frequentata, da altre sostanze. A Genova, la direzione del carcere di Marassi, lo scorso novembre, mi ha consentito di incontrare alcuni "disturbatori" per tentare con loro un incontro di C.A.T. che, per corretezza, chiamerò con nomi di fantasia. Mario, Matteo e Francesco cominciano ad ascoltare le mie spiegazioni su ciò che voglio proporre, sul metodo da seguire e sulla costituzione del gruppo di auto aiuto, che fonda sulla solidarietà e la condivisione le regole di intervento. Spiego che è essenziale, per riuscire, il mettersi in discussione.

Quando finalmente prendono la parola per raccontarsi scopro con piacere che Francesco ha già frequentato per qualche tempo da libero un C.A.T., che ora è qui dove continua a bere perché il carcere è "una brutta cosa" ma che è contento di accettare la proposta per vincersi. Ci incontriamo la settimana dopo e subito Francesco afferma di aver resistito sette giorni.

La sorpresa mi raggiunge al terzo incontro quando scopro che anche gli altri due stanno tentando l’astinenza, chi con due giorni chi con tre, ma soprattutto che i compagni di cella cercano di aiutarli. È chiaro che tra loro c’è solidarietà o forse che questa può esprimersi al meglio essendo sempre insieme gli uni agli altri. La quarta settimana ci sono nuove richieste di partecipazione. Un po’ di curiosità, un po’ i risultati dell’astinenza di Francesco al quale si è aggiunta quella di Mario, chiamano altri. A Francesco, Mario e Matteo, si aggiungono Pino, Roberto, Federico e Vincenzo. La settima settimana aspettiamo invano l’arrivo di Matteo. Ci fa sapere di non voler continuare gli incontri:

per lui è troppo difficile, sente troppo la costrizione di DOVER obbedire, di DOVER partecipare, di DOVER rispondere di DOVER ... Certo in carcere tutto è DOVER e lui vuole esprimere il minimo di libertà concessagli rifiutando di partecipare al gruppo. Si apre una discussione interessantissima sugli obblighi cui è sottoposto chi si trova in detenzione. Bisogna sempre obbedire anche quando ci si vorrebbe ribellare, anche quando il cuore vorrebbe urlare il suo dolore, anche quando… A questo punto Pino domanda: "È vero, il bere fa soffrire noi e la nostra famiglia, ma la condizione di reclusi non fa soffrire ancor più noi e le nostre famiglie? Non sarebbe meglio porre in discussione il nostro rubare, il nostro minacciare, il nostro aggredire insieme al nostro bere? Non sono da evitare questi "alcolismi" per migliorare la nostra vita e quella di chi ci sta intorno?" Il sasso è stato lanciato nello stagno: l’acqua rafferma si muove, abbiamo cominciato veramente a mettere in discussione la vita. Non sempre escono con sincerità le riflessioni che ruotano attorno al proprio esistere sprecato negli anni migliori, spesso costretto all’ozio dalla detenzione e sicuramente amareggiato dalla solitudine.

Talvolta sembra che qualcuno legga con freddezza parole scritte da altri, pronunciate senza convinzione; tuttavia abbiamo imparato a riconoscerle soprattutto perché qualche volta qualcuno si apre completamente e racconta se stesso in maniera vera e cruda. È stato detto che "sembra di assistere ad uno spogliarello" tanto intime e vere vengono svelate le proprie storie e concretamente ipotizzate mete di riscatto sociale.

Tra vivacità e stanchezza, spesso riuscendo a restare in tema, portiamo avanti le nostre riunioni. Nel frattempo siamo diventati numerosi tanto da dover duplicare il gruppo. Questa è un po’ di storia del gruppo di Genova; ma tornando a parlare in termini generali è mia consolidata convinzione, anzi nostra, che anche in galera, cioè in una condizione di vita dolorosa e difficile, si possa vincere la battaglia dell’alcol; e non solo questa.

È ancora Francesco che ci aiuta a sperare. Francesco, dopo qualche mese di riflessione è uscito. I primi giorni sono stati molto difficili: le tentazioni erano forti. La famiglia tuttavia lo ha accolto; dopo un mese di studio del comportamento un cugino gli ha offerto un lavoro nella sua ditta di autospurghi. Oggi Francesco è felice, segue nella sua città un C.A.T. e invia agli amici del Gruppo lettere che danno coraggio. Debbo aggiungere un ‘ultima cosa prima di dimenticarla come troppo spesso succede anche nei migliori C.A.T.: mi riferisco ai parenti.

