La detenzione domiciliare speciale

 

Il sistema penitenziario in Italia e le relative riforme

 

Lo sviluppo storico della pena

Le leggi di riforma

La legge 663/1986: la legge Gozzini

I benefici della legge Gozzini

La legge 165/1998: la legge Simeone - Saraceni

La legge 40/2001: la legge Finocchiaro

Chi riguarda la nuova legge?

Lo sviluppo storico della pena

 

Il principale tra gli strumenti di controllo sociale sono sempre state, e continuano ad essere, le leggi e le sanzioni penali; il sistema penale costituisce il fondamentale ed insostituibile strumento necessario ad assicurare la convivenza sociale, e la pena, di conseguenza, deve essere dunque intesa come un irrinunciabile strumento di controllo sociale che, ovviamente, nel corso degli anni, col succedersi delle varie culture, ha subito un continuo mutare in relazione alle esigenze storiche.

Nell’epoca pre-illuministica è prevalsa l’idea della "pena-certa", secondo la quale il fine primario della pena era quello della vendetta e il mezzo utilizzato era quello della proporzionalità fra male commesso e male fisico subito dal reo (antica legge del taglione, tortura, uccisione). Nel secolo XIX si è poi verificato un radicale cambiamento degli strumenti punitivi: in primo luogo per l’influenza delle idee illuministiche, e in particolare del Beccaria, si diffonde in Europa la redazione di codici penali e di procedura penale, la cui osservanza viene imposta come principio fondamentale e la cui validità è universale; in secondo luogo, vengono via via abbandonate la tortura e le pene corporali e, più lentamente, la pena capitale; in terzo luogo, la detenzione in carcere diviene lo strumento fondamentale di punizione, introducendosi il principio della proporzionalità fra gravità del reato e durata della detenzione. È appunto il carcere che diviene in questo momento la chiave di svolta del sistema penale e che rimarrà tale fino alla metà circa del XX secolo. Cambia inoltre il modo di concepire i fini della pena: viene superato il fondamento vendicativo - intimidativo della pena e si fa strada, in sua sostituzione, il principio della retribuzione, quale finalità primaria della pena. Si riaffaccia il significato della punizione come emenda: la punizione diviene cioè anche un mezzo che serva alla riabilitazione spirituale, attraverso la presa di coscienza della propria colpa ed il carcere viene inteso come mezzo di punizione ma anche di autocorrezione.

E la più nota, lucida e sintetica esposizione della nuova concezione liberale del diritto penale, che ha segnato l’inizio di una nuova filosofia della pena, e che fra l’altro è stata anche anticipatoria dei futuri approcci criminologici, è venuta proprio da Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò – anonimamente per timore della rigorosa censura – "Dei delitti e delle pene", nel quale un razionale spirito di ribellione contro l’assurda e inumana legislazione penale del tempo si fonde con un caldo pathos umanitario e con uno stile di perspicua energia.

Le pene, sostiene il Beccarla nella sua opera, non devono essere violenza di uno contro molti, e cioè arbitrarie, come lo erano state fino a quel momento, ma dettate esplicitamente dalle leggi, proporzionate al delitto, pronte, perché non si ingeneri nei cittadini il sospetto di impotenza o di connivenza della legge. "…il fine delle pene – scrive Beccaria – non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. …Il fine dunque non è altro che d’impedire al reo di far nuovi danni ai suoi cittadini. …Quelle pene dunque e quel modo di infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà un’impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo".

È infine agli inizi del XX secolo che prende corpo l’elemento di radicale innovazione rappresentato dal superamento della concezione prevalentemente retributiva della pena e dall’introduzione del principio del trattamento rieducativo e risocializzativo del reo, con il correlato concetto di "pena-utile" – capace, non tanto di punire, ma piuttosto di eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza - in sostituzione di quello tradizionale di "pena-certa".

 

Le leggi di riforma

 

La riforma del sistema penitenziario inizia con l’approvazione della legge 26 luglio 1975 n° 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Una legge "rivoluzionaria", che riconosce alle persone detenute diritti azionabili davanti ad un giudice (la legge istituisce la figura del magistrato di sorveglianza con una funzione anche di garanzia della legalità dell’ esecuzione della pena) e che introduce quel principio di flessibilità nella esecuzione penale che rappresenta la vera svolta nel passaggio da un sistema repressivo di stampo fascista, fondato su una concezione retributiva della pena, ad un sistema punitivo di stampo democratico fondato sul principio della finalità rieducativa e risocializzante della pena (art. 27 della Costituzione Italiana: "la pena deve tendere alla rieducazione del condannato").

