L'O.P.G. di Castiglione delle Stiviere

 

L’apparente serenità delle detenute di Desenzano

 

L’Unità, 27 giugno 2002

 

Castiglione delle Stiviere - Un dipinto. Si chiama "l’albero della malignità". Il tronco è quello di una figura femminile, di una madre, i rami si allargano come braccia che cercano di stringere qualcosa che non c’è. "La tela l’ha dipinta una reclusa - spiega Luciana, maestra nell’atelier di pittura - lei ha definito quel tronco come il suo corpo". "Si, quel corpo è il mio corpo". Aggiunge la pittrice. È una bella donna mora, elegante ed affabile nel parlare.

"I have a dream", il motto di Martin Luther King risalta sulla parete dello studio medico di Giuseppe Gradante, primario della sezione femminile dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Entrando non è facile restare indifferenti.

A Castiglione, con manicomi e follia, hanno convissuto per anni: "Nel centro del paese - raccontano gli abitanti - sentivamo le urla tanti anni fa, quando il manicomio era ancora qui, bastava camminare e li sentivi urlare". Ora solo otto chilometri separano la piccola stazione ferroviaria di Desenzano dal nuovo ospedale psichiatrico giudiziario, unico in Italia con un reparto femminile.

Ma qui non si sentono urla, è l’apparente normalità ciò che stupisce. La struttura ospita 80 recluse, distinte tra detenute e internate, sorvegliate solo da personale sanitario. La maggioranza di loro è stata giudicata incapace di intendere e volere.

Rispetto al reato commesso inoltre sono state ritenute socialmente pericolose, sottoposte quindi a misure di sicurezza. L’internamento nell’ospedale varia dai due ai dieci anni. Tra queste donne, oltre il 50% ha ucciso o tentato di uccidere un familiare. E quasi un terzo di loro si è macchiata del delitto atroce che le etichetta come "figlicide".

Le madri recluse nella struttura sono 14 e le statistiche mediche parlano di un’età media di 35 anni. Madri che hanno ucciso i loro piccoli: bambini in genere tra i due e i sei anni.

"Non si può pensare che la popolazione delle pazienti dia a prima vista l’idea dell’anormalità". Michele Schiavon, psichiatra e direttore dell’ospedale così commenta: "Ci sono piccoli aspetti, indizi, da cogliere momento per momento". Esiste la possibilità di capire, di indicare qual è il limite esatto di quest’apparente normalità?

"Il fulmine a ciel sereno nei comportamenti - spiega Schiavon - significa che non si è prestata molta attenzione alla persona". L’ospedale è circondato di verde, nel campo da tennis interno si sta svolgendo un torneo. Una giovane ragazza si avvicina. Paola (il nome è di fantasia) è carina, è allegra, saluta e racconta alcune fasi del torneo. Il suo atteggiamento è garbato, verrebbe da dire normale.

Paola non ha nessun disturbo evidente, dice che voleva diventare estetista, come tante ragazze di periferia che sognano un lavoro che abbia a che fare con la bellezza. Poi arrivano le parole che suonano come una vera doccia fredda. Paola è reclusa qui da qualche anno. Da quando cioè dalla sua apparente normalità è emersa una patologia mentale latente e gravissima, che l’ha spinta a commettere un omicidio. Nell’ospedale le recluse possono lavorare e dedicarsi a corsi di informatica, di sartoria, di restauro e pittura. Tutto fa parte dei programmi terapeutici di un percorso che in gergo i medici definiscono di compensazione. Le cure psichiatriche vengono associate a queste attività durante il periodo di detenzione. Tra i lavori delle donne ci anche quelle tele dipinte a mano. "Il delitto ha sempre a che fare con il vissuto e con l’intensità delle relazioni", dice Giuseppe Gradante, primario del reparto femminile. "I segnali ci sono. Anche se noi le vediamo quando il reato lo hanno già commesso e alcune si difendono, non ammettono inconsciamente di aver compiuto un gesto così terrificante, altre invece sono consapevoli".

Spesso queste donne sono sopraffatte da un’angoscia che le stringe come una morsa: e allora piangono e si chiedono come possono aver fatto ciò che hanno fatto. Secondo Massimo Fagioli, docente di psicologia clinica all’Università di Chieti, la chiave per comprendere il sintomo più grave della follia che esplode con l’omicidio e il figlicidio, sta nella "anaffettività" dei soggetti. 

Nell’ospedale dove si curano le mamme assassine

 

L’Unità, 27 giugno 2002

 

"Sì stasera le mie pazienti guarderanno la televisione e sapranno quello che è accaduto in Val d’Aosta. Nessuna censura. Sappiamo come aiutarle". Quelle che il dottor Michele Schiavon chiama pazienti sono 14 donne che hanno ammazzato un figlio. L’ospedale psichiatrico giudiziario della Ghisiola, ad una decina di chilometri dal lago di Garda, è l’unica struttura in Italia che le accoglie. Perché d’accoglienza e non di ricovero bisogna parlare in questi padiglioni immersi nel verde e nel silenzio, lontani da tutto e da tutti, in cui gli ospiti (guai a chiamarli detenuti) possono fare teatro, dipingere, allenarsi in palestra, tuffarsi in piscina, allenarsi a tennis, giocare a bocce, usare il computer.

