Dossier: "Morire di carcere"

 

"Morire di carcere": dossier ottobre 2008

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose

 

Continua il monitoraggio sulle "morti di carcere", che nel mese di ottobre registra 7 nuovi casi: 3 morti per cause da accertare e 4 per suicidio.

 

Nome e cognome

Età

Data morte

Causa morte

Istituto

Vincenzo M.

39 anni

01 ottobre 2008

Da accertare

Viterbo

Gabriele Franchi

31 anni

07 ottobre 2008

Suicidio

Prato

Georgi Bacrationi

25 anni

09 ottobre 2008

Da accertare

Milano (Questura)

Angelo Lovallo

30 anni

11 ottobre 2008

Suicidio

Massa Carrara

Alberto B.

54 anni

14 ottobre 2008

Da accertare

Regina Coeli (RM)

Gianvito Galia

44 anni

14 ottobre 2008

Suicidio

Trapani

Massimiliano Longo

32 anni

22 ottobre 2008

Suicidio

S.M. Capua Vetere

 

Morte per cause da accertare: 1 ottobre 2008, Carcere di Viterbo

 

È morto per cause ancora da accertare Vincenzo M., detenuto romano di 39 anni recluso nel carcere Mammagialla di Viterbo da meno di 15 giorni. Lo ha riferito il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, sottolineando che si tratta del quattordicesimo caso dall’inizio dell’anno nelle quindici strutture laziali (13 detenuti e un agente di polizia penitenziaria), contro gli undici deceduti nel 2007 e i dieci del 2006.

"Un trend in costante e pericolosa crescita", ha osservato Marroni, che ha evidenziato come "occorra fare qualcosa per tutelare meglio detenuti e agenti". A quanto appreso dal garante, il detenuto - morto la sera del primo ottobre - era stato trasferito a Viterbo il 19 settembre dal carcere romano di Rebibbia. In precedenza era stato recluso anche a Civitavecchia.

I morti di quest’anno sono tutti uomini: sei suicidi (compreso l’agente di polizia penitenziaria), quattro deceduti per malattia, quattro per cause ancora da accertare o non accertate. I decessi sono avvenuti a Regina Coeli (tre), Rebibbia (cinque), Viterbo (tre), Velletri e Frosinone. "La scomparsa di Vincenzo è la drammatica conferma che si continua a morire in carcere", ha aggiunto Marroni, "nel drammatico silenzio di una società che preferisce parlare di inasprimento e certezze delle pene piuttosto che di questo".

E ha concluso: "Non vorrei che, così facendo, si dimenticasse che il sistema carcere può schiacciare i soggetti più deboli sia dal punto di vista fisico sia mentale, e che esiste una funzione di recupero sociale di quelli che, anche se detenuti, sono pur sempre cittadini di questa società". (Agi, 11 ottobre 2008)

 

Suicidio: 7 ottobre 2008, Carcere di Prato

 

Non era certo un delinquente incallito Gabriele Franchi. Era un giovane con molti problemi, soprattutto di rapporti coi familiari, problemi aggravati dall’abuso di alcol. Eppure è finito alla Dogaia insieme ai delinquenti comuni e lì non ha retto al primo impatto col carcere. Martedì sera l’hanno trovato morto nella sua cella.

Ha approfittato della momentanea assenza dei due compagni per impiccarsi alle sbarre e quando sono arrivati i soccorsi ormai non c’era più nulla da fare. Gabriele Franchi aveva 31 anni, abitava in viale Piave e alla Dogaia era arrivato solo da pochi giorni. Sono andati a prenderlo giovedì della scorsa settimana nella casa signorile accanto al Caffè 21 per notificargli un ordine di carcerazione firmato dal giudice di sorveglianza.

