Così si muore in galera

 

Così si muore in galera

Secondo rapporto sui suicidi nelle carceri italiane

A Buon diritto - Associazione per le libertà

Luigi Manconi - Andrea Boraschi - Elina Lo Voi

 

Uno sguardo d’insieme

Quando ci si ammazza

Un suicidio ogni 5 giorni

La geografia del disagio

Un primo identikit

Nei primi giorni, proprio nei primissimi giorni

Affollamento e suicidi

Le morti annunciate

Italiani e stranieri

Uno sguardo d’insieme

 

Nelle carceri italiane ci si ammazza oltre 17 volte di più di quanto si faccia fuori dagli istituti di pena. Questo nel corso del 2003: è andata appena "meglio", per così dire, nel 2002, quando i suicidi dietro le

sbarre sono stati, proporzionalmente, quasi 16 volte di più dei suicidi all’interno della popolazione nazionale. Nel 2002 i suicidi sono stati 57; nel 2003 65, di cui due in istituti minorili. Quello dell’anno appena trascorso è, unitamente a quello del 2000, il secondo peggior dato, dopo quello del 2001 (quando i morti furono 72), nella serie storica 1990-2004.

Nelle carceri affollate ci si uccide molto di più di quanto si faccia in quelle dove le presenze dei detenuti non eccedono il numero previsto. Nel 2002 il 93% dei casi di suicidio si verifica in carceri affollate; nel 2003 questa percentuale viene sostanzialmente confermata: 92,1%. Più precisamente, nel

2002 il tasso di suicidio nelle carceri affollate risulta di 10,8 per 10.000 reclusi, ovvero di 4,6 punti più alto di quello rilevato negli istituti di pena non affollati (6,2 per 10.000 reclusi); lo stesso rapporto ci dice che nel 2003, ogni 10.000 reclusi, nelle carceri affollate se ne uccidono 3,6 in più che nelle altre carceri (il tasso di suicidio è di 11,5 per 10.000 reclusi nelle prime e di 8,2 per 10.000 reclusi nelle seconde). Nel 2002 l’88,2% dei detenuti scontavano la loro pena in istituti affollati; nel 2003 questa percentuale è salita all’89,2%. Circa tre quarti delle strutture penitenziarie italiane sono affollate: 149 nel 2002 e 147 nel 2003, su un totale di 205.

Nelle carceri sembra esistere un rapporto inversamente proporzionale tra "speranza di libertà" e propensione al suicidio: ci si uccide molto di più tra quanti, per posizione giuridica, età, permanenza detentiva, potrebbero sperare in una reclusione breve o relativamente breve; o tra quanti potrebbero

attendere, espiata la pena, un "ritorno" alla società.

Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria indica per ogni istituto di pena un numero di presenze "regolamentari" (stimate in base ad una certificazione della capienza della struttura) e un numero di presenze "tollerabili" (che, eccedendo le presenze regolamentari, fissano un tetto massimo nominale). In genere, viene considerata affollata ogni struttura che ospiti al suo interno un numero di detenuti superiore alle presenze "regolamentari"; e sovraffollata ogni struttura che ospiti un numero di detenuti superiore alla presenze "tollerabili". In questa ricerca usiamo il termine "affollamento" come comprensivo di entrambe le situazioni.

Questo dato va integrato da due considerazioni. La prima: una parte consistente di stranieri reclusi è priva di permesso di soggiorno (non è riferibile, quindi, a quella percentuale del 2,5% sull’intera popolazione nazionale, prima citata). Seconda considerazione: gli stranieri vanno in carcere e ci rimangono più a lungo degli italiani non solo perché – percentualmente – "delinquono con maggiore frequenza" (anche per evidenti ragioni economiche, sociali e ambientali); ma soprattutto perché "pagano" difficoltà linguistiche e di comunicazione, scarsa conoscenza del sistema giuridico e una minor tutela delle garanzie di difesa. Basti pensare al ricorso alla custodia cautelare; tra gli stranieri, il 60% è composto da detenuti in attesa di giudizio, mentre tra gli italiani il dato scende al di sotto del 40%. Le statiche giudiziarie registrano notevoli disparità anche nei dati relativi a denunce e condanne: la percentuale di stranieri sul totale delle popolazione detenuta è, infatti, molto più elevata di quella degli stranieri che subiscono una condanna. Infine, a parità di imputazione o di condanna, la permanenza in carcere degli stranieri è mediamente assai più lunga di quella degli italiani, sia in fase di custodia cautelare che dopo la sentenza I dati elaborati dall’associazione Antigone mostrano, poi, che gli italiani in carcere hanno un numero medio di imputazioni decisamente superiore a quello degli stranieri: al maggio 2001 erano 171.458 i reati complessivamente ascritti alle 55.338 persone detenute in Italia (media di poco più di 3 reati a testa), ma non equamente distribuiti. Quelli che riguardano gli stranieri sono 31.935, vale a dire meno di 2 reati in media per ogni straniero; la media, per gli italiani, è invece di 3,57 reati pro capite.

Tra coloro che sono in carcere in attesa di giudizio si registra un tasso di suicidio quasi doppio rispetto a quanti hanno già subito una condanna definitiva; tra i primi (circa il 19% della popolazione penitenziaria), si è verificato – nel 2002 – il 38,2% dei casi di suicidio (percentuale che scende al 31% nel 2003).