Una volta si chiamava manicomio criminale, ora è un centro clinico. E quello di Castiglione ha un’altra caratteristica unica in Italia: non dipende dal ministero della Giustizia ma da quello della Sanità. Gli 11 medici e i 140 infermieri dipendono dall’Azienda ospedaliera Carlo Poma di Mantova. Con gli assistenti sociali fanno quasi 200 operatori, incaricati di ridare un senso alla vita di altrettante persone.

All’ospedale di Castiglione si arriva per pronunciamento di un magistrato: non è necessaria una sentenza di condanna, basta una misura provvisoria in base alla pericolosità sociale. Nella sezione femminile ci sono 78 donne, età media sulla quarantina. Hanno alle spalle azioni orribili. E quattordici, tra le più giovani, hanno ucciso i loro bambini.

La barista dell’ospedale è alla Ghisiola da due anni. Si era persuasa che il marito volesse abusare del figlioletto di tre anni e per sottrarre il piccolo agli abusi immaginari l’ha soffocato. Ma qui nessuno la giudica. "Alcune pazienti ricordano ciò che hanno commesso, altre hanno completamente rimosso - spiega Schiavon -, tutte però sono infastidite quando si riaccendono i riflettori su di loro. Magari inconsciamente, si sentono in causa. Nel loro intimo si riapre una ferita che poi ognuna elabora come può, chi rimuove, chi invece attualizza. Ma gli psicoterapeuti le conoscono una per una e sanno come aiutarle".

Un percorso tortuoso che è fatto di sostegno psicologico e terapie farmacologiche. Bisogna curare la depressione che quasi sempre è detonatore di una miscela fatta di personalità fragili e sensi di colpa che esplodono spesso senza dare alcun segnale premonitore. La struttura non è oppressiva. Niente guardie carcerarie all’ingresso della Ghisiola: i secondini non sono necessari, in caso di crisi ci pensano gli operatori.

Sbarre alzate a ogni visitatore, una porta a vetri per entrare in portineria. Le inferriate che circondano il vastissimo parco disseminato di panchine sono nascoste dal rigoglio delle piante. Un’oasi di serenità e pace, almeno all’apparenza. Le sezioni femminili hanno vasi di fiori: rosa, mimosa, edera, fiordaliso. Non di donne in celle ma in normalissime stanze che hanno sulla porta il nome di chi la occupa. C’è la stireria, per chi ama ritrovarsi nelle faccende di casa, una cucina è a disposizione di chi non sa rinunciare alle pignatte.

La terapia del lavoro ha un’importanza basilare, per superare la prostrazione e allontanare il baratro del suicidio, al quale è pressoché impossibile non pensare. S’impara il rapporto con le cose. Gli attrezzi, i materiali, tutto ciò che è esterno da sé. Si riprende contatto con la realtà. C’è la barista, la bibliotecaria. C’è l’atelier di pittura organizzato dall’artista bresciana Silvana Crescini e c’è il laboratorio teatrale: un aiuto ad uscire dall’isolamento a respirare un sentore di libertà espressiva.

Due volte al mese si può ordinare un hamburger al Mc Donald’s, una pizza e coca o chiamare il take away cinese poco distante.

Con il tempo si possono ottenere licenze per uscire dalla Ghisiola e andare in paese, a Castiglione, per fare la spesa o frequentare qualche corso professionale per il quale l’ospedale ha un accordo con l’Enaip. È un lento ma progressivo avvicinamento ad una vita quasi normale. La vera libertà, oltre che per il lavoro, transita di solito per qualche comunità protetta. Gli operatori vogliono seguire le donne il maggior tempo possibile. Poi c’è l’altra fase, forse ancora più difficile: il contatto con la famiglia. Sempre che ci sia stato un marito disposto a perdonare. Ma le cifre dicono che la ricomposizione degli affetti è evento rarissimo.

Gli incontri con gli psichiatri e gli assistenti sociali hanno scadenze fisse. I farmaci servono soprattutto a curare la depressione, e secondo gli operatori convincere le donne che la depressione ha cause organiche e guaribili è l’inizio della terapia.

E c’è la vita quotidiana, fatta di urli e scontri con le altre donne, che può aiutare a ricordare, a rendersi conto. Nascono amicizie importanti, solidarietà cementate dallo sforzo di superare quel senso d’inadeguatezza e incapacità a svolgere il mestiere di mamma che l’altro giorno è rabbiosamente esploso in Val d’Aosta.

 

 

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