Il sistema repressivo del codice penale del 1930 (codice Rocco) era strutturato in modo da portare all’applicazione di sanzioni molto elevate, ivi compresa la sanzione dell’ergastolo, tuttora vigente.

Senza alcuni interventi sul codice diretti a mitigare alcuni degli aspetti più "feroci", ma soprattutto senza le riforme penitenziarie, il sistema penale non avrebbe retto e le carceri sarebbero semplicemente "esplose".

La pena nel diritto vigente ha conservato nelle linee essenziali il carattere tradizionale, ossia il carattere di castigo; in conseguenza essa ha quelle finalità di intimidazione che a tale carattere sono inerenti. Questo carattere è comprovato dalla natura afflittiva della pena e dal fatto che in linea generale la pena è proporzionata alla gravità del reato. Sennonché, se esaminiamo il nostro diritto positivo con la mente libera da preconcetti teorici, non possiamo esimerci dal riconoscere che il diritto stesso assegna alla pena anche la funzione di emenda del condannato. Funzione che è venuta ad acquistare un’importanza notevole proprio con l’approvazione della legge di riforma dell’ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n° 354 e successive modificazioni).

In tale ordinamento, infatti, sono destinati direttamente a conseguire l’emenda:

l’organizzazione del lavoro nell’interno dello stabilimento e all’aperto;

la giusta remunerazione per il lavoro compiuto, con la quale si cerca di rendere attraente il lavoro medesimo, in modo che possa giovare alla rigenerazione del condannato, e le ricompense;

l’istruzione dei reclusi, a cui si provvede mediante l’istituzione di scuole all’interno degli stabilimenti e l’attrezzatura di biblioteche;

l’educazione morale che si effettua specialmente per mezzo dell’assistenza religiosa;

le attività culturali, ricreative e sportive;

la sorveglianza del giudice sull’esecuzione della pena;

il sistema progressivo di esecuzione penale.

 

Per quanto riguarda poi i delinquenti minorenni, è fuori dubbio che la finalità di emenda ha per il nostro legislatore un’importanza anche maggiore. Infatti egli ha accolto non solo gli istituti della liberazione condizionale, della sospensione condizionale della pena in limiti assai ampi, delle misure alternative alla detenzione (affidamento in prova al servizio sociale, regime di semilibertà, liberazione anticipata), delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (semidetenzione, libertà controllata, pena pecuniaria), della detenzione domiciliare, dei permessi premio, ma anche quello del perdono giudiziale nonché del proscioglimento per irrilevanza del fatto o per l’esito positivo della prova avuto riguardo ai minori, e ha introdotto importanti deroghe al principio della proporzionalità della pena, al fine di favorire la rieducazione del condannato e in genere per conseguire più efficacemente gli scopi della prevenzione speciale.

Ne consegue che nell’ordinamento vigente la funzione retributiva della pena è stata assai mitigata per perseguire lo scopo del reinserimento sociale del condannato. La pena infatti, nel diritto attuale, non ha un carattere rigorosamente unitario: è un "mixtum compositum", nel quale l’idea dell’emenda del reo ha un’influenza considerevole accanto al concetto centrale del corrispettivo. Il nostro legislatore ha conservato alla pena, nelle linee essenziali, il carattere di castigo giuridico, ma ha introdotto nella disciplina di essa notevoli temperamenti per cercare di conciliare le varie e complesse esigenze della lotta contro il delitto, ispirandosi, più che a un particolare sistema filosofico o dottrinale, a motivi di necessità sociale e di opportunità politica.

La riforma è stata poi completata dai benefici della legge 10 ottobre 1986 n° 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nota come legge Gozzini, che amplia ed estende le misure alternative alla pena carceraria, e dalla legge 12 maggio 1998 n° 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 20 luglio 1975, n° 354, e successive modifiche) nota come legge Simeone - Saraceni, che ha per oggetto l’esecuzione delle pene e le forme alternative alla detenzione (servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà) e che fa sì che per pene inferiori a tre anni (quattro per tossicodipendenti e alcoldipendenti) si ricorra al carcere solo in casi eccezionali.

Tutto ciò è avvenuto in netto contrasto con le tendenze neoretribuzionistiche e di maggior rigore che si andavano altrove affermando, non solo negli USA ma anche negli altri paesi della Comunità Europea: col risultato che il sistema sanzionatorio e penitenziario italiano è oggi non solo uno dei più miti e più umani d’Europa, ma anche uno dei più tolleranti, più permissivi e dalle maglie più larghe.