Lui probabilmente non se lo aspettava. Aveva alle spalle una vecchia condanna con l’affidamento ai servizi sociali, ma evidentemente il giudice ha ritenuto che Gabriele non avesse rispettato gli obblighi e ha ordinato la traduzione in carcere. Alla base del provvedimento ci sono fondati motivi di carattere giuridico che affondano nella storia recente di Gabriele Franchi.

Più volte la polizia e i carabinieri sono stati costretti a intervenire nella casa di viale Piave per riportare alla calma il giovane dopo violente liti coi familiari. Spesso gli interventi si sono tradotti in denunce alla Procura e la giustizia ha fatto il suo corso. Ora però i familiari più stretti del giovane si chiedono se fosse proprio il caso di mandarlo in carcere, anziché sistemarlo in un’altra struttura, magari una comunità di recupero specializzata nella trattazione di casi simili, con un minore impatto sulla personalità del detenuto. Sembra che Franchi fosse appunto in attesa di essere trasferito in una di queste comunità, ma non ha resistito ai primi giorni di carcere. L’ordine di carcerazione fa seguito all’ultimo episodio di cui Franchi era stato protagonista nel pomeriggio del 10 settembre.

Prima aveva litigato con un gruppo di ragazzi in via Papa Giovanni XXIII, nei pressi del Ponte Petrino, poi aveva avuto una violenta discussione col fratello per l’uso della macchina. Quando la polizia arrivò a risolvere la situazione, Gabriele fu trovato perso nei fumi dell’alcol e scattò una denuncia a piede libero con le accuse di percosse e danneggiamento aggravato. È stata l’ultima volta che le forze dell’ordine si sono dovute occupare del suo difficile caso.

Il passo successivo è stata la traduzione alla Dogaia e la tragedia di martedì sera. Sembra che i due compagni di cella di Franchi fossero impegnati in un momento di socialità con altri detenuti e il giovane ne ha approfittato per mettere in atto il suo proposito. Dell’accaduto è stato informato il sostituto procuratore Benedetta Foti, che ha ordinato il trasferimento della salma all’Istituto di anatomia patologica dell’ospedale, dove verrà compiuto l’esame medico (i funerali forse domani a cura della Misericordia).

Gabriele Franchi era l’ultimo rampollo di una famiglia che fino agli anni Ottanta possedeva una delle più grandi aziende tessili di Prato, l’omonima manifattura di viale Montegrappa che dava lavoro a centinaia di operai. Orfano del padre quando era ancora bambino, Gabriele ha continuato a vivere con la madre, il fratello e la sorella, ma i suoi problemi sono diventati via via più gravi senza che i familiari potessero far molto per risolverli. (Il Tirreno, 10 ottobre 2008)

 

Morte per cause da accertare: 9 ottobre 2008, Questura di Milano

 

Un georgiano di 25 anni è stato trovato morto nelle celle di sicurezza della Questura di Milano. Il ragazzo, Georgi Bacrationi, senza fissa dimora, era stato arrestato la sera di mercoledì insieme ad altri due connazionali con l’accusa di furto pluriaggravato. I tre erano stati sorpresi all’interno della Feltrinelli di Corso Buenos Aires mentre rubavano lettori mp3, pare, dagli scaffali.

Ad arrestarli gli uomini dell’unità operativa criminalità diffusa della Squadra Mobile. All’arrivo in questura, intorno alle ore 20, i tre sono stati rinchiusi in tre celle separate poco dopo il fatto e ieri mattina sarebbero dovuti andare al processo per direttissima. Quando gli agenti sono entrati nella cella del venticinquenne, intorno alle 8, per svegliarlo, non ha dato segni di vita. Sul posto sono intervenuti i medici del 118 che ne hanno constatato il decesso. Il medico legale ha effettuato un primo sopralluogo.

Sarà l’autopsia ad accertare le cause del decesso. Stando alle agenzie, la vittima non avrebbe alcun segno di violenza sul corpo e il malore resta la causa più probabile del decesso. A causare la morte sarebbe stato un collasso. Il malore avrebbe impedito al ragazzo, che avrebbe compiuto 25 anni tra dieci giorni, di chiedere aiuto.

