Dossier: "Morire di carcere"

 

"Morire di carcere": dossier settembre 2004

Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, episodi di overdose

 

Nel mese di settembre altri 10 detenuti sono "morti di carcere": 6 per suicidio, 2 per malattia, 2 per overdose. I mass-media sono troppo spesso indifferenti a quanto accade nelle carceri italiane e diventa sempre più difficile raccogliere le informazioni per produrre il dossier: pertanto invitiamo giornalisti, operatori sociali, detenuti e loro parenti, a segnalarci i casi di cui vengono a conoscenza. Il dossier "Morire di carcere" è uno strumento importante perché il carcere sia davvero "trasparente" ed i diritti delle persone detenute siano rispettati, primi fra tutti il diritto alla salute e alla vita. Lo mettiamo a disposizione di tutti, in assoluta gratuità. Il "contraccambio" che vi chiediamo è di collaborare alla sua redazione.

 

Nome e cognome

Età

Data morte

Causa morte

Istituto

Giuliano Giulioli

74 anni

01 settembre

Malattia

Padova

Detenuto rumeno

40 anni

02 settembre

Suicidio

Como

Detenuto bosniaco

33 anni

06 settembre

Suicidio

Sassari

Luca Visconti

36 anni

07 settembre

Suicidio

Livorno

Paolo Marchitiello

40 anni

11 settembre

Malattia

Padova

M.C., detenuto polacco

45 anni

15 settembre

Suicidio

Civitavecchia

Detenuto marocchino

25 anni

20 settembre

Suicidio

Sassari

Khemal Beaumot

32 anni

22 settembre

Overdose

Piacenza

Angelo Sesana

58 anni

25 settembre

Suicidio

Como

Marcello Cavallini

42 anni

28 settembre

Overdose

Roma

 

Assistenza sanitaria disastrata: 1 agosto 2004, Carcere di Padova

 

Giuliano Giulioli, 74 anni, muore in carcere, sembra per un’allergia. La sua storia è raccontata a "Ristretti Orizzonti", da un compagno di detenzione.

Caro amico Giuliano, ti vedevo passare tutte le mattine su e giù per la sezione per racimolare qualche sigaretta, ma da me non ti sei mai fermato forse perché dissuaso della mia espressione truce o, più probabilmente, perché, da persona sensibile qual eri, avevi capito e rispettavi la mia scelta. In tanti mesi ti sei fermato due volte, forse perché eri più disperato del solito: ti diedi le sigarette ma chiusi la porta a qualsiasi dialogo.

Poi iniziai a lavorare e, almeno in parte, fui costretto a rivedere la mia scelta; tu rinunciavi alla pietanza ma ti faceva piacere un mestolo in più di pasta e io ti accontentavo con piacere.

Un giorno mi fermasti: "Marino, ho finalmente ricevuto la pensione, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno vieni da me". Fui colpito da queste tue parola: cosa avevo fatto per meritarmi una simile riconoscenza? Naturalmente mi guardai bene dall’accettare questa offerta, ma mi avevi incuriosito e così mi interessai a te.

Venni a sapere che avevi 74 anni (tu in doccia, nostro unico punto d’incontro, scherzavi dicendo di averne 37, e poi, con una risata, aggiungevi "per gamba"), che ti eri costituito, venendo dalla Spagna dove vivevi, per una pena definitiva vecchia di 20 e più anni; la tua salute era precaria, se mi passi questo eufemismo, e non avevi nessuno all’esterno che si interessasse a te. La giustizia è una macchina crudele, scevra di sentimenti, una fredda calcolatrice - colpa = espiazione -, che non si è sentita in dovere di andare a vedere che eri un anziano malato e non in condizioni di nuocere alla società, anzi con gli anziani si sente esentata anche dal dovere di tentare un reinserimento futuro.

Dicono che la pena non deve essere una vendetta ma un periodo di riflessione che possa portare a un ravvedimento… dicono!!!! Mi chiedo di cosa potevi ravvederti a 74 anni e in quelle condizioni.

Ogni tanto alla mattina eri irriconoscibile tanto eri gonfio, ma credo che nessuno si sia preso la briga di verificare davvero i motivi di questo: per loro eri unicamente la matricola 5560.

Credo che tu fossi un uomo orgoglioso e giusto: ho saputo che Ilirian, che si era affezionato a te, ti aveva proposto di passare in cella con lui, così ti sarebbe stato vicino prendendosi cura di te, ma tu hai rifiutato consapevole di avere un carattere impegnativo. Eri solo, ma fiero, e non accettavi pietismi.