In carcere, al contrario di quanto accade tra la popolazione libera, ci si uccide per lo più in età giovanile: nella fascia tra i 18 e i 24 anni, ci si uccide quasi 50 volte più di quanto si faccia tra la popolazione non reclusa.

In carcere ci si uccide nel primo e nel primissimo periodo di permanenza. Nel 2002 il 61% dei casi di suicidio riguarda persone recluse da meno di un anno; questa stessa percentuale, nel 2003, è del 61,9%: e, in quello stesso anno, ben il 51,6% dei reclusi suicidatisi si è tolto la vita già nei primi sei mesi di reclusione. Dato ancor più allarmante: nel 2003 il 17,2% dei suicidi si è verificato durante la prima settimana di reclusione (la percentuale relativa al 2002 è del 14,8%).

Da questi dati emerge un "profilo medio" del detenuto che si toglie la vita: per lo più giovane, in attesa di giudizio, con un curriculum criminale recente, con capi d’imputazione relativamente poco gravi e con poche settimane di detenzione alle spalle. Da un’analisi della distribuzione dei casi di suicidio tra i vari penitenziari emerge una sorta di "geografia" del disagio della vita reclusa: Sardegna e Lombardia sono le regioni che, nei due anni considerati, hanno contato il maggior numero di detenuti che si sono tolti la vita: 17 in ognuna delle due. Correlando numero dei reclusi e suicidi verificatisi, risulta la Sardegna la regione nella quale più frequentemente ci si toglie la vita (e gli istituti di Cagliari e Sassari ne costituiscono l’epicentro).

In ultimo: questa seconda edizione della ricerca presenta una stima dei casi di suicidio in cui era possibile cogliere i "segni" di una volontà autolesionista del recluso; "segni" (sintomi, spie, messaggi…) che avrebbero dovuto indurre l’amministrazione penitenziaria a predisporre adeguate misure di controllo: sostegno psicologico, monitoraggio clinico, opera di dissuasione, vigilanza. Nella stima che proponiamo, pertanto, sono inclusi tutti quei casi in cui il suicida aveva già tentato di togliersi la vita o aveva apertamente minacciato di farlo; in cui era stato precedentemente dichiarato "incompatibile" col sistema carcerario o gli erano stati diagnosticati seri disturbi mentali; e, ancora, quei casi in cui versava in gravi o gravissime condizioni di depressione. Sono "suicidi annunciati", questi: e sono il 17,4% del totale, nel 2003; e addirittura il 32,7% nel 2002.

 

Quando ci si ammazza

 

"Il dato è secco ed eloquente. In carcere ci si ammazza 19 volte più di quanto ci si ammazza fuori del carcere". Questa la conclusione del nostro primo rapporto "Così si muore in galera", pubblicato nel 2002 e relativo all’autolesionismo nel corso del 2000 e del 2001. L’aggiornamento e l’approfondimento di quella ricerca ci offrono nuovi dati. Quanto emerso nel 2001 risulta appena ridimensionato nel 2003: in carcere i suicidi sono, in proporzione, più di 17 volte quelli registrati tra la popolazione nazionale; e si evidenzia una strettissima e fortissima correlazione tra autolesionismo e affollamento. Nel 2002 si registrano 10,1 suicidi ogni 10.000 detenuti (57 nell’anno); e nel 2003 se ne registrano 11,2 ogni 10.000 detenuti (65 in totale, di cui 2 in carceri minorili). Correlando i casi di suicidio con i dati sulla presenza nei singoli istituti, emerge che nel 2002 il 93% di quelle morti si consuma in carceri affollate; dato sostanzialmente confermato nel 2003, con il 92,1% dei casi.

Ancora: nel 2002 il tasso di suicidi per 10.000 reclusi, nelle carceri con presenze in eccesso rispetto al numero previsto, era di 4,6 punti più alto di quello registrato negli istituti non affollati; un notevole scarto, seppur ridotto, si registra anche nel 2003: 3,3 punti. In altri termini, nelle carceri che soffrono di maggiore affollamento, ogni 10.000 reclusi si registrano mediamente quasi 4 suicidi in più che nelle altre carceri. Il dato è talmente macroscopico che quanto emerso nella prima edizione della ricerca potrebbe essere riformulato a partire proprio da questa differenza. Nel corso del 2003 nelle carceri non

affollate ci si uccide quasi 13 volte più di quanto si faccia fuori; nelle carceri affollate ci si uccide quasi 18 volte di più. In sostanza, i dati a nostra disposizione segnalano una realtà assai preoccupante. Pur se non consente di stabilire una relazione univoca di causa-effetto tra affollamento e suicidi, il gap tra morti nelle carceri non affollate e morti nelle carceri affollate è tale da imporre una profonda riflessione.

L’affollamento costituisce in sé una condizione di estremo disagio ed è, al contempo, la spia di gravi carenze organizzative e strutturali. Chi è detenuto in carceri affollate patisce condizioni igieniche spesso pessime, carenze di personale medico, di psicologi, di educatori; e, ancora, strutture fatiscenti, servizi insufficienti, rapporti assai problematici con l’amministrazione e massima difficoltà di accesso al lavoro. In altre parole, l’affollamento ostacola gravemente il rispetto dei diritti e delle garanzie riconosciuti ai detenuti dalle leggi e dal regolamento penitenziario, rendendo pleonastico ogni pronunciamento in favore del carattere "rieducativo" della pena.