Più precisamente, per quanto riguarda il tema affrontato in questa tesi, e cioè il problema delle detenute madri con figli, i tre testi di legge menzionati testimoniano il fatto che da molti anni il legislatore si è mosso in un’ottica di deistituzionalizzazione, cercando di disincentivare la presenza delle madri in carcere e, di conseguenza, quella dei bambini:

la legge n° 354 del 1975 consentiva alle madri di tenere presso di sé i figli fino all’età di tre anni e prevedeva l’inserimento negli istituti penitenziari di specialisti (ostetriche, ginecologi e pediatri) allo scopo di tutelare la salute psico-fisica dei bambini e delle loro madri;

la legge Gozzini consentì in seguito alle donne incinte o madri di minori di tre anni di scontare la condanna (a condizione che il reato prevedesse una pena inferiore ai due anni di reclusione) presso la propria abitazione o in altro luogo privato o pubblico di cura e di assistenza;

la legge n° 165 del 1998, infine, modificò ulteriormente la normativa innalzando da tre a dieci anni l’età del bambino la cui madre poteva usufruire della detenzione domiciliare, sussistendo le medesime condizioni previste dalla legge Gozzini.

 

La legge 663/1986: la Legge Gozzini

 

Una delle novità più rilevanti delle riforme penitenziarie è, come già detto, la flessibilità della pena. Si tratta cioè della possibilità di modulare e graduare la pena nel corso dell’esecuzione in modo da favorire il processo rieducativo del condannato.

La flessibilità si realizza attraverso una serie di strumenti, noti come i "benefici" della Gozzini, la cui finalità è ora quella di consentire un graduale reinserimento del condannato, favorendo contatti con l’esterno, ora quella di ridurre la durata della pena ovvero di sostituire la sanzione carceraria con una misura alternativa.

La legge Gozzini individua misure alternative per offrire maggiori possibilità di scontare la pena fuori dal carcere; sancisce la partecipazione del detenuto al trattamento e la possibilità di premiare il suo impegno con la concessione di benefici: dovendo promuovere il recupero, il carcere dovrebbe essere un’istituzione aperta alla realtà esterna.

La legge inoltre prevede corsi di istruzione, di formazione professionale e attività culturali e ricreative; assicura il lavoro e la carcerazione in istituti vicini al luogo di residenza della famiglia, anche se molto spesso quest’ultima previsione non viene applicata. Va ricordato che nessuno dei "benefici" della Gozzini è "automatico", in quanto sempre l’applicazione è subordinata ad una valutazione complessiva della condotta tenuta dal condannato e della sua partecipazione al processo rieducativo. Per di più non è solo la "buona condotta" che viene esaminata, comportamento per il quale, anzi, si segnalano spesso i detenuti più pericolosi, ma è una valutazione complessiva sul percorso di risocializzazione della persona, basato su un periodo di osservazione e di trattamento da parte di una equipe composta da psicologi ed educatori. La possibilità di avvalersi di una delle misure alternative dipende dunque dalla sussistenza di alcune condizioni, quali:

l’essere già in una condizione di esecuzione di pena;

l’averne già scontato un certo periodo rispetto alla durata della condanna;

avere avuto durante la detenzione un comportamento disciplinarmente corretto.

La ragione di tale istituto è dettata da molteplici fattori quali il permettere al/alla detenuto/a di poter avere dei momenti di relazione con il proprio mondo degli affetti (affettivo e sessuale), anche se per un breve periodo; l’usufruizione dei permessi premio infatti appare, nello spirito della legge, come una condizione necessaria ed indispensabile per un trattamento che non sia soltanto mirato alla privazione della libertà.

 

I benefici della legge Gozzini

 

Questi sono gli strumenti utilizzati oggi, previsti per il reinserimento sociale dei condannati; tali strumenti hanno subito, dal momento della loro introduzione nel sistema penitenziario, alcune modifiche: il beneficio della detenzione domiciliare, ad esempio (che in questo paragrafo viene descritto così come modificato dalla legge Simeone - Saraceni, come anche gli altri strumenti), introdotto per la prima volta dalla legge Gozzini, prevedeva come condizioni per la sua concessione una pena o un residuo di pena inferiore a due anni e, nel caso fosse stato concesso a madre o donna incinta, richiedeva che il/i figlio/i fosse/fossero di età inferiore a tre anni e fosse/fossero con lei conviventi; non era previsto, inoltre, che il padre, nel caso di morte della madre, potesse usufruire del medesimo beneficio.

Lavoro all’esterno: consiste nella possibilità di uscire dal carcere per svolgere attività lavorativa. Per i condannati per i delitti più gravi può essere applicata solo dopo l’espiazione di almeno un terzo di pena e, comunque, di almeno cinque anni.

Permessi premio: si tratta della possibilità di trascorrere fuori dal carcere un periodo non superiore a 15 giorni per coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro. Possono accedervi i condannati che abbiano tenuto regolare condotta, partecipando alle attività rieducative, e non siano socialmente pericolosi, e che abbiano espiato un quarto della pena (la metà della pena, e comunque non meno di dieci anni, per i condannati per i delitti più gravi).