Le notizie sul caso arriveranno col contagocce nell’arco della giornata. Gli unici particolari a disposizione dei cronisti sembrano essere i dettagli del tentativo di furto nella rivendita di Feltrinelli per cui sono stati arrestati i tre ragazzi. Ma intanto le statistiche registrano altri due casi di decessi nel giro di un anno nelle camere di sicurezza della questura di Milano.

Il 4 settembre 2007, Antonio D’Apote, 49 anni, muore nella camera di sicurezza dove era stato rinchiuso subito dopo l’arresto: viene ritrovato già cianotico dagli agenti, che sono andati a controllare perché non avevano sentito risposta all’appello e spira prima dell’arrivo dei soccorsi.

È il secondo caso nel giro di due mesi: il 10 luglio era toccato a Mohammed Darid, 32 anni, marocchino, arrestato la sera prima dagli agenti della Polfer in stazione Centrale per spaccio di stupefacenti e trovato senza vita dentro la cella di sicurezza alle 9 del mattino.

Non c’erano segni di violenza sul suo corpo, avrebbe stabilito il medico legale. Arresto cardiocircolatorio, sancì l’autopsia. La stessa scena si è ripetuta con D’Apote, sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno in casa, una fedina penale zeppa di precedenti per spaccio, furto e rapina, problemi di tossicodipendenza, era stato pizzicato per strada alle 3.30 da due agenti delle Volanti, mentre chiacchierava con una ragazza.

Aveva provato a reagire, prima e dopo le manette, probabilmente sotto l’effetto di stupefacenti, e aveva continuato ad andare in escandescenze anche dopo l’arrivo in via Fatebenefratelli e l’ingresso in cella di sicurezza. Visto anche prendere a testate il muro da alcuni testimoni, D’Apote si era poi disteso pancia a terra. Intorno alle 6.15, secondo la versione fornita dalla Questura, gli agenti di sorveglianza lo hanno chiamato una prima volta, pensando che dormisse, per andare a firmare il verbale d’arresto. Poi una seconda, non sentendo risposta. Alla terza sono entrati ma l’uomo già non respirava più. La chiamata al 118 è partita alle 6.35: quando i soccorritori sono arrivati, però, D’Apote era, già morto. (Liberazione, 10 ottobre 2008)

 

Suicidio: 11 ottobre 2008, Carcere di Massa Carrara

 

Lo hanno trovato senza vita nel bosco di Piana di Macina, al confine tra Massa e Carrara. Angelo Lovallo, trent’anni compiuti all’inizio dell’estate, ha deciso di togliersi la vita perché esasperato dal carcere. Esasperato nonostante godesse di un permesso di semilibertà che gli permetteva di entrare e uscire dal penitenziario di via Pellegrini tutti i giorni. Esasperato per quella brutta storia che lo aveva costretto in cella, una storia di degrado nata da una tossicodipendenza devastante e da un’amicizia sbagliata.

Per quella storia Angelo aveva tentato di suicidarsi già sei anni fa, poi un frate lo riportò alla voglia di vivere permettendogli pure di lasciare la natìa Potenza e di venire ai piedi delle Apuane. Doveva essere recuperato, invece ha preferito farla finita. Lovallo era finito in carcere per aver partecipato all’omicidio di Carolina Daraio, un’insegnante di 56 anni trovata morta nel 1999 nella vasca da bagno di casa sua in un vecchio palazzo nel centro di Potenza.

Angelo e l’amico Vito erano stati allievi della donna quando frequentavano le scuole medie, ma con i quali era rimasta in contatto per aiutarli a venir fuori dalla droga di cui facevano uso. Una sera li aveva accolti in casa: non era la prima volta che si presentavano da lei. Solitamente andavano a chiedere un po’ di denaro, e solitamente lo ottenevano. L’ultima volta, però, era stato diverso. Le cinquantamila lire che Daraio poteva offrire non erano più sufficienti.