L’affollamento, dunque, in quanto segnale di molte delle situazioni di massimo disagio, è un indice attendibile (e allo stesso tempo, una delle cause più rilevanti) dei molti mali che affliggono gli istituti di pena del nostro paese. Ed è, come si è detto, un fattore da correlare attentamente al fenomeno degli atti di autolesionismo e dei suicidi.

Un altro dato significativo riguarda quelli che potremmo definire, per brevità ed efficacia (crudele) dell’espressione, "suicidi annunciati". Si tratta di tutti quei casi in cui il suicida versava in gravi – e più spesso gravissime - condizioni, definibili di "depressione" o, comunque, di "crisi", che avrebbero potuto determinare la sua "incompatibilità" col regime carcerario; e, ancora, di tutti quei casi in cui il detenuto aveva già tentato il suicidio, o lo aveva minacciato. Nel corso del 2003, si registra il caso limite di un detenuto, M.D.S., che era già stato dichiarato "incompatibile" col regime carcerario; e che, pure, ha potuto porre fine alla sua esistenza impiccandosi nel carcere di Rebibbia. I dati, in questa sezione della ricerca, si rifanno ad alcune tracce biografiche, raccolte attraverso una pluralità di fonti non ufficiali (dagli organi di stampa e dal dossier "Morire di carcere" dell’associazione Ristretti Orizzonti, fino a colloqui con familiari e avvocati). Le cifre che forniamo, quindi, non riguardano la totalità dei casi registrati: si riferiscono, piuttosto, a quelli per i quali si dispone di un corpus più approfondito di informazioni (nel 2003 più di due terzi del totale). Pur nella parzialità dei dati a disposizione, si impongono alcune evidenze: nel 2003, il 17% del totale dei suicidi rilevati erano in qualche modo "annunciati"; nel 2002, addirittura, questa percentuale cresce sino al 33%.

Ancora: la scorsa edizione della nostra ricerca metteva in luce una relazione critica tra periodo di detenzione e propensione al suicidio. Nel biennio 2000-2001 il 54,8% dei suicidi si consumavano nei primi sei mesi di carcere (e il 12,1% nella prima settimana di reclusione); il 64,5% si verificava entro i primi dodici mesi. La presente ricerca conferma che i primi mesi di detenzione sono quelli in cui la persona è maggiormente esposta a quei fattori di "crisi" che si traducono nella volontà di togliersi la vita. Nel 2003 il 51,6% dei suicidi si sono verificati nei primi 6 mesi di reclusione (per il 2002 il dato è del 36,9%), mentre, ancora nel 2003, il 61,9% dei suicidi si verifica nel corso del primo anno di detenzione (nel 2002, il 61%). Negli ultimi due anni, poi, è aumentato sensibilmente il numero di coloro che si uccidono appena entrati negli istituti di pena: nel 2003 il 17,2% dei suicidi è stato registrato nella prima settimana di reclusione (nel 2002 il 14,8%). Questi dati confermano che le politiche di sostegno ai "nuovi giunti" sono deboli e inefficaci; e provano che l’amministrazione penitenziaria non sembra in grado di gestire adeguatamente il trauma psicologico dovuto all’ingresso in un mondo chiuso e, per molti, sconosciuto.

Per quanto riguarda la modalità, ci si uccide per impiccagione o per asfissia, usando in questo caso - per lo più - sacchetti di plastica stretti intorno alla testa; ma ci si uccide, di frequente, inalando il gas contenuto nelle bombolette dei fornelletti da campeggio con cui i detenuti possono cucinare in cella.

L’amministrazione penitenziaria tende a classificare le morti avvenute per inalazione di gas non come "suicidio", ma come esito di overdose. Sono molti, in effetti, i detenuti tossicodipendenti che inalano il gas per affrontare l’astinenza da stupefacenti (si ricordi che i detenuti tossicodipendenti rappresentano oltre il 25% della popolazione reclusa). Stante questa situazione, è difficile tracciare un confine preciso tra overdose, quale esito imprevisto e non voluto dell’inalazione di gas, e volontà autolesionista. Questa difficoltà induce l’Amministrazione penitenziaria a classificare, pressoché sempre, i decessi per inalazione di gas come "incidenti"; e a escludere, pressoché sempre, ogni intenzione di togliersi la vita nella dinamica di quanti muoiono in questa maniera. Si tratta di una conclusione perlomeno affrettata, dal momento che alcune delle morti per inalazione non riguardano tossicodipendenti; e che, anche tra i tossicodipendenti, non si può escludere un intento suicida dietro un avvelenamento da gas.

Altro fattore di cui considerare la correlazione col fenomeno dei suicidi è lo stato giuridico dei detenuti. Nelle carceri italiane, a fine 2003, il 62% dei detenuti è recluso a seguito di una condanna definitiva; il restante 38% si compone di un 36% di imputati (di cui il 56% è costituito da giudicabili, il 30% da appellanti, il 14% da ricorrenti) e di un 2% di internati in Ospedali Psichiatrici Giudiziari.