Affidamento in prova al servizio sociale: si applica ai condannati che debbano espiare una pena non superiore a tre anni. Il beneficio consiste nella sostituzione della pena con un periodo di osservazione e di prova da parte dei servizi sociali. Il condannato deve altresì rispettare le prescrizioni dettate dal magistrato di sorveglianza. Condizioni per l’accesso al beneficio sono l’assenza di pericolosità sociale e la possibilità di recupero sociale.

Affidamento in prova in casi particolari: si applica ai condannati tossicodipendenti che debbano espiare una pena non superiore ai quattro anni e che chiedano, in alternativa al carcere, di sottoporsi ad un programma terapeutico.

Detenzione domiciliare: si applica ai condannati che debbano espiare una pena non superiore a quattro anni qualora si tratti di:

donna incinta o madre di prole di età inferiore ai dieci anni (o il padre in caso di morte della madre);

persona in condizioni di salute particolarmente gravi;

persona di età superiore agli anni sessanta se inabile anche parzialmente;

persona di età inferiore ad anni ventuno per comprovate esigenze di salute, studio, lavoro o famiglia;

oppure ai condannati a pena non superiore ai due anni che non siano socialmente pericolosi (sono esclusi i condannati per i reati più gravi).

Semilibertà: consiste nel trascorrere parte del giorno fuori dall’ istituto. Si applica ai condannati che abbiano espiato almeno metà della pena (due terzi in caso di condanna per i delitti più gravi).

Liberazione anticipata: consiste nella riduzione della pena inflitta (45 giorni in meno per ogni sei mesi di pena espiata). Si applica ai condannati che abbiano dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione.

 

La legge 165/1998: la Legge Simeone - Saraceni

 

Con la legge 165/1998 per pene al di sotto dei tre anni si ricorre al carcere solo in casi eccezionali, avendo la legge per oggetto l’esecuzione delle pene e le forme alternative alla detenzione.

Per quanto riguarda l’esecuzione delle pene (art. 1), l’articolo 656 del codice di procedura penale è stato modificato ed integrato da un’importante nuova serie di commi. Per prima cosa è stabilito che in caso di pena non superiore a tre anni (quattro per i tossicodipendenti o alcooldipendenti) il pubblico ministero debba sospendere automaticamente l’esecuzione della pena, e che entro 30 giorni il condannato possa chiedere che gli venga concessa una delle tre forme alternative di detenzione (servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà); il tribunale ha, quindi, 45 giorni per decidere se concederla o meno. Da questa sospensione sono esclusi coloro che si sono macchiati di delitti di terrorismo, di associazione mafiosa e di altri gravi delitti e chi al momento della sentenza si trovava in carcere in custodia cautelare. Delle forme alternative alla detenzione, l’affidamento in prova al servizio sociale (art. 2) è ottenibile con maggior facilità; per i condannati non è più necessario un periodo di custodia cautelare e di libertà per dimostrare la propria idoneità, evitando così l’osservazione in istituto. L’affidamento, inoltre, può essere concesso anche dopo l’inizio dell’esecuzione della pena. Per quanto riguarda la detenzione domiciliare (art. 4) sono state riviste alcune condizioni e alcune categorie di individui che ne possono beneficiare: è sostitutiva di pene fino a 4 anni (non più 2) e, tra le categorie che ne possono usufruire ci sono ora, oltre alle madri, anche i padri esercenti la patria potestà sui figli minori di dieci anni se manca la madre. Al di fuori delle categorie previste, può usufruire della detenzione domiciliare anche chi sta già scontando una pena, se non risulti idoneo al servizio sociale e purché la pena che deve scontare non sia superiore a 2 anni. Infine, l’ottenimento dell’ammissione alla semilibertà (art. 5), è stato facilitato a coloro cui "mancano i presupposti per l’affidamento in prova ai servizi sociali" e, inoltre, può essere concesso successivamente all’inizio dell’esecuzione della pena.

 

Art. 2 - Affidamento in prova al servizio sociale

 

1. Il comma 3 dell’articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

"3. L’affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto senza procedere all’osservazione in istituto quando il condannato, dopo la commissione del reato, ha serbato comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2".

2. Il comma 4 dell’articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:

"4. Se l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale è proposta dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, il magistrato di sorveglianza competente in relazione al luogo dell’esecuzione, cui l’istanza deve essere rivolta, può sospendere l’esecuzione della pena e ordinare la liberazione dei condannato, quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova e al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione e non vi sia pericolo di fuga. La sospensione dell’esecuzione della pena opera sino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il magistrato di sorveglianza trasmette immediatamente gli atti, e che decide entro quarantacinque giorni. Se l’istanza non è accolta, riprende l’esecuzione della pena, e non può essere accordata altra sospensione, quale che sia l’istanza successivamente proposta".

