Le detenute e i loro bambini

 

Le detenute e i bambini del carcere di Bellizzi

di G. Santoro (Associazione Antigone)

 

Ma le detenute godono degli stessi diritti dei detenuti? Una domanda del genere potrebbe apparire superflua e dalla risposta scontata. Da un’analisi che va oltre le apparenze, al contrario, possiamo affermare che le donne nelle carceri italiane sono discriminate. Proviamo a capire perché.

Il primo dato che colpisce parlando di donne e criminalità è rappresentato dal basso numero di reati commesso dalle stesse rispetto agli uomini e la conseguente minor presenza femminile negli istituti di pena - al 31 dicembre 2005, rappresentano il 4,7% della intera popolazione carceraria, costituita complessivamente da circa 60000 persone).

In presenza di questi dati si deve registrare una tendenza delle istituzioni, ma anche degli studiosi, a trascurare un ambito - la detenzione femminile - che non sembra suscitare particolare allarme sociale. Poiché costituita da poche donne questa è di fatto considerata alla stregua di una mera tematica aggiuntiva, secondaria, di cui è facile sottovalutare e ignorare la specificità.

Le carceri italiane esclusivamente femminili sono sette (Trani, Pozzuoli, Rebibbia, Perugia, Empoli, Genova e Venezia), ma in esse è recluso meno di un terzo del totale. Tutte le altre, il 65,5%, sono disperse in 62 piccole sezioni femminili di carceri maschili, dove possono trovarsi anche meno di dieci donne.

Ad Avellino, in occasione della visita effettuata dall’associazione Antigone in data 14 maggio 2005, abbiamo potuto riscontrare che su una popolazione complessiva di 378 detenuti, 28 sono le detenute ristrette in una piccola sezione distaccata.

Ora, considerando la ristrettezza dei fondi destinati alle attività trattamentali finalizzate al reinserimento sociale dei/lle detenuti/e (istruzione, formazione professionale etc.) è intuibile che la maggior parte degli stessi sono destinati ai reclusi piuttosto che alle recluse.

Avviene così, ad es., che mentre nella sezione maschile sono presenti la scuola elementare, media e geometra, al femminile è possibile frequentare la sola scuola elementare; ancora, mentre al maschile si svolge un corso di teatro, uno di filosofia e vi è una biblioteca, al femminile non si svolge nessuna attività significativa e lo spazio adibito a biblioteca non ha neanche un libro. Lo stesso discorso si ripropone a proposito delle attività di formazione professionale: mentre al maschile è possibile frequentare corsi di fotografia, elettricista, decoro d’ambiente, confezioni abiti da lavoro, termo - idraulica, tappezzeria-falegnameria, ceramica, sartoria, gli unici corsi presenti al femminile sono rappresentati da maglierista e confezionista.

Per altro verso, non bisogna infine trascurare la peculiarità dell’essere donna, ad es., per ciò che attiene alle esigenze igieniche e sanitarie - ad es., necessità di visite specialistiche diverse da quelle richieste ed espletabili negli istituti maschili.

A quest’ultimo proposito bisogna ricordare che nel carcere di Avellino uno dei problemi maggiori riscontrati è rappresentato proprio dal fatto che per i ricoveri ordinari nei Centri medici dell’Amministrazione esterni si può aspettare anche 6 mesi.

Tale stato dell’arte, lungi dall’essere una peculiarità avellinese, caratterizza l’intero contesto nazionale, proprio a causa del numero limitato delle detenute e della loro dispersione in 62 mini sezioni (che possono ospitare anche solo 2 detenute) ubicate in strutture maschili.

Nelle carceri invece destinate esclusivamente alle detenute notiamo che - per motivi diametralmente opposti, ossia a causa del sovraffollamento- avviene ugualmente che le attività trattamentali finalizzate al reinserimento sociale delle detenute risultano essere insufficienti.

Prendiamo il caso di un altro istituto di pena campano, il carcere di Pozzuoli, dove su una capienza regolamentare di 90 detenute sono presenti in media 180 ristrette(sic!): in questo carcere i problemi maggiori sono costituiti evidentemente dalla mancanza di condizioni di vita minime - ed accettabili in un paese che ama definirsi democratico - piuttosto che dalla assenza di attività trattamentali significative..

Per avere un’idea di cosa significhi un istituto femminile sovraffollato, riporto la denuncia del del garante dei diritti dei detenuti del Comune di Roma che riguarda donne e bambini detenuti nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia femminile. "Quattro madri in attesa di giudizio definitivo, quattro bambini e un’altra detenuta dividono qui la stessa cella; di giorno, per ricavare un po’ di spazio per passare, i lettini dei bambini vengono spostati nel corridoio della sezione, la sera, anche quel minimo spazio scompare, si diventa in troppi, l’ansia e la promiscuità crescono e i bambini le subiscono". I bambini in carcere!?

Sì, anche i bambini sono in carcere, e a Bellizzi in media ce ne sono 8. La legge 40 del 2001 ha cercato di arginare tale aberrazione riuscendovi solo in parte: ogni anno in media negli istituti di pena italiani vi sono una sessantina di piccoli innocenti insieme le loro madri e, in ipotesi eccezionali, anche donne incinta.

La legge sopra menzionata permette di ottenere il differimento obbligatorio della pena (o la detenzione domiciliare) per le condannate definitive in stato interessante o con prole di età inferiore ad un anno; il differimento facoltativo (o la detenzione domiciliare) per le definitive con prole fino ai 3 anni.

Per le detenute in attesa di giudizio definitivo (oltre il 40% delle ristrette) non vale tale regola e il tutto è rimesso alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria.