Se si confronta lo stato giuridico dei detenuti suicidi con quello della popolazione carceraria nel suo complesso, si nota una evidente sproporzione. A fronte di quel 62% di condannati in via definitiva, tra coloro che si uccidono solo il 36,4% nel 2002 e il 48,3% nel 2003 si trovano in tale condizione. La tendenza a togliersi la vita in carcere, dunque, non sembra correlata alla "riduzione della speranza", a sua volta dipendente dalla prospettiva di una lunga detenzione. La certezza di dover espiare una pena prevedibilmente non breve sembra pesare relativamente poco sul numero dei suicidi (si era registrata una situazione non molto diversa nella precedente edizione della ricerca, quando, tra i suicidi, i "definitivi" erano il 44%). Un simile dato può essere letto alla luce della correlazione tra lo stato giuridico e il periodo di detenzione precedente il suicidio. I condannati in via definitiva si trovano in carcere, in genere, da più tempo di chi è in attesa di giudizio o ricorre in appello: e, come si è visto, chi decide di uccidersi lo fa, in un numero rilevante di casi, entro il primo anno di detenzione. Il che contribuisce a spiegare perché, a fronte di una maggioranza assoluta di detenuti definitivi, la percentuale di quanti si suicidano è relativamente ridotta.

 

Un suicidio ogni 5 giorni

 

Procediamo, ora, a un’analisi più puntuale dei dati, cominciando dai valori assoluti. Negli ultimi due anni si è registrata una lieve flessione nel numero complessivo dei suicidi verificatisi negli istituti di pena. Questa riduzione fa seguito a un picco, quello del 2001, quando si registrarono 72 morti. L’anno precedente se ne erano contati 65. Nel 2003 i morti per suicidio in carcere sono stati 652 (1 ogni 5,6 giorni; di cui due in istituti minorili), nel 2002 sono stati 57. Quello dell’anno appena trascorso è, unitamente a quello del 2000, il secondo peggior dato, dopo quello del 2001, nella serie storica 1990-2004. Come linea di tendenza, sembra potersi dire che la situazione si vada stabilizzando, ma su valori

assai alti. Il che, in termini statistici, corrisponde a un certo "assestamento" dei dati, dopo la crescita rilevantissima che connotò gli anni tra il 1990 e il 1993. E, tuttavia, riduzioni quali quelle registrate nel 1996, quando i morti furono 46, o ancora nel 1995, quando furono 50, devono indurci a non dare per scontati questi numeri; e a non leggere in queste cifre (un andamento medio compreso tra le 60 e la 70 vittime l’anno) alcunché di fisiologico. Al contrario: gli scarti, più o meno ampi, che si registrano di anno in anno, lasciano intendere che ci sono margini d’intervento per contenere e ridurre il fenomeno. E che, per fare ciò, si deve insistere su alcuni fondamentali elementi critici.

L’analisi dei dati a disposizione ci dice, infatti, che i "nuovi giunti", i detenuti di carceri affollate, coloro che hanno già tentato il suicidio, lo hanno minacciato o versano in gravi condizioni di depressione: tutti questi sono, appunto, i soggetti a maggior rischio. E tuttavia, nella gran parte delle carceri italiane, non si riesce a garantire controllo e sostegno adeguati neppure nei casi più gravi: persino chi ha già tentato di darsi la morte trova modo, infine, di portare a compimento il suo intento.

Il dato sui suicidi relativo al 2003 si discosta dalla cifra fornita - in riferimento allo stesso anno - dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il Dipartimento registra, infatti, 57 casi. Precisando che 2 dei 65 censiti dalla nostra ricerca riguardano istituti di pena minorili (dunque, in termini di competenza amministrativa, non dipendenti dal DAP), rimangono 6 casi di cui abbiamo notizia, ma che a tutt’oggi non sono stati classificati come suicidi: una discrepanza, quindi, tra i dati forniti dall’Amministrazione e i dati da noi reperiti. Una maggiore possibilità di accesso alle fonti istituzionali – o, in ogni caso, la pubblicità, magari anonima, delle relative informazioni - potrebbe, a nostro avviso,

consentire al ricercatore una più meticolosa documentazione. In ogni caso, la discrepanza cui accennavamo ha più di una possibile spiegazione. In primis, l’Amministrazione tende a classificare come causato da overdose pressoché tutti i casi di morte avvenuta per inalazione di gas da bomboletta, anche quando le circostanze e le testimonianze tendano a dimostrare l’intento suicida. In secondo luogo, i procedimenti che vengono aperti sulle morti in carcere possono durare anche mesi; il che porta spesso il DAP ad aggiornare le statistiche nel corso dell’anno successivo. Infine, il Dap non sempre annovera tra i suicidi in carcere i decessi avvenuti in ambulanza o in ospedale, anche quando immediatamente successivi e consequenziali al tentativo di togliersi la vita attuato in cella. Lo stesso discorso valga in riferimento al 2002, anno in cui il Dap registra due suicidi in meno di quelli riportati dalle nostre statistiche, e agli anni precedenti.

 

Numero suicidi/anno, presenze medie nelle carceri italiane e tasso di suicidio

 

La lettura dell’andamento degli atti di autolesionismo e dei tentati suicidi, in una serie storica che parte dal 1990 e arriva al 2003, ci dice che dopo un periodo (1996-2000) segnato da una tendenza alla crescita dei casi registrati (una crescita parallela a quella della popolazione carceraria), negli anni più recenti si riscontra una flessione nel numero sia dei detenuti che si infliggono ferite e mutilazioni sia dei detenuti che tentano di togliersi la vita. Un dato, questo, che non coincide con quello relativo all’andamento dei suicidi. La possibile interpretazione, suggerita da questa comparazione, sollecita una ulteriore considerazione critica: se i casi di tentato suicidio si riducono, mentre aumentano quelli di "suicidio riuscito", ciò vuol dire che si è ulteriormente allentata la vigilanza (qui intesa come capacità di prevedere, ostacolare o demotivare la volontà di togliersi la vita).