 

Art. 4 - Detenzione domiciliare

 

1. All’articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dai seguenti:

"1. La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché la pena dell’arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza, quando trattasi di:

a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci, con lei convivente;

b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

c) persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;

d) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;

e) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia.

1-bis. La detenzione domiciliare può essere applicata per l’espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all’articolo 4-bis.

1-ter. Quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale, il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare, stabilendo un termine di durata di tale applicazione, termine che può essere prorogato.

L’esecuzione della pena prosegue durante la esecuzione della detenzione domiciliare.

1-quater. Se l’istanza di applicazione della detenzione domiciliare è proposta dopo che ha avuto inizio l’esecuzione della pena, il magistrato di sorveglianza cui la domanda deve essere rivolta può disporre l’applicazione provvisoria della misura, quando ricorrono i requisiti di cui ai commi 1 e 1-bis. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 47, comma 4;

b) il comma 3 è abrogato;

c) al comma 4, le parole: "dal secondo comma dell’articolo 254-quater del codice di procedura penale. Si applica il quinto comma dei medesimo articolo", sono sostituite dalle seguenti: "dall’articolo 284 del codice di procedura penale";

d) al comma 7, le parole: "nel commi 1" sono sostituite dalle seguenti: "nei commi 1 e 1-bis;

e) dopo il comma 9 è aggiunto il seguente:

"9-bis. Se la misura di cui al comma 1-bis è revocata ai sensi dei commi precedenti la pena residua non può essere sostituita con altra misura".

 

Art. 5 - Ammissione alla semilibertà

 

1. All’articolo 50 della legge 26 luglio 1975, n° 354, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) al comma 2, terzo periodo, le parole: "se i risultati dell’osservazione di cui al comma 2 dello stesso articolo non legittimano l’affidamento in prova al servizio sociale ma possono essere valutati favorevolmente in base ai criteri indicati dal comma 4 dei presente articolo" sono sostituite dalle seguenti: "se mancano i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale";

b) il comma 6 è sostituito dal seguente:

"6. Nei casi previsti dal comma 1, se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale, la semi-libertà può essere altresì disposta successivamente all’inizio dell’esecuzione della pena. Si applica l’articolo 47,comma 4, in quanto compatibile".

 

Dalle due tabelle riportate qui di seguito (ricavate da un articolo di Antonietta Pedrinazzi, Direttore Coordinatore di Servizio Sociale, in servizio presso il CSSA - Centro di Servizio Sociale per Adulti - di Milano), si può osservare che nel corso degli anni c’è stato un incremento notevole (circa il 30%) dei soggetti che hanno potuto beneficiare delle misure alternative. Si tratta di un’utenza varia, formata da un insieme di soggetti disomogeneo per tipologia di reati, di percorsi devianti, per livello di istruzione, curriculum formativo-professionale e ambiente di provenienza.

 

Benefici concessi alla popolazione detenuta - Situazione a livello nazionale

 

Anno

 

1991

1995

1999

Totale detenuti

104.068

141.491

135.679

Ammissione al lavoro esterno

244

556

850

Affidamento in prova al servizio sociale

3.988

12.760

22.616

Semilibertà

 

2.292

3.018

2.533

Permessi premio

9.863

13.540

11.921

Totale beneficiari

16.387

29.874

37.920

 

Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

 

Misure alternative: situazione a livello nazionale nel 1° semestre 2001.

Casi seguiti per tipologia e per età

 

Classi d’età

18-29

30-39

40-49

da 49

in su

n°r.

Totale

 

 

 

 

 

 

 

Affidamento in prova

 

 

 

 

 

 

Tossicodipendenti dalla libertà

706

2.522

857

126

3

4.214

Tossicodipendenti dalla detenzione

258

682

222

37

1

1.200

Dalla detenzione

363

929

745

612

1

2.650

Dalla libertà

1.268

3.563

2.999

3.740

12

11.582

Militari

192

16

3

2

0

213

Totale

2.787

7.712

4.826

4.517

17

19.859

 

 

 

 

 

 

 

Semilibertà

 

 

 

 

 

 

Dalla detenzione

250

829

825

532

2

2.438

Dalla libertà

40

125

96

56

0

317

Totale

290

954

921

588

2

2.755

 

 

 

 

 

 

 

Detenzione domiciliare

 

 

 

 

 

 

Dal carcere

332

809

556

696

1

2.394

In libertà

616

1.438

1.143

1.599

3

4.799

Provvisoria

240

374

230

210

1

1.055

Totale

1.188

2.612

1.929

2.505

5

8.248

 

Fonte: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

 

Bisogna però considerare anche alcuni aspetti di criticità delle misure alternative. In primo luogo, il lungo intervallo che intercorre tra la domanda e la concessione della misura: può trattarsi a volte anche di anni e, allorché viene concessa, la misura può concorrere a creare uno squilibrio nella persona che nel frattempo può aver cambiato stile di vita.

