Replica di Luigi Pagano

 

La replica di Luigi Pagano, direttore di San Vittore

 

(dal sito www.ildue.it)

 

"Non mi piace l’articolo di Sergio Segio ( "Voci dal carcere - Torture tra metafora e realtà" ) pubblicato su Fuoriluogo dell'aprile 2002, congegnato in modo tale da poter esprimere giudizi molto gravi sugli operatori penitenziari.

Giudizi basati, però, su premesse meramente ipotetiche ovvero che a San Vittore non solo ci si disinteressi dei detenuti, ma si eserciti su di loro sistematica violenza garantendo, omertosamente da parte di chi dovrebbe vigilare, impunità ai responsabili.

Avrei preferito che un articolo del genere contenesse un po’ di dubbi (per esprimere i quali non basta coniugare i verbi al condizionale), o magari che l’autore prima accertasse se, quali e quando episodi del genere fossero avvenuti e le decisioni adottate. Lo avrei preferito, magari, proprio in nome di quella democraticità che Segio dice di riconoscermi (cosa di cui mi permetto di dubitare, dato che me ne fa credito così come Antonio attestava l’onorabilità di Bruto sul cadavere di Cesare), ma forse sbaglio.

Io so quanto brutale possa divenire il carcere se si è timidi nell’impedire e punire le sopraffazioni da chiunque esse provengano, quindi sia io che i miei collaboratori abbiamo cercato di non essere mai ambigui nel ripetere, in ogni occasione, che nessun abuso sui detenuti, ma anche dei detenuti, avrebbe potuto essere mai tollerato.

La mia, credo, sia sincera ansia garantista, ma anche l'esperienza, nonché la memoria, mi ricorda come possa essere tragicamente folle il credere che istituti come San Vittore possano reggersi privilegiando la gestione dei rapporti di forza e non il dialogo, la partecipazione; al personale, a tutto il personale, invece, va riconosciuto il merito di saper gestire, con le poche risorse a disposizione, un istituto che conta 2000 detenuti, di cui la metà straniera, senza trovare nei mille problemi quotidiani, i 30/40 ingressi di detenuti al giorno, la mancanza di spazi e posti letto, la difficoltà di comunicazione, l’insorgere di malattie (vecchie e nuove), le minacce che subiscono, alibi per giustificare la rinuncia a iniziative trattamentali. Anzi.

Non ho mai cullato, però, l’illusione che se del buono era stato realizzato questo potesse durare senza bisogno di difenderlo da noi stessi o dagli umori altalenanti di una società poco sensibile al mondo carcerario e che ha troppo spesso rimesso in discussione diritti anche consolidati, col rischio di modificare, in peggio, gli stessi rapporti tra noi e i detenuti.

La strategia usata a San Vittore è stata, quindi, quella di (tentare) di creare una di struttura aperta al mondo esterno sollecitato a partecipare direttamente alle attività trattamentali. Non so se ci siamo riusciti, però, l’istituto è frequentato, ogni giorno, compresa la domenica, da centinaia di persone: volontari che effettuano i loro colloqui dentro le sezioni detentive, responsabili di istituzioni pubbliche (i Sert, gli insegnanti delle scuole, dei corsi di formazione professionale), imprenditori, animatori culturali, gruppi sportivi, classi scolastiche, giornalisti, parlamentari.

Non ho elencato tutto questo, che nel dettaglio, però, riempirebbe pagine, per vanto (sono convinto, peraltro, che sarà sempre poco rispetto a quanto si dovrebbe fare), ma solo perché se quanto ho detto sul ripudio categorico della violenza può interpretarsi quale, doverosa, difesa di ufficio, la difesa del personale e la dimostrazione che non ci si trova in un campo di concentramento vorrei fosse affidata alla voce di tutte queste persone che frequentano ogni giorno il carcere. Perché questo apparente caos, è, in realtà, fertile interscambio con il mondo esterno, pensato proprio come idea di controllo sociale sul nostro operato, anticorpo ideale per possibili tentazioni di abuso di chi, anche lui inglobato in un'istituzione totale e magari in buona fede, ha solo se stesso come termine di paragone."

 

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