La bulimia carceraria

 

"La bulimia carceraria"

di Sergio Segio

  

Fuoriluogo, giugno 2002

 

"Quis custodiet ipsos custodes?", chi sorveglierà i sorveglianti?, domanda Nelson Mandela nella sua autobiografia (Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, 1995). L’anziano leader che ha passato quasi l’intera vita in prigione, citando la massima di Giovenale, sa bene che lo sguardo esterno è, quasi sempre, l’unica garanzia di sopravvivenza, fisica e morale, dietro le sbarre. Come ogni recluso, di qualsiasi epoca, Paese e regime, Mandela sa altrettanto bene che l’istituzione e i "custodi" non sopportano lo sguardo esterno, avvertito sempre e comunque quale intrusione e minaccia. Nel Sudafrica dell’apartheid come nelle democratiche e riformate galere italiane. San Vittore compreso.

In Fuoriluogo di aprile avevamo raccolto la segnalazione di un gruppo di volontari, notizia peraltro già lanciata dall’agenzia "Redattore sociale" il 9 aprile con il titolo "San Vittore: violenze e minacce ai danni dei detenuti nel racconto dell’Osservatorio Calamandrana".

Il direttore del penitenziario, Luigi Pagano (cfr. Fuoriluogo di maggio), contesta vivacemente il mio precedente articolo, ma non dice una parola sulla veridicità o meno dei pestaggi. Dunque non sappiamo se siano stati presi provvedimenti. A parte quello dell’immediata sospensione del permesso di ingresso ai volontari del "Calamandrana". Per lesa opacità?

Piccoli episodi, forse. Ma che ci dicono quanto sia difficile accertare e discutere ciò che succede nelle prigioni. E che ci sottolineano quanto sia prezioso, pur se osteggiato, il lavoro di osservazione sulle carceri. Che ha da essere rigoroso, equilibrato, esente da pregiudizi. Ma che non è mai neutro, come ricorda Mauro Palma, presidente onorario di Antigone e membro italiano del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, nella prefazione al Secondo Rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia curato dall’ Associazione Antigone (appena uscito in libreria per le edizioni Carocci): "Osservare il sistema penitenziario è già agire in esso; è dare un contributo alla sua evoluzione, individuare una direzione alla sua azione; è anche aprirlo all’esterno".

Dalla tensione alla trasparenza "può crescere una cultura della tutela dei diritti che accomuni chi opera all’interno di queste istituzioni a chi lavora in altri settori e a chi nelle stesse istituzioni sconta una pena. La cultura dei diritti ha bisogno di una "non opacità"; ha bisogno di molti osservatori, in una sorta di gioco speculare in cui la sorveglianza totale trova un proprio contrappeso nello sguardo sociale sul sistema".

Di questa possibile e necessaria alleanza tra operatori e reclusi, della rilevanza che trasparenza e cultura della tutela dei diritti rivestono anche per chi le carceri gestisce, evidentemente si tratta ancora di convincere molta parte, anche la più democratica, dell’amministrazione penitenziaria. La qualificata azione culturale e informativa svolta da Antigone e dal suo Osservatorio può avere pure questo - non secondario - risvolto di efficacia.

Anche l’introduzione di Stefano Anastasia, presidente di Antigone, naturalmente e giustamente si apre mettendo il dito nella piaga o, se vogliamo, nell’occhio dei custodi. Ricorda Anastasia che qualche tempo fa uno squarcio aveva rotto il velo che protegge l’opacità del carcere. "Una brutta storia, di aggressioni e violenze, in cui guardie e ladri s’erano cambiati divisa". Poi, "come usa, la notizia si consumò e il carcere è tornato nell’oblio".

Chi ricorda quella notizia? Non è passato molto tempo da quell’aprile 2000 in cui nel carcere sassarese di San Sebastiano avvenne un pestaggio generalizzato. Il processo è in corso, ma nessuno ne parla. Del resto, nonostante reiterate raccomandazioni del Comitato per i diritti umani dell’ONU, nel nostro esorbitante codice penale non esiste il reato specifico di tortura. Sarà per questo che i responsabili del carcere sardo vennero quasi subito promossi, più che rimossi.

Nell’oblio, grazie a esso e all’opacità che ne è complemento e derivante, crescono intanto i cosiddetti "eventi critici". Il Rapporto di Antigone vi dedica il capitolo "Eventi critici: maltrattamenti e decessi 2000-2001".