 

Numero tentati suicidi/anno e numero atti autolesionismo/anno

 

La geografia del disagio

 

Al di là dei valori assoluti, bisogna rilevare come il fenomeno dei suicidi in carcere disegni una geografia estremamente composita e, per molti versi, disomogenea. La Val d’Aosta è la sola regione in cui, nel corso degli ultimi due anni, non si è registrata alcuna morte per suicidio; per il resto si va dal "record" negativo della Lombardia e della Sardegna, con 17 morti in due anni, ai 12 della Campania; dagli 11 dell’Emilia Romagna, della Sicilia e del Lazio agli 8 del Piemonte. La lettura di questi dati impone, tuttavia, un’analisi ulteriore: e un raffronto tra numero di suicidi e popolazione detenuta. Così facendo, emergono due casi particolarmente significativi.

Il primo, il più evidente, è quello della Sardegna, dove in 12 istituti di pena, a fronte di una popolazione di soli 1.800 detenuti, si sono verificati, nel corso del biennio, ben 17 casi di suicidio (si prenda, come termine di paragone, la Lombardia: dove il dato assoluto è altrettanto alto, ma dove la popolazione carceraria è di circa 8.500 unità). All’interno di questo scenario, emerge la situazione di due istituti di pena, Cagliari e Sassari, dove, nel periodo in esame, si sono registrati in totale 11 suicidi (sei nella prima e cinque nella seconda). Ma si pensi anche alla situazione di altri due istituti, Macomer e Iglesias, dove, in ciascuno, su una popolazione reclusa di poche decine di unità (82 detenuti nel primo, 93 nel secondo), si sono tolte la vita, nel corso del 2003, 2 persone.

L’altro caso che ci sembra significativo, in un quadro generale tutt’altro che confortante, è quello delle Marche. Nella regione adriatica, in soli 6 istituti di pena, su una popolazione di 830 detenuti, si sono registrati, nel 2002 e nel 2003, 6 suicidi. Le Marche e la Sardegna, dunque, sono accomunate da un comune primato negativo: e sono realtà distanti tra loro per livelli di benessere, attività produttive, caratteristiche del tessuto sociale, disponibilità di servizi. L’universo carcerario, tuttavia, sembra restare impermeabile a queste differenze: "mondi a parte" dove le condizioni di vita prescindono dai connotati del territorio in cui sono inseriti, finendo col somigliarsi anche in contesti geografici e sociali profondamente diversi tra loro.

Dati altrettanto preoccupanti riguardano la Campania (12 suicidi in due anni nei 16 istituti presenti nella regione, su una popolazione di circa 6.800 unità), la Liguria (5 suicidi, di cui 4 a Genova Marassi, con una popolazione carceraria di sole 1.400 unità), l’Emilia Romagna (11 suicidi su una popolazione di circa 3.150 detenuti), la Sicilia (11 suicidi su circa 6.200), il Lazio (11 suicidi su circa 5.500).

 

Suicidi tra la popolazione carceraria ripartiti per regioni

 

Un primo identikit

 

Un altro dato eloquente: nel complesso della popolazione italiana, oltre il 65% dei suicidi registrati riguarda persone sopra i 44 anni; tra i reclusi questa percentuale si riduce al 13%. In altre parole, in carcere si uccidono, per lo più, persone significativamente più giovani: persone che avrebbero – in linea teorica - molti anni davanti per scontare la pena e programmare un reinserimento in età ancora "utile" (per lavorare, partecipare alla vita sociale, farsi una famiglia). Certo, l’età media dei reclusi è molto più bassa di quella della popolazione libera: ma questa considerazione non modifica in alcun modo il dato di fondo.

 

Distribuzione percentuale di suicidi per fasce d’età

 

E, infatti, considerando i casi di suicidio nelle varie fasce d’età, e confrontandoli con la distribuzione della popolazione carceraria nelle medesime, si evidenzia - tra i 18 ed i 34 anni – una più forte propensione al suicidio. Nel 2002, infatti, la popolazione carceraria compresa tra i 18 e i 24 anni risulta essere l’11,4% del totale della popolazione reclusa, mentre i casi di suicidio, in quella fascia d’età, sono il 13% del totale. Analogamente, la popolazione carceraria compresa tra i 25 e i 34 anni risulta essere il 37% del totale della popolazione penitenziaria, mentre i casi di suicidio, in quella fascia d’età, raggiungono il 46,3% del totale.

Il rapporto tra suicidi e classe d’età si inverte solo dopo i 35 anni: nella fascia d’età 35-44 e, poi, in quelle a seguire il numero dei suicidi risulta inferiore al rapporto tra detenuti compresi in quella fascia d’età e popolazione carceraria complessiva. Questo stessa tendenza, che vede i casi di suicidio concentrarsi in maniera più densa nelle fasce più basse d’età, appare più controversa nel 2003.

In quell’anno aumentano i casi di suicidio tra i detenuti più giovani (la popolazione carceraria compresa tra i 18 e i 24 anni risulta essere il 10,8% del totale, mentre i casi di suicidio, in quella stessa fascia d’età, raggiungono il 14,3%), ma si registra un dato in controtendenza per quanto riguarda la fascia tra i 45 e i 54 anni.