I due ragazzi volevano di più e non hanno esitato a strangolare la loro ex insegnante pur di razziare tutto quello che c’era in casa. E alla fine non avevano nemmeno trovato granché: cinquantamila lire scarse e qualche oggetto d’oro, ma niente di prezioso. Angelo e Vito forse erano già sotto l’effetto della droga, sono andati dalla loro ex insegnante con l’intenzione di derubarla.

E per potersi muovere indisturbati in casa l’avevano uccisa. Uno dei due aveva in tasca un laccio e lo aveva stretto attorno al collo della donna fino a soffocarla. Non contenti, poi, avevano sistemato il corpo nella vasca da bagno e avevano aperto l’acqua. Angelo aveva avuto la colpa di scappare e poi era stato incastrato dall’amico. Il carcere lo aveva tormentato, aveva anche tentato il suicidio. Poi la conoscenza col frate, sembrava la soluzione invece l’altra sera Lovallo l’ha fatta finita. (Il Tirreno, 13 ottobre 2008)

 

Morte per cause da accertare: 14 ottobre 2008, Carcere di Regina Coeli (Roma)

 

È stato trovato dai suoi compagni privo di vita, poco prima delle 8, all’interno della sua cella di "Regina Coeli". Il referto medico parla di arresto cardiaco, ma sarà l’autopsia disposta dall’autorità giudiziaria ad accertare le cause della morte di Alberto B., detenuto 54enne da poco più di due mesi recluso nel carcere romano. A segnalare il decesso, avvenuto martedì 14 ottobre, il Garante dei diritti dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni che denuncia: "Dall’inizio dell’anno siamo ormai arrivati a 15 morti nelle carceri del Lazio. Una vera e propria strage che si sta consumando nel silenzio dell’opinione pubblica che, piuttosto, preferisce parlare di inasprimento e certezze delle pene".

Secondo l’Ufficio del Garante dei detenuti Alberto B. è il 15mo morto accertato (14 detenuti e un agente di polizia penitenziaria) nelle carceri del Lazio dall’inizio del 2008 contro gli 11 dell’interno 2007 e i dieci del 2006. Quelli deceduti quest’anno sono tutti uomini: sei sono i suicidi (compreso l’agente di polizia penitenziaria), quattro i decessi per malattia, cinque quelli da accertare o non accertati. I decessi sono avvenuti a Regina Coeli (quattro), Rebibbia (cinque), Viterbo (tre), Velletri e Frosinone.

Alberto B., separato e con due figli, era arrivato a Regina Coeli l’11 agosto scorso per scontare una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi di reclusione per un tentato furto all’interno di una cantina: l’uomo stava cercando materiali ferrosi da rivendere.

Secondo le testimonianze dei parenti - che questa mattina, con un avvocato, hanno avuto un lungo incontro con il direttore dal carcere alla presenza degli operatori del Garante - nei due mesi di detenzione Alberto era dimagrito molto e ai colloqui settimanali appariva sempre più affaticato e confuso al punto tale che la sorella aveva chiesto, ed ottenuto, di effettuare anche dei colloqui straordinari. Negli ultimi tempi l’uomo era sottoposto a regime di sorveglianza accentuata per problemi di convivenza con gli altri detenuti.

"In un mese, dal 13 settembre ad oggi, abbiamo registrato quattro decessi, tre dei quali per cause da accertare - ha aggiunto Marroni - Un’accelerazione drammatica che conferma i dati allarmanti diffusi solo due giorni fa dal ministro della Giustizia Alfano e che segnala come, ormai, nel sistema penitenziario qualcosa non funziona più. Per garantire la sicurezza dei cittadini e tornare ad un carcere migliore da un punto di vista qualitativo e quantitativo non basta costruire nuove strutture, occorre agire su una legislazione che crea carcere, e dar vita a un nuovo codice penale che preveda la detenzione come extrema ratio e il ricorso a pene alternative e forse più dissuasive". (Agi, 16 ottobre 2008)