Un secondo nodo critico è costituito dal fatto che coloro che sono in attesa della concessione della misura alternativa si trovano in uno "stato di limbo" molto pericoloso, in quanto non sono ancora obbligati ad aderire ad un programma e non hanno delle prescrizioni di comportamento da rispettare.

Un ulteriore rilievo critico riguarda i programmi terapeutici per i soggetti tossicodipendenti, programmi che spesso non sono personalizzati e calibrati sulla singola persona, e perciò risultano, alla prova dei fatti, poco efficaci.

 

La legge 40/2001: la Legge Finocchiaro

 

Nel quadro delle riforme all’ordinamento penitenziario, un ruolo fondamentale spetta alla legge Finocchiaro che aggiunge un altro tassello al processo di decarcerzzazione riguardante determinate categorie di persone, le cui condizioni personali risultano obiettivamente incompatibili con la sottoposizione al regime detentivo in carcere, e in particolare le detenute madri - a cui vengono equiparati i padri in determinati casi - al fine evidente di assicurare una più adeguata tutela del rapporto con la prole ed impedire, nel preminente interesse del minore, le conseguenze negative che la vita in carcere inevitabilmente porta con sé.

Dopo un iter durato quasi 4 anni (il disegno di legge era stato presentato per la prima volta alla camera nel 1997) è stato definitivamente approvato, in una data decisamente significativa, l’8 marzo 2001, il testo della legge sulle detenute madri che riprende la legge Simeone - Saraceni che già aveva portato significative modifiche in questo ambito. Si tratta di un provvedimento ispirato soprattutto dalla consapevolezza che l’attuale contesto normativo appare del tutto inadeguato e che, più in generale, la maternità e l’infanzia non appaiono come beni che possono essere adeguatamente tutelati tra le mura di un carcere. Con questa nuova legge (che nel prossimo capitolo sarà dettagliatamente esaminata), si intende quindi evitare che a "detenute-madri" si aggiungano "detenuti-bambini": l’ingresso in carcere dell’infante, volto a non interrompere la forte ed insostituibile relazione con la madre, non solo non è apparso risolutivo del problema, poiché comunque non fa che differire il distacco dalla madre, rendendolo semmai ancor più traumatico, ma è addirittura dannoso per lo sviluppo psicofisico del bambino, il quale viene incolpevolmente a trovarsi collocato in un ambiente punitivo, povero di stimoli e connotato dalla privazione di autorevolezza della figura genitoriale.

La legge vuole dare piena ed effettiva attuazione alla protezione apprestata alla maternità e all’infanzia dall’articolo 31 della Costituzione Italiana, intervenendo sia sugli istituti penalistici già contemplati relativi alla sospensione della pena (ampliandone l’operatività), sia sull’ordinamento penitenziario, proponendo due nuove misure alternative, la detenzione domiciliare speciale e l’assistenza all’esterno di figli minori. Le nuove norme si applicano alle donne che per i reati commessi non hanno diritto agli arresti domiciliari, e nel caso che comunque dovessero scontare la pena in carcere, è prevista la possibilità di passare qualche ora in casa per assistere i figli, seguendo le stesse regole che valgono per i detenuti che lavorano fuori dal carcere.

In breve sintesi sono state apportate delle modifiche ai presupposti di ammissibilità degli istituti già esistenti e sono state introdotte le due nuove figure di cui si è parlato e di cui si parlerà nel prossimo capitolo.

Nessun cambiamento, invece, ha investito la disciplina della custodia cautelare in carcere, che rimane preclusa per le sole madri con prole di età inferiore ai tre anni, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. Attualmente, quindi, il quadro normativo, già sufficientemente frastagliato per la detenzione domiciliare e in generale per le altre misure alternative, si presenta ancor più di difficile lettura, così da mettere oramai in discussione l’utilità di una previsione dettagliata di diversi limiti applicativi, nel nome di una certezza della pena - propugnata dalla gran parte della dottrina - che contrasta in maniera evidente con le esigenze di reinserimento del reo.

Tutto questo risulta tanto più evidente ove solo si consideri che, proprio nel caso della detenzione domiciliare per le detenute madri, la concessione della misura può dipendere da un parametro, quale quello dell’età della prole, che non ha un valore assoluto né può essere considerato determinante in ordine alle concrete esigenze di protezione dei minori e della tutela del rapporto di filiazione.