 

Confronto distribuzione percentuale casi di suicidio per fasce d’età

 

Alla base della propensione al suicidio tra i detenuti giovani vi sono diversi fattori, solo in parte indagabili: il più rilevante, crediamo, è la coincidenza tra la giovane età e l’estraneità alla vita carceraria: o, comunque, la minore consuetudine con essa. I detenuti più giovani entrano in carcere, spesso, per la prima volta, non hanno dimestichezza alcuna con gli stili di vita, le regole e le gerarchie dominanti negli istituti, sono sprovvisti di un "codice di comportamento" che li ponga al riparo dalle insidie, dalle incognite e dai traumi della vita reclusa. Inoltre, sono spesso imputati di reati relativamente lievi, provengono da una carriera criminale breve e tendono a non riconoscere una "giusta proporzione" tra la gravità della colpa e la severità della sanzione (tanto più se anticipata).

 

Confronto percentuale tra popolazione reclusa e popolazione libera

 

Altrettanto stretta appare la relazione tra posizione giuridica e suicidi. Negli anni 2000 e 2001, il 44,2% dei suicidi si è verificato tra detenuti condannati con sentenza definitiva. Questa percentuale risulta significativamente ridotta nel 2002 (36,4%) per poi risalire nel 2003 (48,3%). Al di là di queste variazioni, resta il dato sufficientemente stabile rappresentato dal fatto che i condannati definitivi, nelle carceri italiane superano il 60% del totale dei reclusi. In altre parole, tra i condannati passati in giudicato, la propensione al suicidio è notevolmente inferiore a quella registrata tra gli imputati (giudicabili, appellanti, ricorrenti).

E tra questi ultimi, in effetti, sono i detenuti in attesa di giudizio coloro che, più di altri, si tolgono la vita: il 38,2% dei suicidi, nel 2002, e il 31%, nel 2003, riguardano cittadini che devono ancora affrontare il primo grado di giudizio; dunque, cittadini che godono pienamente (o dovrebbero godere pienamente) della presunzione di innocenza. Se si considera, poi, che i reclusi giudicabili sono circa il 19% del totale della popolazione carceraria, emerge come in questo sottoinsieme – ovvero tra coloro ancora in attesa di giudizio – ci si uccide oltre il doppio delle volte di quanto ci si uccida tra i reclusi condannati con sentenza definitiva. Un maggiore equilibrio tra numero dei detenuti e casi di suicidio registrati si ha, invece, per i ricorrenti e per gli appellanti: tra i primi (che sono circa il 5% della popolazione carceraria) si registra, nel 2002, il 5,5% dei suicidi; percentuale che scende all’1,7% nel 2003. Tra gli appellanti (che sono circa l’11% della popolazione carceraria), si sono verificati il 10,9% dei suicidi registrati nel 2002 e il 10,3% dei suicidi del 2003.

 

Distribuzione dei casi di suicidio 2002-2003 per stato giuridico

 

Dalla lettura di questi dati emerge, ancora una volta, un elemento in apparenza paradossale: ovvero che l’ineluttabilità della pena, la certezza di dover scontare una condanna, pesa meno, nel determinare scelte estreme, di quanto pesi l’incertezza sulla propria condizione. La possibilità di essere riconosciuti innocenti, per quanti devono essere giudicati, non appare sufficiente a scongiurare la decisione del suicidio. Anche qui, però, la condizione giuridica non è sufficiente, da sola, a spiegare il dato; quella condizione va collegata ad altri fattori: in primo luogo, al tempo di permanenza in un istituto penitenziario e all’età di chi si toglie la vita. In altre parole, è possibile tracciare un primo identikit del detenuto che si suicida: è giovane, o relativamente giovane, è ancora in attesa di giudizio o, comunque, di sentenza definitiva e si trova in carcere da poco tempo, spesso da meno di sei mesi (il 51,6% nel 2003).

Una nota a parte merita la situazione dei detenuti internati negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg): pur costituendo appena il 2% della popolazione carceraria, tra loro si registra il 7,3% del totale dei suicidi, nel 2002, e il 6,1% nel 2003. Da una parte, questo dato non dovrebbe sorprendere (si tratta di detenuti che soffrono di disturbi psichici): dall’altra, deve preoccupare ancora di più. Per questi soggetti, infatti, andrebbero previste, oltre che cure mediche, misure di tutela e di sostegno ancora più assidue di quelle riservate al resto della popolazione carceraria. I dati a nostra disposizione dicono che così non accade. In conclusione, nel 2003 in carcere ci si uccide 17,2 volte di più di quanto si faccia tra la popolazione libera4; nel 2002 il dato è di 15,5 volte di più. Il dato relativo al 2003, peraltro, è depurato di due casi di suicidio registrati nella popolazione carceraria minorile (verificatisi nel carcere di Casal del Marmo, a Roma).

 

Confronto tra tasso medio di suicidio in carcere e nella popolazione nazionale

 

Se, poi, consideriamo la composizione anagrafica della popolazione carceraria e di quella libera, riscontriamo che in carcere, nella fascia tra i 18 e i 24 anni, ci si uccide 50 volte più di quanto si faccia fuori. Se analizziamo la classe d’età compresa tra i 25 e i 44 anni, il rapporto è di 23 a uno.

 

Suicidio in carcere e nella popolazione nazionale per fasce d’età, 2002

 

Nei primi giorni, proprio nei primissimi giorni

 

Come già anticipato in apertura, in carcere ci si uccide con maggiore frequenza nel primissimo periodo di detenzione. Nel 2002 e nel 2003 oltre il 60% dei detenuti si è ucciso entro il primo anno; e, come già si è detto, nel 2003, ben il 51,6% dei suicidi si è verificato entro i primi 6 mesi.