Venendo a conoscenza della mia fede bianconera ti compiacevi di parlarmi della nostra Juventus, ma ciò che non dimenticherò mai è il tuo modo di salutarmi. Quando mi vedevi passare davanti alla tua cella, i tuoi limpidi occhi azzurri comunicavano la gioia sincera del tuo saluto che aveva il potere di scaldarmi il cuore: tu che non avevi nulla possedevi ciò che pochi hanno.

Una mattina di qualche settimana fa ci siamo svegliati e tu non c’eri più, nella notte alle prime ore di ferragosto sei stato male e ti è stato concesso tutto il tempo necessario per morire. Ho la sensazione che l’indifferenza ti abbia accompagnato anche in quest’ultimo passo, per frantumarsi, solo poi, in una tardiva presa di coscienza. In parecchi di noi hai lasciato un grande vuoto perché ci siamo resi conto, una volta di più, che qualsiasi essere umano, bianco o nero, ricco o povero, deviante o onesto, è una miniera in cui non si è attinto mai abbastanza. Queste poche righe vogliono essere un ricordo che spero ti accompagni, ovunque ti abbiano sepolto. (Marino Roviera, per Ristretti Orizzonti, settembre 2004)

 

Suicidio: 2 settembre 2004, Carcere di Lecco

 

Detenuto rumeno, di 40 anni, si impicca in cella. L’uomo era stato arrestato lo scorso febbraio ed era in attesa di giudizio per violenza sessuale continuata sulla figlia oggi ventenne. A Como la Procura ha aperto un’inchiesta per accertare le effettive cause e circostanze della morte dell’uomo. L’accusato avrebbe lasciato uno scritto per spiegare come ormai non potesse più reggere il peso di una simile accusa. A denunciare l’uomo era stata la figlia, sostenendo di essere stata violentata ripetutamente sin da quando aveva 12 anni e si trovava ancora in Romania. A supporto delle sue accuse la giovane aveva fornito una cassetta audio. Il padre si difendeva sostenendo che la figlia lo aveva seguito volontariamente in Italia. In Romania era rimasta la prima moglie con altri figli. Secondo l’uomo, a scatenare la vendetta della figlia sarebbe stata la volontà di portare in Italia una seconda compagna. La Procura di Lecco, però, dopo aver raccolto la denuncia della figlia, aveva chiesto e ottenuto un provvedimento di custodia cautelare in carcere per l’accusato. (Ansa, 7 settembre 2004)

 

Suicidio: 6 settembre 2004, Carcere di Sassari

 

Detenuto di origine bosniaca, di 33 anni, si uccide impiccandosi. (Radiokalaritana, 21 settembre 2004)

 

Suicidio: 7 settembre 2004, Carcere di Livorno

 

Luca Visconti, 36 anni, originario di Marano (Napoli), si impicca con le lenzuola alla grata del bagno della sua cella. L’uomo, originario di Marano (Napoli), era stato fermato dalla Polfer maremmana per un normale controllo e arrestato perché risultato inadempiente all’obbligo di dimora. Processato per direttissima, Visconti aveva patteggiato una pena di otto mesi di reclusione e trasferito a Livorno. È il terzo suicidio negli ultimi tre mesi nel carcere delle Sughere. (Il Manifesto, 08 settembre 2004)

 

Morte per assistenza sanitaria disastrata: 11 settembre 2004, Carcere di Padova

 

Paolo Marchitiello, 44 anni, muore in cella, per infarto cardiaco. Doveva scontare una pena minima, sarebbe stato libero entro un mese. I parenti hanno chiesto l’autopsia. L’uomo era sposato, con due figli, ed era stato condannato per alcuni reati minori. Il direttore della Casa di Reclusione, Salvatore Pirruccio, ha dichiarato: "Purtroppo non c’è stato nulla da fare. Il detenuto, già sotto costante osservazione per problemi cardiaci, che comunque non risultavano gravi, è stato colto improvvisamente da infarto e, nonostante il prodigarsi dei medici del carcere e del personale del 118, tempestivamente intervenuto, è deceduto". (Il Mattino di Padova, 13 settembre 2004)

 

Cronaca di una morte forse evitabile, di Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti, settembre 2004)

"Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere".

Non conoscevo Paolo. Non eravamo amici. È "entrato" nella mia vita nel pomeriggio di giovedì 9 settembre. Il mio compagno di cella era stato appena spostato al quinto piano, quello dei lavoranti, e rientrando dalla redazione, due ore dopo, ho trovato Paolo come mio nuovo coinquilino.