Sebbene un divieto alla detenzione delle donne incinte o con figli minori di tre anni fosse già stato espresso dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa di Strasburgo (dove furono proposte misure alternative alla detenzione per pene inferiori a dieci anni, quali il lavoro socialmente utile o il braccialetto elettronico), sono stati necessari quattro anni affinché le norme contenute nel disegno di legge fossero approvate.

 

Chi riguarda la nuova legge?

 

Come si può osservare nella tabella riportata qui di seguito, nel 1975 erano "ristretti" nelle carceri italiane 125 bambini rispetto ai 63 presenti al 31 dicembre 2001. Questa diminuzione, irregolare ma progressiva nel corso degli anni – anche se con un rinnovato incremento negli anni 1999 e 2000 – testimonia la crescente attenzione della giustizia alla tutela penale dell’individuo e al dramma delle madri detenute, dramma che non può risolversi né tenendo presso di sé i propri figli né affidandoli ad altri al di fuori dell’istituto penitenziario e vedendoli per poche ore al mese.

 

Bambini conviventi con la madre in carcere al 31 dicembre 2001 

Anno

Numero bambini

Anno

Numero bambini

1975

125

1985

43

1976

234

1986

57

1977

123

1987

43

1978

156

1988

38

1979

228

1989

33

1980

137

1991

29

1981

159

1995

31

1982

141

1999

60

1983

128

2000

78

1984

172

2001

63

 

Fonte: Elaborazione Eurispes su dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria

 

La legge Finocchiaro, di recente approvazione e di ancora non frequente applicazione, non ci consente, purtroppo, di conoscere la situazione attuale delle 61 donne e dei loro 63 figli, reclusi alla fine del 2001 (sono gli ultimi dati di cui siamo in possesso). Non è infatti ancora stato effettuato un monitoraggio completo – e visibile – da parte dell’amministrazione penitenziaria su tempi e applicazione della nuova normativa.

Il provvedimento quindi, in base ai dati di cui disponiamo, poteva riguardare appena 61 donne, più le 15 in stato di gravidanza, rispetto alle 2.369 presenze femminili (al 31 Dicembre 2001). Questo perché le madri giungono ad una soluzione tanto drastica solo se costrette da un’assoluta mancanza di alternative: se prive di sostegno familiare o sociale esterno o di una valida alternativa all’istituto.

Se si guarda infatti alla composizione della popolazione carceraria femminile, si nota come questa sia composta per più di un terzo da donne immigrate, che spesso conoscono pochissimo la nostra lingua e non hanno all’esterno una qualche rete sociale e familiare di riferimento; nonché, per un’altra parte altrettanto consistente da tossicodipendenti con, alle spalle, vicende affettive spesso interrotte.

 

Detenuti presenti, tossicodipendenti e stranieri secondo il genere

(dati relativi al 31 dicembre 2001)

Genere

Presenti in totale

Di cui tossicodipendenti

Di cui stranieri

Uomini

52.906

14.717

15.292

Donne

2.369

725

1.002

Totale

55.275

15.445

16.294

 

Fonte: Elaborazione Eurispes su dati del Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria

 

In realtà, la drammatica esperienza di una "maternità interrotta" riguarda la metà delle detenute; il 50% delle carcerate ha figli; mediamente l’80% di esse ne ha fino a tre, per arrivare a quattro – o più – nelle regioni meridionali; in Campania e in Sicilia questo valore raggiunge il 20% del totale delle donne detenute (dati al 31 Dicembre 2001).

Altri dati significativi ci sembrano quelli relativi al numero di detenute rispetto al totale della popolazione carceraria, alla tipologia dei reati commessi e alla durata media delle condanne a carico delle donne. Al 31 Dicembre 2001 la percentuale delle presenze femminili sul totale della popolazione era poco più del 4%, esattamente 2.369 donne rispetto ai 2.886 posti previsti e contro le 52.906 presenze maschili. Inoltre le donne sono tendenzialmente condannate a pene della durata media piuttosto bassa (le condanne si concentrano prevalentemente nelle fasce tra 3 e 5 anni e tra 1 e 3 anni).