E in questo caso si realizza una discriminazione nella discriminazione, ovvero le detenute più discriminate sono le straniere: infatti per le stesse sarà più difficile, se non impossibile, trovare un sostegno nel mondo esterno (in primis, una casa e un lavoro) tale da poter far ritenere al giudice procedente che non sussistano gravi indizi di possibile reiterazione del reato, o il pericolo di fuga; tali motivazioni, impedendo la concessione della detenzione domiciliare, comportano l’obbligo di trattenere in carcere per motivi cautelari anche chi ha commesso reati di lievissima entità e di scarso disvalore sociale (ad es., furto in un supermercato).

Così più della metà dei bambini in carcere, ad Avellino come nel resto d’Italia, e tutte (o quasi) le donne incinta in carcere sono straniere.

Partendo da tali considerazioni le associazioni Antigone e Zia Lidia Social Club e il gruppo musicale Lumanera hanno cercato, con diverse iniziative, di sensibilizzare l’opinione pubblica irpina sul tema dei bambini in carcere e sulla peculiarità della detenzione femminile (specie delle detenute madri e/o straniere).

Per altro verso, anche grazie alla disponibilità della direzione dell’istituto irpino, si è riusciti a portare nel reparto femminile del carcere spettacoli di animazione e musicali per i piccoli ristretti e le loro madri.

Quel che abbiamo potuto riscontrare in occasione dei nostri sporadici ingressi in istituto è che, nonostante la presenza di un nido spazioso e ben attrezzato all’interno della sezione, l’impegno enorme profuso da parte della direzione, del personale penitenziario e di alcune associazioni che costantemente operano nella sezione femminile, la detenzione per i bambini può essere un dramma irreparabile, che necessita principalmente di interventi sul piano legislativo nazionale, come ad es., la previsione e la creazione di case famiglie destinate alle detenute madri che possano impedire la detenzione di piccoli innocenti, costretti a vivere vedendo il cielo a scacchi, dietro le sbarre di una prigione. Cosa possono fare la nostra comunità e le nostre istituzioni locali?

Quel che è possibile fare subito, sul piano locale, è creare una convenzione tra enti locali, direzione dell’istituto e associazionismo interessato che permetta di portare i bambini fuori dall’istituto almeno una volta a settimana, per non far dimenticare ai piccoli ristretti cosa è la vita fuori dalle mura e dalle celle, per fargli scoprire (o per non fargli dimenticare) cosa è la montagna, il mare, o più semplicemente il corso, il traffico o il mercato di Avellino. Non bisogna dimenticare, infatti, che in altre città italiane ciò già avviene. Da un lavoro intitolato Donne in prigione - curato da Laura Astarita e Marina Graziosi e pubblicato su "Antigone in carcere", a cura di G. Moscone e C. Sarzotti, Carocci Editore 2004 - risulta infatti che nella città di Roma esiste una convenzione con il Comune capitolino grazie alla quale ogni mattina i figli delle detenute che acconsentono, vengono portati agli asili nido presenti nel territorio.

"Questo carcere, inoltre, beneficia dell’attività di una intensa rete di volontariato, tra cui i volontari dell’Associazione "A Roma insieme", che ogni sabato accompagnano i bambini in giro per la città, in gita, al mare o in montagna, offrendo loro una giornata di "vita fuori", di "normalità": la libertà di movimento, la luce del sole, del verde, niente celle che si chiudono, relazioni umane che non siano sempre e solo con le stesse detenute e le stesse agenti di polizia."

Anche a Torino è stata stilata una convenzione con il Comune, grazie alla quale i bambini, 3 volte la settimana, frequentano gli asili nido comunali; in più, una volta la settimana, le educatrici dei nido esterni possono entrare in carcere.

L’esistenza di convenzioni con gli enti locali per poter far frequentare gli asili nido esterni è stata riscontrata anche nelle città di Firenze, Perugia e Venezia.

"Nel carcere di Firenze è stato avviato un progetto con il Consultorio del territorio in cui si trova l’istituto, a tutela della salute delle donne e dei bambini. Grazie a tale iniziativa, ogni bambino ha un medico pediatra che lo segue, scelto dalla mamma tra 5-6 pediatri di riferimento, che si reca in carcere ogni settimana.

Inoltre, la direzione sta cercando di rendere più agevole la comunicazione tra la mamma e il medico, di eliminare gli intermediari, nell’ottica di rendere la chiamata un effettivo primo momento di accoglienza della donna, una sorta di valvola di sfogo che possa servire a un primo calo della tensione e a verificare l’urgenza e l’importanza del problema segnalato.

I bambini vengono anche portati, se possibile con le madri, al Consultorio per le vaccinazioni; sono, in pratica, presi in carico completamente dalla ASL.

Il Consultorio funziona anche per le altre donne, con un servizio di educazione sanitaria, di assistenza ginecologica, di ostetricia."

Da questa breve analisi comparativa con altre città italiane, possiamo giungere alla conclusione che ad Avellino i piccoli innocenti in carcere sono discriminati rispetto ai bambini presenti in altre strutture, perché non hanno la possibilità di accedere al mondo esterno.

Quindi, nonostante l’esistenza di un nido ben attrezzato e l’impegno profuso dalla direzione dell’istituto e da parte di diversi attori della società civile irpina, vi è l’improcrastinabile esigenza di un intervento delle istituzioni locali che, sulla scorta delle esperienze più su citate, permettano di creare le condizioni per alleviare il dramma di un’infanzia in carcere.

 

 

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