Non conoscevo Paolo. Non abbiamo avuto modo di conoscerci, sia per la brevità del tempo che abbiamo condiviso, sia perché la nostra convivenza è iniziata in un momento poco propizio. Quel giorno avevo appena saputo che il martedì successivo avrei dovuto sostenere un esame universitario e la mia testa era concentrata solo su quello. Per cui, dopo averlo fatto accomodare e sistemare, mi sono scusato con lui per la scarsa attenzione che avrei potuto dedicargli per qualche giorno. Lui non ne ha fatto un problema, anzi, quando studiavo cercava di disturbarmi il meno possibile.

Però, anche se poco, qualcosa so di lui. Appena è entrato in cella mi è sembrato che fosse un "pesce fuor d’acqua". Impressione che ha trovato conferma quando mi ha spiegato che stava scontando tre mesi per resistenza a pubblico ufficiale: avrebbe dovuto tornare in libertà il 14 ottobre. In secondo luogo mi sono reso conto che non "era messo bene", nel senso che non aveva fonti di sostegno o qualcuno che lo seguisse nella carcerazione. Infine ho capito che aveva notevoli problemi a livello fisico. Ma in quel momento pensavo di avere tempo per approfondire la conoscenza, tutto il tempo della galera. Perciò mi sono informato con delicatezza, per non ferire il suo orgoglio, se avesse bisogno di sigarette o di qualcos’altro di essenziale, rinviando offerte di aiuto più sostanziali a quando avremmo avuto maggiore confidenza. Lui mi ha assicurato che aveva tabacco a sufficienza, insistendo anzi per contribuire alla spesa con i pochi euro di cui disponeva. Ma non ho avuto il tempo di fare di più. Sabato mattina (11 settembre), dopo aver bevuto il caffè insieme a me, Paolo si è vestito e, trascinando la gamba sinistra, è andato nella saletta ricreativa, dove è possibile trascorrere le ore d’aria, mentre io sono restato in cella a studiare.

Ma, dopo nemmeno mezz’ora, è ritornato, dicendo di non sentirsi bene. Dopo essersi steso sulla branda, si è alzato di scatto ed è corso in bagno, squassato da conati di vomito. Iniziando a preoccuparmi, gli ho chiesto cosa sentisse, se aveva male di stomaco. Lui mi ha risposto che sentiva i "sudori freddi", che stava molto male, ma che non era lo stomaco. Rendendomi conto della sua sofferenza, ho chiamato l’agente in servizio al piano, spiegandogli che il mio compagno si sentiva molto male. Dopo aver chiesto l’autorizzazione per telefono, l’agente è tornato per informarsi se Paolo ce la faceva a scendere all’infermeria da solo. Io mi sono offerto di accompagnarlo, ma lui ha declinato l’aiuto e si è avviato al piano terra, trascinando la gamba malata. Dopo una ventina di minuti è ritornato in cella. Gli ho chiesto cosa gli avesse riscontrato il medico e lui mi ha risposto: "Mi ha fatto un’iniezione, mi ha dato delle gocce e mi ha detto di mangiare in bianco". Quindi si è steso sulla branda girandosi e rigirandosi senza trovare pace. Dopo qualche momento si è rialzato chiedendomi se gli avrebbe fatto bene mangiare una mela. Io gli ho risposto: "Male non può farti". Si è alzato, ha mangiato una mela, poi mi ha chiesto una sigaretta, perché non ce la faceva ad arrotolarsene una. Terminata la sigaretta, l’ultima sigaretta, si è di nuovo steso sulla branda, girandosi e rigirandosi, incapace di trovare una posizione che gli desse un po’ di sollievo. Dopo qualche minuto si è addormentato all’improvviso, girato sul fianco destro, in posizione fetale. Subito ha iniziato a russare forte e il suo respiro era sofferente, intervallato da apnee di dieci-quindici secondi. Per un attimo ho pensato di svegliarlo, ma poi ho preferito farlo riposare, nella speranza che il sonno lo aiutasse a riprendersi, anche perché sapevo che quel tipo di disturbo è frequente nei russatori. Ma il mio istinto mi diceva che qualcosa non andava perché, mentre studiavo, ho iniziato a contare mentalmente i secondi che duravano le sue apnee. È andata avanti così per una decina di minuti, finché il respiro si è interrotto per 15, 30, 45 secondi. Ho alzato gli occhi e l’ho guardato, cercando un segno che avesse ripreso a respirare senza che me ne fossi accorto, ma Paolo era immobile e i secondi passavano sempre più veloci.