Se analizziamo i periodi di permanenza in carcere dei detenuti che scelgono di suicidarsi, notiamo una significativa costanza dei valori percentuali relativi ai diversi periodi di reclusione. E, tuttavia,la stabilità di questi valori nel tempo e il loro inequivocabile significato non sembrano aver suggerito all’Amministrazione penitenziaria l’adozione di adeguate strategie per affrontare il problema e limitarne la portata: e, in particolare, per "gestire il trauma" dell’ingresso in carcere e dell’inizio della pena. La creazione dei reparti destinati ai "nuovi giunti" (costituiti nel 1987) e la predisposizione di servizi di sostegno specifico per questa fascia sensibile della popolazione reclusa non sembrano dare i risultati attesi. E non viene fornita alcuna spiegazione, e nemmeno interpretazione, per questo drammatico fallimento.

 

Affollamento e suicidi

 

L’affollamento è, come si è detto, tra i primi problemi delle carceri italiane. Questo comporta – lo ripetiamo - condizioni igieniche spesso pessime, carenza di personale medico, di psicologi, di educatori; e strutture fatiscenti, servizi inadeguati, promiscuità, impossibilità di accesso al lavoro; e, ancora, rapporti sempre difficili con l’amministrazione e con il personale di custodia. E il dato non sembra destinato a migliorare: l’88,2% dei detenuti, nel 2002, e l’89,2% nel 2003, scontano la loro pena in istituti che ospitano più reclusi di quanti dovrebbero.

 

Presenze nelle carceri italiane 2002-2003, per istituti affollati e non affollati

 

In Italia, su 205 istituti di pena, 149 nel 2002 e 147 nel 2003 risultano affollati o sovraffollati. Non c’è regione, in Italia, dove la maggior parte delle carceri non soffra di affollamento. In Lombardia, su 18 istituti, ben 16 nel 2002 e 17 nel 2003 ospitavano reclusi in eccedenza rispetto alla capienza programmata. Parimenti difficili sono le condizioni negli istituti di pena in Emilia Romagna, in Sicilia, in Calabria. Fino al caso-limite del Friuli Venezia Giulia, dove nel 2002 il fenomeno ha raggiunto la sua punta più elevata.

 

Percentuale di suicidi nelle carceri affollate e in quelle non affollate

 

Se si correla il fenomeno dei suicidi ai dati sull’affollamento, emergono immediatamente alcune evidenze. Nel 2002 il 93% dei casi di suicidio si verifica in carceri affollate; nel 2003 questa percentuale risulta appena ridotta (92,1%).

Se mettiamo in relazione questo dato con il rapporto tra sedi affollate e sedi non affollate, emerge chiara una indicazione: i suicidi verificatisi nelle prime (che costituiscono circa il 72% circa del totale), rappresentano oltre il 90% dei casi. Pertanto, possiamo concludere che nelle sedi affollate si registra una propensione al suicidio significativamente maggiore di quanta si rilevi negli istituti dove le presenze non eccedono il numero programmato.

 

Istituti affollati e non affollati in percentuale, 2002-2003

 

Una verifica più puntuale ci viene dall’analisi disgiunta del tasso di suicidio tra la popolazione reclusa in condizioni di affollamento e di quella detenuta in condizioni per così dire "normali". Nelle carceri affollate il tasso di suicidio è di 10,8 casi (2002) e di 11,5 (2003) ogni 10.000 reclusi; nelle carceri non affollate questo rapporto scende a 6,2 casi (2002) e a 8,2 (2003) ogni 10.000 detenuti. Mettendo in relazione questi dati con il tasso di suicidio registrato nella popolazione nazionale si scopre che nel 2002, nelle carceri con un numero di reclusi non eccedente la capacità di accoglienza prevista, ci si uccideva 9,5 volte di più di quanto si facesse fuori; nelle carceri affollate il rapporto saliva a 16,6. Adottando il dato sul tasso di suicidio nella popolazione nazionale (relativo al 2002) anche per il 20035, si rileva che nelle carceri non affollate i detenuti si sono tolti la vita 12,6 volte di più dei cittadini liberi; gli altri, quelli reclusi in carceri affollate, 17,7 volte di più.

 

Tasso di suicidio nelle carceri affollate e non affollate

 

Le morti annunciate

 

Quest’ultima sezione della nostra ricerca illustra uno dei dati più critici tra quelli emersi: va assunto con cautela, ma merita grande attenzione. Quelli che definiamo "suicidi annunciati" sono i gesti ultimi ed estremi di quei reclusi che versavano in condizioni tali da far paventare, ragionevolmente, il rischio di atti di autolesionismo, se non il suicidio. Sono storie come quella di Marco D.S., di 41 anni, impiccatosi il 1 maggio 2003 nel carcere di Rebibbia: già dichiarato (incompatibile) col regime carcerario, già internato in Ospedali psichiatrici giudiziari, già assolto in passato per incapacità di intendere e di volere: diagnosticato come schizofrenico. Poco prima della sua morte viene trasferito e, dunque, subisce uno stress ulteriore, proprio di molte vicende penitenziarie (l’impatto con un nuovo carcere e con un nuovo ambiente: come si è detto, sono numerosi i suicidi che si verificano immediatamente dopo un trasferimento). Sono vicende di estrema disperazione: come quella di Paride C., uccisosi al Dozza di Bologna il 16 giugno 2003. Dopo il suo ultimo tentativo di suicidio, la settimana precedente il decesso, quando aveva ingerito detersivo, si trovava in regime di "grande sorveglianza": guardato a vista da un agente che aveva l'ordine di controllare la cella almeno ogni venti minuti. Paride C. era profondamente addolorato per la morte della compagna, fortemente depresso (gli era stato negato il permesso di partecipare al funerale) e aveva già tentato il suicidio in età giovanile.