 

Suicidio: 14 ottobre 2008, Carcere di Trapani

 

Si infittisce la trama della storia legata a Gianvito Galia, 44 anni, agente di polizia, arrestato martedì scorso per aver tentato di uccidere un collega della squadra mobile. Galia si è impiccato nel carcere di Trapani. Secondo gli investigatori potrebbe esserci un nesso tra il poliziotto e l’omicidio di Maria Milana, 54 anni, pensionata e madre di due figlie di 22 e 16 anni, trovata morta nella sua villetta di Valderice in provincia di Trapani, il 2 ottobre scorso. I proiettili esplosi contro il poliziotto della squadra mobile e quelli che hanno ucciso la donna sarebbero dello stesso tipo.

Galia era uscito dal carcere da circa un anno. Questo grazie all’indulto e alla buona condotta. L’uomo era stato condannato a 24 anni di reclusione per aver ucciso nel 1999 Andrea Romano, uno studente di 17 anni che riteneva essere l’amante della moglie. Martedì scorso agenti della squadra mobile erano andati in casa del loro ex collega per eseguire una perquisizione. Poi hanno anche ispezionato la sua automobile. Galia aveva aperto la macchina ma aveva anche estratto una pistola, che teneva sotto il sedile, e ha iniziato a fare fuoco, mancando il collega. Subito sono scattate le manette e in carcere si è suicidato.

Gli investigatori stanno ancora analizzando le ragioni del gesto, ritenuto sproporzionato, tenendo conto che la detenzione della pistola è un reato grave, ma non tanto da giustificare un omicidio per una fuga. Quindi è stata avanzata l’ipotesi che l’arma fosse stata utilizzata per commettere un altro reato: probabilmente quello della signora Milana.

La donna è stata trovata vestita e riversa in camera da letto nella sua casa ai confini tra Valderice e Custonaci. Il cadavere è stato scoperto dai carabinieri dopo l’allarme lanciato da una delle due figlie della donna. Non sono stati trovati segni di effrazioni al cancello e né alla porta di ingresso, mentre è stato trovato un mazzo di chiavi nella serratura interna del cancello. Dopo il delitto sono stati interrogati la figlia e il genero per ore.

Ma la storia di Gianvito Galia è legata ad un altro fatto di criminalità. L’ex poliziotto aveva testimoniato nei processi per gli omicidi della banda della "Uno bianca" e a quello contro Eva Mikula, compagna di Fabio Savi, accusata di concorso nell’omicidio del bancario Ubaldo Paci. L’ex agente avrebbe raccolto le confidenze di Alberto Savi, fratello di Fabio, anche lui ex poliziotto, condannato all’ergastolo perché ritenuto uno dei killer e rapinatori della banda che terrorizzò l’Emilia Romagna. (www.ecodisicilia.com, 21 ottobre 2008)

 

Suicidio: 22 ottobre 2008, Carcere di Santa Maria Capua Vetere (CE)

 

Un detenuto si è impiccato alla finestra della cella, scontava una pena che terminava nel 2017. Un termine forse troppo lungo, un’insofferenza tale che ha portato il poveretto ad attuare il folle piano del suicidio.

È accaduto martedì sera alle 23.30 circa, nella Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere. L’uomo si chiamava Massimiliano Longo, nato l’11 marzo del 1976, era originario di Tricase in provincia di Lecce. Massimiliano aveva alle spalle una lunga serie di reati che andavano dalla rapina alla rapina aggravata, all’uso e spaccio di stupefacenti nella sua città. Fu arrestato la prima volta qualche anno fa, fu condannato e trasportato nel carcere di Bollate a Milano. I reati erano svariati e la permanenza era lunga. Nonostante tutto dopo qualche tempo che era ospite della comunità milanese, all’uomo erano stati dati i beneficio di poter disporre di alcuni giorni di permessi premio. Si trattava di 45 giorni di permessi dilazionati nell’arco dell’anno.