Per ora ci accontentiamo di indirizzarli al club che territorialmente è più vicino a casa. Anche loro, infatti, hanno diritto ad un confronto e, perché no, anche ad un po’ di speranza! In futuro... si vedrà; prima o poi nasceranno i C.A.T. in carcere. Per ora è un sogno, ma se i buoni risultati continueranno possiamo sperare anche noi; sperare che si possa riuscire vincitori, se si vuole, combattendo contro "alcolismi" dolorosi da vivere e difficili da estirpare.

Il Club nelle carceri

di Mariantonia Papapietro, ARCAT - Puglia

 

Il mondo delle "carceri" è un mondo chiuso, ripiegato su se stesso, oserei dire "inespugnabile", quella che si dice, per ovvie ragioni, una struttura totale, non aperta alla comunità. E’ una struttura molto complessa, regolata da leggi formali e rigidi regolamenti e da leggi e codici informali che regolano i rapporti tra i detenuti. In una comunità di questo tipo, l’alcol diventa funzionale al tipo di vita che scandisce le giornate di detenzione; la tolleranza in questa dimensione assume un significato ancora più marcato e diventa una situazione di comodo per i detenuti egli stessi operatori. Eppure a pensarci bene il carcere è comunque espressione della comunità, parte della stessa. Già da tempo l’esperienza dei Club nelle carceri è stata avviata, non sempre con buoni risultati, ma sicuramente questo lavoro paziente e laborioso è servito a far conoscere questa ricca e complessa realtà ed a far sì che si cominciasse a discutere concretamente della possibilità e delle modalità per l’ apertura dei Club.

Dal 1° al 6 settembre 1997 si è svolto a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, il primo Corso di sensibilizzazione all’approccio ecologico-sociale ai problemi alcolcorrelati e complessi, rivolto ad operatori dell’Amministrazione penitenziaria, dei Servizi Pubblici e del volontariato dell’area penale, promosso ed organizzato dal Ministero di Grazia e Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - Provveditorato della Lombardia. Il corso è stato organizzato in collaborazione con il Centro Studi di Trento.

Quando fui invitata come conduttrice ero lusingata da una parte e spaventata dall’altra; mi dissi che per impattare la mentalità di questi operatori un po’ della mia professionalità la potevo sfoggiare. Man mano che passavano i giorni, mi ritrovai, come sempre mi succede nei corsi, ad incuriosirmi ed a riscoprire come l’ empatia, l’amicizia che nei gruppi si crea, faccia venir fuori l’emotività, l’aspetto umano delle persone, sia in positivo che in negativo. Tutto questo lascia sicuramente il segno ed è conferma, ancora una volta che il metodo ecologico-sociale funziona di per sé, perché attiva quella parte "spirituale" comune e presente in ogni persona, qualsiasi sia la sua esperienza, la sua condizione, il luogo o la situazione contestuale nella quale vive e lavora.

È stata questa per me un’esperienza molto forte ed importante; non so quanto io abbia reso in quella occasione, ma sicuramente mi ha arricchita sia umanamente che professionalmente. È stata un’esperienza forte perché ci si è trovati di fronte ad operatori dello stesso mondo con una forma mentis molto burocratizzata, vincolata da leggi, circolari e regolamenti, rigida e poco incline ai cambiamenti. Questo Corso è stato importante per i programmi perché ha permesso di fare il punto e di stimolare ad una riflessione su tutte le esperienze che in campo nazionale si hanno in questo settore. E sono tante.

Le critiche che si possono muovere a questa iniziativa sono di due tipi: una riguarda l’omogeneità della maggior parte dell'uditorio. Questo non ha consentito un proficuo confronto con altri mondi professionali, facendo vivere il corso più come un aggiornamento professionale che come una sensibilizzazione ai problemi dell’alcol. L’altra riguarda la modalità organizzativa. Infatti la committenza del corso da parte dell’amministrazione penitenziaria ha provocato continui tentativi di ingerenza nell’organizzazione e talvolta nella metodologia, cosa quasi inevitabile in queste situazioni. Tutto sommato sono convinta che sia un’esperienza senz’altro da ripetersi, magari rivedendo e correggendo alcuni aspetti e chiarendo fin dall’inizio le modalità di rapporto e di realizzazione del Corso. Credo che il Corso sia servito a cambiare qualcosa nella mentalità; se non nei comportamenti almeno nel bagaglio informativo - culturale dei partecipanti.

Non so se siano stati aperti dei Club, ma sicuramente è stata aperta una porticina in un mondo così chiuso con il quale comunque bisogna fare i conti; che non si può tenere fuori, ma che bisogna tirarsi dentro.