Titolo che integra e meglio specifica la criptica e burocratica dizione penitenziaria; per la quale, ovviamente, i maltrattamenti e le violenze in danno dei reclusi non esistono, limitandosi a censire suicidi, tentati suicidi e gesti di autolesionismo, decessi, atti di aggressione tra detenuti, manifestazioni di protesta. L’estensore, Antonio Marchesi, cita en passant il numero dei suicidi, incrementatosi del 40% (51 nel 1999, 56 nel 2000, 70 nel 2001) negli ultimi due anni: un record negativo, che vede tra le concause il sovraffollamento, ma anche la mancata concessione di amnistia e indulto nell’anno del Giubileo. Il capitolo si sofferma invece sui casi di morti sospette o evitabili e di pestaggi.

L’elenco, che comprende 29 carceri e 7 tra commissariati e caserme di carabinieri, con ogni probabilità è solo la punta di un iceberg, dovendosi limitare a riferire di vicende che hanno dato luogo a procedimenti giudiziari o comunque che sono sufficientemente documentate.

"Ho voluto fare una specie di inchiesta privata e discreta fra gli avvocati e i magistrati... ho raccolto materiali impressionanti... Gli avvocati interpellati mi hanno risposto in via confidenziale, ma mi hanno fatto promettere di non dire pubblicamente i loro nomi perché essi sanno, nel rilevare quei metodi, che se precisassero dati e circostanze, verrebbero danneggiati i loro patrocini: li esporrebbero a rappresaglie e persecuzioni, forse a imputazioni di calunnia, perché di fronte alle loro affermazioni non si troverebbe il testimone disposto a confermare che quanto dice l’imputato è vero. Accade così che il difensore, anche quando sa che il suo patrocinato è stato oggetto di vera e propria tortura per farlo confessare, lo esorta a sopportare, a tacere, a non rilevare in udienza quei tormenti ai quali, in mancanza di prove, i giudici non credono".

Così Piero Calamandrei, intervenendo alla Camera dei deputati nell’ottobre 1948. Ci sono grosse similitudini, ma anche una significativa differenza: oggi, di questo volto oscuro della democrazia non si parla proprio. Tanto meno in Parlamento.

Gli altri capitoli del Rapporto analizzano aspetti egualmente centrali per capire cause e possibili rimedi alla "bulimia penitenziaria" e a quello che Anastasia definisce un "duplice fallimento": la mancata riduzione del ricorso alla pena detentiva e il mancato miglioramento delle sue condizioni di esecuzione.

Laura Astarita scrive sulla detenzione femMinile, soffermandosi sulla disapplicazione della legge del marzo 2001 "Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori": a fine 2001, su 959 detenute - madri solo 17 avevano beneficiato della nuova normativa. Fiorentina Barbieri, nel capitolo "Handle with care: il personale penitenziario e la sua formazione", tratta un’esigenza sinora decisamente sottovalutata.

Paola Bonatelli, con "It’s business, baby! Investimenti ed espansione del sistema", segnala che, mentre crescono gli stanziamenti per nuove carceri, latita l’adeguamento delle strutture ai parametri (luce naturale, passaggio d’aria esterna, doccia e acqua calda in cella, bidet per le donne, cucina per non più di 200 reclusi, spazio - mensa) fissati dal nuovo Regolamento di esecuzione del 20 settembre 2000): "si può affermare che nessun carcere italiano è attualmente in regola con la generalità degli standard previsti".

Marina Marchisio, "La pena della droga", Claudio Sarzotti, "L’assistenza sanitaria: cronaca di una riforma mai nata" , Tilde Napoleone, "Minori responsabilità", Luca Bresciani e Francesca Ferradini, "Mutamenti normativi", Licia Rita Roselli e Monica Vitali, "Tra lavoro e non lavoro" e Patrizio Gonnella con "Osservando: istantanee dalle carceri italiane", documentano e completano il quadro decisamente fosco e pericolosamente rimosso dalle attenzioni politico - parlamentari. Ha ragione Gonnella (e in ciò il merito aggiuntivo di Antigone e del Rapporto): occorre lavorare sul senso comune, al fine di rovesciarlo. Ricordando che "Il carcere è per sua natura violento".

Se questo è vero, come è vero e come le cronache ci ricordano quando rompono per un momento il cono d’ombra e di omertà; se, al fondo, c’è un’irriformabilità di questa orrenda istituzione, è motivo in più per liberarci dell’inutilità del carcere. E dell’idea che esso sia necessario, come recita il pur progressista slogan, quand’è invece solamente criminogeno, patogeno e disumano.

 

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