Il beneficio nonostante i reati per cui era stato condannato, servivano al Longo, a non perdere del tutto i contatti con la famiglia e con la realtà che lo circondava, in modo da non rendere troppo difficile il suo futuro reinserimento nella società, il giorno in cui sarebbe stato rimesso in libertà. Invece l’uomo, durante uno dei permessi non era rientrato, dopo dodici ore dalla sparizione è stato inoltrato l’allarme evasione. L’uomo oltre che per rapina era diventato un ricercato anche per il reato di evasione.

Riacciuffato poco tempo, alcuni giorni fa in provincia di Caserta, il detenuto è stato di nuovo arrestato e trasportato nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e stavolta non avrebbe goduto di alcun beneficio premio. Il poveretto proveniva da una situazione familiare molto difficile, anche per questo gli erano stati concessi i giorni di permesso, che dovevano servire a stabilire i contatti con i familiari.

Ma l’uomo non aveva rispettato gl’impegni presi ed è sparito. È solo da alcuni giorni che Massimiliano era ospite della comunità sammaritana, e stavolta non sarebbe uscito fino alla scadenza. Triste e solitario, purtroppo l’uomo pensava a tutto il tempo che avrebbe dovuto passare in cella, in compagnia solo dei suoi compagni. Allora, realizzato tutto ciò, l’altra sera, poco dopo il controllo del personale carcerario, si è impiccato. Ha preso e strappato un lenzuolo che ha usato come cappio, ha avvolto un lembo al collo e l’altro, lo ha legato alla griglia della finestra. È salito sul termosifone, ha stretto il cappio e poi si è lasciato cadere.

Tutto questo nel giro di circa cinque, dieci minuti. Poco dopo, mentre stava morendo, al successivo controllo, le due guardie si sono accorte che all’interno della cella c’era del movimento strano, hanno aperto ed hanno visto il corpo penzoloni di Massimiliano. Immediatamente i due uomini si sono attivati per liberare il detenuto dal cappio, uno dei due ha preso le gambe e lo ha sorretto per evitare che la corda tirasse e stringesse ancora il collo, l’altro ha usato l’accendino per bruciare il lenzuolo nella speranza di fare in tempo per salvare il poveretto. Subito dopo i dipendenti hanno chiamato in aiuto il medico della comunità, i sanitari sono arrivati con il defibrillatore ed hanno cominciato ad effettuare un massaggio cardiaco. Purtroppo non c’è stato nulla da fare.

Poco dopo è arrivata anche l’ambulanza locale con gli strumenti adatti, ma il poveretto era spirato, troppo tardi, per lui non si è potuto fare altro che constatare il decesso per impiccagione. Il comandante della comunità carceraria Luigi Mosca e i dipendenti della comunità sono sconvolti, come sempre quando accadono queste cose. "Per noi è un fallimento" spiega il comandante "sono dispiaciuto per quello che è accaduto anche se il poveretto era qui solo da qualche giorno. Io stesso ho chiamato una sua sorella che si trova in Svizzera per lavoro e con grande rammarico, le ho dato la terribile notizia. La signora ora sta tornando a casa.

La salma dello sfortunato giovane si trova nel reparto di medicina legale dell’ospedale San Sebastiano e Sant’Anna di Caserta a disposizione dell’Autorità giudiziaria, in attesa di una visita autoptica disposta dal sostituto procuratore della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, il dott. Alessandro Cimmino. Aspettare una libertà agognata era troppo dura, ed il poveretto ha deciso di porre fine alla sua vita in modo atroce. Dietro la sua fine si trova una storia pesante, fatta di sofferenze, di rapporti difficili, di povertà. Poi la droga e per questa, le rapine, più volte perpetrate ai danni dei cittadini. (www.ecodicaserta.it, 23 ottobre 2008)

 

 

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