Gabriella Straffi, intervistata dalle detenute della Giudecca riguardo alla futura applicazione della legge Finocchiaro al tempo della sua emanazione, si dichiarava poco ottimista, dicendo che, a suo parere, con la nuova legge non sarebbe cambiato nulla o quasi. "Per prima cosa - affermava - le novità legislative riguardano principalmente le condannate. Seconda cosa, le donne che entrano a Venezia sono donne senza fissa dimora, donne per le quali il reato non grave è diventato la loro professione. Per la nomade il furto non è considerato reato, ma una normale attività per sopravvivere. Quindi una persona che ha tante ricadute è difficile che potrà avere dal Tribunale di Sorveglianza una valutazione che possa dire "non commetterà più questo reato". E poi si tratta per lo più di donne in attesa di giudizio, e spesso anche in stato interessante.(…) Mi sembra pure che in certi casi la cosa sia un po’ strumentalizzata, purtroppo, perché l’unica possibilità per loro è avere la sospensione obbligatoria della pena (…) e questo mi sembra particolarmente grave".

G. Straffi commentava anche il caso di una donna detenuta al nono mese di gravidanza che stava per avere il suo bambino e che era stata per questo portata in ospedale; il Magistrato di Sorveglianza (che era una donna), dichiarò che "era inaccettabile lasciare gli agenti di piantonamento al momento del parto" e ordinò di togliere il piantonamento. La donna scappò dopo un’ora. La donna, commenta la Straffi, non era neppure in grado di valutare in modo consapevole che avrebbe avuto in ogni caso la sospensione della pena; la cultura nomade è completamente diversa dalla nostra e una legge come la legge Finocchiaro difficilmente potrà essere applicata a questo tipo di donne. "Può venire applicata - aggiungeva la Straffi - a chi ha una posizione tranquilla, è al primo reato e verosimilmente non ne farà altri. Però, in questa realtà, di persone in queste condizioni ne ho viste veramente pochissime".

Anche una ex-detenuta della Giudecca, Giuliana, per la sua personale esperienza, riteneva che difficilmente la nuova legge risolverà il problema dei bambini in carcere. Nella sezione nido di Venezia nel 2002, c’erano "rinchiuse" 8 mamme con 7 bambini; "tre delle madri presenti - commentava Giuliana - avevano ottenuto il beneficio della detenzione domiciliare, concesso grazie alla legge Simeone, ma sono nuovamente rinchiuse perché non hanno rispettato l’obbligo e sono evase. Un’altra detenuta non è ancora definitiva, per cui non può ottenere al momento nessun beneficio e la richiesta degli arresti domiciliari le è stata respinta. Un’altra, con una figlia che compirà tre anni tra due mesi e che praticamente è cresciuta in carcere (è dentro con la madre da quando aveva venti giorni), non ha beneficiato neppure della legge Simeone in quanto dichiarata estremamente pericolosa (cioè con troppi precedenti penali). Infine, due detenute madri sono qui da poco e aspettano la Camera di Consiglio, il cui esito dipenderà da quanti precedenti penali hanno (…). I mass media hanno dato la notizia del varo della nuova legge con i soliti titoli ad effetto, del tipo "Mai più bambini in carcere": speriamo che ciò non provochi invece nuove entrate di bambini. Da quando c’è la legge, a Venezia ne sono già entrati quattro…"

Anche Lucia Zainaghi commentava delusa alla fine del 2001, dopo nove mesi dall’approvazione della legge, "mi aspettavo di più": a Roma non è cambiato niente, anzi lei si è trovata addirittura costretta, cosa che non era mai accaduta in passato, a ricorrere allo sfollamento del nido, dove c’erano trenta bambini quando ne poteva ospitare solo dodici. E così, mamme e figli piccoli di troppo, sono stati trasferiti in altri istituti. Un’operazione rispetto alla quale la nuova legge non ha potuto nulla, perché, come sottolineava la Straffi, riguarda solo le donne che stanno scontando una condanna definitiva e quindi appena la metà sul totale delle recluse.

La stessa Finocchiaro, ad un anno e mezzo dal varo del provvedimento, ha riscontrato risultati piuttosto deludenti, tanto da indurla, insieme ad altri deputati, a presentare un’interrogazione in cui si evidenzia che "la legge risulta pressoché inapplicata, mentre sale il numero dei bambini d’età inferiore a tre anni detenuti in carcere insieme alle madri" e si chiede "quali iniziative il Governo abbia già adottato o intenda adottare per ovviare alle difficoltà di applicazione della nuova disciplina".

Le motivazioni che sembrano, a chi lavora a stretto contatto con il carcere, rendere il testo di legge di difficile applicazione, stanno nell’ampia discrezionalità sui criteri e le modalità di attuazione che il provvedimento affida alla Magistratura di Sorveglianza, alla non sufficiente rete di strutture per accogliere donne che possono usufruire della detenzione domiciliare speciale ed al fatto che la legge non è applicabile in assenza di domicilio; quest’ultimo caso vale soprattutto per le straniere che, come sottolineeremo poi, sono prive di abitazione e di appoggi parentali.

 

 

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