Il fatto che il Ministero di Grazia e Giustizia si apra al mondo dei Club è ormai un fatto appurato e questo grazie anche alla buona volontà di tanti servi tori professionali e non e alle famiglie che hanno messo a disposizione il proprio tempo e la propria esperienza e sensibilità.

In Puglia già da tempo sono state avviate iniziative nelle carceri di Trani e Bari. A Foggia, nell’ottobre del 1996, al corso di sensibilizzazione hanno partecipato come corsisti gli educatori del carcere ed alcuni assistenti sociali del servizio sociale adulti. Non sono diventati operatori di Club, ma possiamo dire che collaborano ai programmi, cercando di indirizzare i dimessi e coloro che benefici ano di pene alternative, con problemi alcolcorrelati, presso i CAT. Si è tenuta una giornata di aggiornamento per i servitori di tutta la regione. Questa capillare sensibilizzazione è stata determinante perché ufficialmente il carcere di Trani e Bari hanno chiesto la collaborazione dell’ARCAT per avviare i Club all’interno delle rispettive Case Circondariali.

Considerazioni conclusive

 

Il panorama complessivo che ci offrono le pagine dedicate all’ambito penitenziario ci indirizza verso due direzioni fondamentali: la sensibilizzazione-formazione del personale periferico dell’amministrazione giudiziaria e i gruppi di trattamento degli alcolisti detenuti. La sensibilizzazione-formazione del personale ci offre un quadro confortante: in diversi ambiti è stato possibile un concreto percorso formativo, che ha anche prodotto elaborazioni culturali di qualche consistenza, proposte operative, legami che iniziano a definire una rete specifica di servizi. Altri segnali certi raccolti nell’ambiente inducono a credere in una disponibilità vera dell’amministrazione ad impegnarsi per la formazione del personale, e contiamo di darne conto nel prossimo numero. A questo argomento per ora è bene aggiungere solo due riflessioni: le occasioni di formazione sembra che ancor oggi debbano partire dall’esterno (molto spesso dai servizi pubblici e dal volontariato che si richiama all’Associazione Italiana dei Club degli Alcolisti in Trattamento), segno che prevale forse l’espressione dell’offerta più che la richiesta esplicita; ma l’accoglienza che riceve rivela un bisogno profondo, che possiamo immaginare abbia difficoltà a concettualizzarsi ed esprimersi; la progettazione e lo svolgimento del programma di formazione debbono però essere concertati e condivisi dall’agenzia formativa con l’ambiente penitenziario per essere efficaci; e la metodologia che si ispira ai corsi di sensibilizzazione hudoliniani si segnala per la sua adeguatezza per questo scopo.

L’altra definizione è quella che ci induce a pensare che l’inevitabile sbocco di questo percorso formativo è la progettazione emessa in funzione di programmi destinati alle persone detenute. E l’intervallo di tempo tra formazione e avvio di programmi non può superare i limiti fisiologici dei tempi della progettazione; per motivi etici, ma anche per non lasciar cadere il climax e perché radiocarcere potrebbe mettere in moto bisogni, richieste e disponibilità che una volta disperse e deluse oltre al danno individuale diretto rischierebbero di creare un clima di eccessiva diffidenza e distacco. In definitiva è estremamente importante procedere con urgenza alla progettazione di programmi.

A questo punto si inserisce naturalmente il discorso sui gruppi di trattamento. In sintesi abbiamo l’informazione che questi gruppi sono concretamente possibili; pur tra le difficoltà intrinseche sono efficaci per quanto riguarda astinenza e cambiamento di stile di vita; richiedono l’ingresso nei luoghi di detenzione di personale diverso da quello penitenziario; esiste personale del volontariato esperto e competente, in grado di collaborare se inserito nella rete dei servizi, coerentemente con quanto raccomandato dalle indicazioni ministeriali. Anche qui si possono offrire due riflessioni specifiche: aumenta l’incidenza di persone detenute che hanno problemi legati oltre che all’uso di alcol anche all’uso di altre sostanze psicoattive, e bisogna tenerne conto nella progettazione; il cambiamento di comportamento e di stile di vita che offrono i gruppi che si ispirano ai club degli alcolisti in trattamento offrono all’esperienza della detenzione quella possibilità di riscatto e di reintegro nella comunità che si vorrebbe accompagnare l’espiazione della pena, ma che di norma stenta a trovare lo spazio che, credo, tutti desiderano e per il quale lavorano.

 

 

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