Mi sono alzato gli sono andato vicino e l’ho chiamato, ho urlato il suo nome più volte, scuotendolo per un braccio. Poi gli ho tastato il collo, cercando un battito che non c’era. Mi sono affacciato alla porta della cella, gridando all’agente che era lì vicino di chiamare il medico, perché il mio compagno aveva smesso di respirare. Quindi sono tornato da Paolo, gli ho steso le gambe e ho iniziato a praticargli il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca. La seconda volta che ho soffiato, dalla sua bocca è uscito un fiotto di rigurgito liquido. Nel frattempo l’agente ha aperto la porta della cella, permettendo di entrare a due lavoranti che si trovavano in sezione. Insieme abbiamo tirato giù dalla branda Paolo, adagiandolo sul pavimento di cemento nudo. Dopo averlo tenuto per qualche momento girato sul fianco, per permettere ai suoi polmoni pieni di liquido di spurgarsi, sono ripresi sempre più frenetici il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, i pugni sullo sterno, mentre altri detenuti si accalcavano sulla porta della cella, affannandosi a dare consigli del tipo: "fagli bere un po’ d’acqua", "tiragli su le gambe", "mettigli un po’ di aceto sotto il naso". Nessuno voleva accettare la realtà tragica della situazione, tutti preferivano pensare che era solo un malore e che Paolo si sarebbe ripreso. Dopo un’eternità, i cinque-sette minuti che sono necessari a percorrere il tragitto dall’infermeria al terzo piano, è arrivato il medico, ha auscultato il muto petto di Paolo e ha dato ordine di metterlo sulla barella. Mentre i ragazzi sollevavano il corpo, il medico ha guardato nel nulla del muro bianco di fronte a sé, mormorando: "Lo avevo visto cinque minuti fa…". Poi sono partiti verso l’infermeria.

 

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto

Di Paolo in cella sono rimaste la macchia del rigurgito polmonare sul pavimento, la chiazza sulle lenzuola "di casanza" provocata dal rilassamento della vescica e le sue povere cose che, due ore dopo, ho dovuto mettere in un sacco nero di plastica e consegnare a magazzinieri meravigliati di quanto poco possedesse.

Qualcosa so di Paolo. So che aveva lavorato per 25 anni come verniciatore, emigrando anche in Germania, e che i solventi gli avevano corroso i polmoni, rendendolo invalido. So che aveva avuto un grave incidente che lo aveva sciancato, facendogli trascinare la gamba e costringendolo a fare iniezioni per il mal di schiena. So che viveva da solo perché aveva divorziato da poco e l’evento lo aveva fatto soffrire parecchio. So che aveva due figli piccoli che non lo conosceranno. Proprio venerdì sera, non so come, il discorso era caduto sulla morte e lui mi aveva detto: "A me interessa vivere solo finché i miei figli saranno maggiorenni".

Qualcosa so di Paolo. So che non era un criminale, ma un poveraccio, come ce ne sono tanti. So che non avrebbe mai dovuto entrare in carcere per una condanna di tre mesi. So che, con le patologie di cui soffriva, non avrebbe dovuto finire in carcere nemmeno con una condanna a tre anni. So che non avrebbe dovuto morire lontano dai suoi cari nella squallida cella di un carcere.

Ma perché è morto Paolo? Puntare il dito solo sulle inefficienze del sistema medico carcerario e sui tagli che da tre anni a questa parte si abbattono sulla sanità penitenziaria sarebbe sin troppo facile e scontato.

Paolo è morto in carcere perché era solo un poveraccio sprovveduto. È morto perché forse il suo avvocato non ha ritenuto remunerativo preparare le tre-quattro carte che gli avrebbero facilmente evitato di finire dentro. È morto perché non si chiamava Tanzi e quindi non meritava una veloce corsa in ospedale al minimo accenno di malore. È morto perché l’opinione pubblica, che è formata da poveracci come lui, continua a sostenere un sistema dove i ricchi, i potenti e gli ammanicati sono "più uguali degli altri". È morto perché la stragrande maggioranza della nostra società civile soffre di una comoda presbiopia congenita che la fa reclamare e acclamare solo per i problemi distanti, molto distanti, possibilmente oltremare, perché cominciare a salvare le vite sottocasa sarebbe indegno, troppo poco nobile, perché significherebbe sporcarsi le mani sul serio.