A partire da storie come queste, e avvalendoci del materiale e delle fonti disponibili (informazioni a mezzo stampa, fonti non ufficiali, colloqui con familiari e avvocati, dossier "Morire di carcere" dell’associazione Ristretti Orizzonti), abbiamo provato a raccogliere e ricostruire le vicende relative a quei detenuti, la cui volontà di suicidio era – a nostro modo di vedere – prevedibile.

I "suicidi annunciati" sono stati, nel 2003, il 17,4% di quelli di cui possediamo una certa quantità di informazioni biografiche. Nel 2002 questa percentuale è stata significativamente più alta: il 32,7%, ovvero un suicidio su tre. Si tratta di casi in cui il recluso ha già annunciato, in qualche modo, la volontà di togliersi la vita o ha messo in atto uno o più tentativi di farlo; e di casi in cui le condizioni di disagio psichico e di depressione sono evidenti. Dunque, per quanto riguarda il 2002 il dato è significativamente maggiore di quello del 2003. Relativamente ai casi registrati nel 2002, infatti, sono solo 2 i suicidi per i quali non disponiamo di alcuna fonte giornalistica e di alcuna nota biografica.

 

"Suicidi annunciati", "non annunciati", senza biografia, 2002-2003

 

Nel 2003, invece, i casi di suicidio "senza biografia" e che non hanno trovato alcuno spazio negli organi di stampa sono stati assai più numerosi: ben 19 su 65. Si può ipotizzare che ciò derivi da un progressivo ridursi dell’interesse per le condizioni di vita nelle carceri (e, dunque, che un suicidio in cella "faccia notizia" sempre meno); o che le fonti primarie, gli stessi istituti di pena, vadano adottando una strategia di relazione con i media sempre più opaca (o sempre meno "aperta").

Un’ultima considerazione. Come si registrano casi di suicidio in cui il recluso mostra tutti i segni del suo disagio e della sua "incompatibilità" con la vita carceraria, parimenti si ha notizia di detenuti toltisi la vita "senza alcun preavviso": senza, cioè, che la loro condizione risultasse, ai responsabili del carcere o ai compagni di reclusione, particolarmente critica. Detenuti apparentemente ben integrati nel "sistema carcere", presumibilmente in grado di sopportare i disagi derivanti dalla privazione della libertà personale e che, di colpo, in maniera apparentemente inspiegabile, "crollano". Ci sembra, questo, l’esempio più significativo, ed estremo, della solitudine di molte vite in carcere. Tra i numeri delle nostre statistiche c’è, dunque, chi ha urlato la sua disperazione e palesato la sua sofferenza in mille modi: e non è stato salvato. E c’è chi ha rinunciato a dire il suo malessere e non è stato riconosciuto nella sua sofferenza: e, ugualmente, non è stato salvato. Due forme della stessa sconfitta.

 

Italiani e stranieri

 

L’ultimo dato che presentiamo riguarda la percentuale dei suicidi di cittadini stranieri registrata in questi ultimi anni. Gli stranieri, nelle carceri italiane, sono oltre il 30% della popolazione detenuta: una percentuale molto alta, se si considera che gli stranieri residenti oggi in Italia (con regolare permesso di soggiorno) sono circa il 2,5% della popolazione nazionale.

 

Suicidi nelle carceri per nazionalità, 2002-2003

 

Nel 2002, i suicidi di cittadini stranieri reclusi nei nostri istituti di pena costituivano il 24,6% del totale; nel 2003 questo dato si riduce al 21,5%5. C’è una certa "proporzione", pertanto, tra la consistenza della popolazione straniera detenuta e il numero di suicidi messi in atto. In ogni caso, emerge che la propensione al suicidio risulta più marcata tra gli italiani. In altre parole, gli stranieri reclusi sembrano mostrare una maggiore capacità di "accettazione" del sistema carcerario: o di adattamento a esso.

Della presente ricerca sono autori Luigi Manconi, Andrea Boraschi ed Elina Lo Voi, per conto di A Buon Diritto. Associazione per le libertà. Si ringrazia il prof. Antonio Mussino per la consulenza generosamente prestata. Si ringrazia l’associazione Ristretti Orizzonti, il cui lavoro di indagine sulla popolazione carceraria ha fornito molti elementi utili alla nostra indagine. La ricerca ha preso in considerazione i suicidi e gli atti di autolesionismo avvenuti in case di reclusione, case circondariali, case mandamentali, ospedali psichiatrici giudiziari, case di cura e custodia, case lavoro e istituti di pena minorili. Le tabelle sono state elaborate dagli autori su dati di: Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), Antigone - per i diritti e le garanzie nel sistema penale, Istat Istituto Nazionale di Statistica, Agenzia Ansa, Consiglio d’Europa. Si ringrazia Giovanni Tamburino, Direttore dell’Ufficio Studi e Ricerche del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

 

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