È morto anche per causa mia. Perché non ho dato retta al mio primo istinto che mi spingeva a svegliarlo quando forse non era ancora troppo tardi. La differenza è che il mondo continuerà a ignorare Paolo, che ormai è solo un numero di una statistica, mentre io per il resto dei miei giorni sarò tormentato dal dubbio se avrei potuto salvarlo e per il resto dei miei giorni i suoi occhi sbarrati e privi di vita continueranno a osservarmi, rivolgendomi la loro silenziosa domanda: perché?

 

Suicidio: 15 settembre 2004, Carcere di Civitavecchia

 

M.C., detenuto polacco di 45 anni, si impicca con la cintura dei pantaloni all’interno della sala hobby della Casa Circondariale. Apparentemente, l’uomo non aveva nessun motivo per compiere l’insano gesto, anche perché aveva ormai scontato quasi completamente la sua pena.

Silvana Sergi, direttrice del carcere, commenta così il suicidio: "Una vicenda che ci ha colpito profondamente, non solo noi operatori del penitenziario, ma anche tutti i detenuti. Era stato condannato per omicidio e doveva scontare gli ultimi cinque anni, ma sarebbero stati i più tranquilli, perché erano già state avviate le pratiche per il permesso di uscita e rientro la sera".

Il deputato dei Ds Pietro Tidei ha rivolto un’interrogazione urgente al ministro di Grazia e Giustizia Roberto Castelli, chiedendo di conoscere particolari precisi sull’accaduto. L’esponente del centrosinistra ha sottolineato che"i numerosi analoghi precedenti pongono inquietanti interrogativi sulle condizioni della detenzione e sui livelli di vigilanza, in particolare in considerazione delle ricorrenti proteste degli agenti di custodia e dei sindacati che li rappresentano, che da tempo rivendicano un adeguamento degli organici al numero dei detenuti, denunciano il sovraffollamento della struttura penitenziaria e una serie di carenze organizzative". (Il Messaggero, 16 settembre 2004)

 

Suicidio: 20 settembre 2004, Carcere di Sassari

 

Detenuto marocchino di 25 anni si uccide in cella. Il giovane extracomunitario sembra soffrisse di crisi depressive, acuitesi nell’ultimo periodo di detenzione. È riuscito ad eludere la stretta sorveglianza che l’amministrazione del carcere gli aveva riservato. (Radiokalaritana, 21 settembre 2004)

 

Overdose: 22 settembre 2004, Carcere di Piacenza

 

Khemal Beaumot, 32 anni, algerino, muore in cella sette ore dopo l’arresto, nonostante il soccorso del medico del carcere. Inizialmente la morte era sembrata conseguente ad una crisi epilettica ma l’autopsia, disposta dalla Magistratura sulla salma, ha invece stabilito che il decesso è avvenuto per overdose. Il giovane era stato arrestato dalla polizia perché trovato in possesso di 15 grammi di cocaina ed era probabilmente riuscito ad inghiottire una parte dello stupefacente che aveva con sé, ma il gesto gli è costato una fine atroce. (Ansa, 24 settembre 2004)

 

Cause da accertare: 28 settembre 2004, Roma

 

Marcello Cavallini, 42 anni, tossicodipendente, evade dall’ospedale Spallanzani, dove era ricoverato per accertamenti, perché da qualche tempo perdeva sangue dal naso. Il suo corpo viene ritrovato nei pressi di piazza Settimiana, nella zona di San Lorenzo, da alcuni agenti di polizia penitenziaria di Regina Coeli. Accanto al cadavere c’era una siringa sporca di sangue. L’uomo era rinchiuso nella Casa Circondariale di Via della Lungara per scontare una pena, per una rapina, che sarebbe terminata nel 2006. (Corriere della Sera, 29 settembre 2004)

 

Suicidio: 25 settembre 2004, Como

 

Angelo Sesana, 58 anni, agli arresti domiciliari ospedalieri, si impicca nella sua stanza. Era stato arrestato il 9 aprile scorso, dopo che aveva sparato alla sua badante, una donna ucraina, provocandole la perforazione di un polmone. L’immigrata era stata sottoposta a un delicato intervento chirurgico e, dopo settimane di ospedale, era stata dimessa.

Dopo due mesi di detenzione in carcere, Angelo Sesana aveva ottenuto il permesso di uscire di cella: il giudice delle indagini preliminari aveva concesso all’uomo, che soffriva da tempo di un grave morbo, gli arresti domiciliari presso una struttura sanitaria, per potersi curare. Il sostituto procuratore Claudio Galoppi ha aperto un’inchiesta (per ora a carico di ignoti) in cui si ipotizza il reato di omessa vigilanza. Un atto dovuto, così come l’autopsia, già compiuta. (La Provincia di Como, 26 settembre 2004)

 

 

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