Inchiesta sul carcere di Sassari

 

A Sassari nelle celle dei suicidi. Tra risse, malattie e preghiere

 

Corriere della Sera, 31 luglio

 

Otto reclusi su 10 sono tossicodipendenti. Un solo agente per controllare dall’alto 260 persone. Urla e ferimenti nella notte, mancano le strutture di cura. Tubi marci, l’acqua spesso non c’è. Il suo compagno di cella ha capito che era finita quando alle tre di notte ha trovato la porta del bagno chiusa. Ha visto che Giovanni Cabras non era nella sua branda, che dalla branda mancava il lenzuolo. E allora ha urlato. Dopo un po’ è arrivata una guardia.

Giovanni Cabras, 28 anni, di Pirri (Cagliari) si è impiccato nel carcere "San Sebastiano" di Sassari lo scorso 26 maggio. Suonava la chitarra per strada. Era tossicodipendente, era depresso. Sulla pelle aveva una ventina di cicatrici, atti di autolesionismo. Lamette. Ci aveva già provato. Negli ultimi giorni, raccontano i suoi compagni, non parlava più. Ripeteva soltanto, ossessivamente, la strofa di una canzone di Bob Dylan, il suo eroe: "Ricordate che la morte non è la fine". Si dava coraggio. Ogni mattina, nel carcere di Sassari, quasi tutti si mettono in processione davanti alla guardiola dei secondini per ricevere la dose di metadone. L’80% per cento dei detenuti è tossicodipendente. È una scena surreale: lo spazio è stretto, e la fila comincia all’interno delle celle.

In cima alla torre da cui partono i 6 raggi del "San Sebastiano" c’è un solo agente. Dalle 8 del mattino alle 16, tocca a lui controllare dall’alto circa 260 detenuti. Passa la giornata a camminare in circolo, sperando che non succeda niente nei cortili. Invece, succedono molte cose, tutte brutte. È un carcere di frontiera, come tutti quelli sardi (12 Istituti di pena sull’isola). Vecchi, piccoli, progettati al tempo dei Savoia. Qui le celle sono anguste, come la porta di ferro che le chiude, la feritoia stretta, la serratura enorme, rimandano a un’epoca lontana. Il "passeggio" è un cubo di cemento bianco e polveroso. Le 5 camere di isolamento - unico arredo una panca di legno - che dovrebbero essere la stazione di passaggio per i detenuti presi nell’ultima retata in realtà hanno inquilini fissi, e da tempo.

Il carcere non è mai cambiato, la città gli è cresciuta intorno. I palazzi che circondano il "San Sebastiano" sono alti quasi il doppio del penitenziario. Dai loro balconi, gli inquilini dei piani alti vedono tutto quello che succede nelle celle. I detenuti hanno protestato, violazione della privacy, ma poi hanno lasciato perdere. È un piccolo carcere, dove capitano molte cose. Negli ultimi tre mesi: un agente pestato a sangue da un tossicodipendente; rapporti preoccupati che segnalano "alta conflittualità tra i ristretti"; casi di positività alla tubercolina tra i detenuti (uno presentava un focolaio di Tbc), con tutto il personale di servizio sottoposto a controlli; topi lunghi 15 centimetri che aggrediscono i passanti nei corridoi (è seguita opera di derattizzazione, il direttore ammette che ha avuto successo "solo in parte"). E poi, quattro tentati suicidi, e i quotidiani atti di autolesionismo.

Nelle prigioni italiane si muore tanto. "Il dato è secco ed eloquente - scrive Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto - Associazione per le libertà" -. In carcere ci si ammazza 19 volte più di quanto ci si ammazza fuori". L’anno peggiore è stato il 2001, settanta suicidi. Nel 2002 sono stati 52. Quelli che ci provano sono poco meno di 900 ogni 12 mesi. Gli atti di autolesionismo (quasi sempre con lametta) non sono mai stati meno di 6 mila. Sono numeri pesanti, in linea con quelli del passato, che potrebbero essere anche peggiori. Fino a qualche anno fa, non venivano registrati come suicidi in carcere i decessi in ambulanza o in ospedale, anche quando erano la diretta conseguenza del tentativo di togliersi la vita in cella. Oggi non è più così. Ma gli operatori sociali sostengono che una parte delle morti per overdose dovute all’inalazione di gas da bomboletta, nascondono un suicidio.

Giovanni Cabras non è un caso isolato. Quest’anno si muore soprattutto nelle carceri sarde. Il 35% dei 23 suicidi registrati fino al 20 luglio 2003. Più di un terzo. Otto morti, sei dei quali erano tossicodipendenti. Angiola Caccamo è un’educatrice viaggiante. Fa base a Sassari e lavora anche nei penitenziari di Tempio Pausania e Alghero. Ricorda Cabras e la mattina in cui le dissero che non ce l’aveva fatta: "In cella muoiono i più deboli, quelli che sentono forte la solitudine, che non riescono a riempire il vuoto. I suicidi in Sardegna si possono spiegare in tanti modi, ma anche con una parola sola: immobilità, fisica e mentale. Non ci sono spazi, solo celle. E allora uno si chiude, inizia a pensare, a stare sempre peggio". Il "San Sebastiano" ha una brutta fama. Gli è rimasta addosso dai fatti del 3 aprile 2000, i pestaggi di massa dei detenuti, gli arresti degli agenti. Il 21 febbraio 2003 c’è stata l’assoluzione di 64 poliziotti, il rinvio a giudizio di altri 9 e la condanna (con la condizionale) di tre funzionari. "È un carcere dove si respira la tensione", dice don Giuseppe Peru, il cappellano. "Di sicuro, non è il luogo migliore per curare più di 160 tossicodipendenti bisognosi di strutture sanitarie che mancano, qui e altrove".

Salvatore Nastasia è un direttore in prestito. A Sassari è in missione, come i suoi colleghi: 5 dirigenti che di fatto si spartiscono la gestione di 8 dei 12 penitenziari sardi. Allarga le braccia: "Manca il personale, sa com’è". Dice che i suicidi, tentati e riusciti, dipendono dalla struttura fatiscente. Funzionari e agenti condividono lo stesso fatalismo. I sindacati di polizia penitenziaria denunciano carenze d’organico in Sardegna, il comandante delle guardie fa di conto e dice: "Considerati gli "amministrativi", gli addetti alle traduzioni dei detenuti, quelli in ferie, al lavoro ogni giorno ci sono non più di 26-27 agenti. È dura". Dice il direttore: "Siamo demotivati, stiamo scappando tutti". Sta facendo costruire un piccolo campo sportivo: "Almeno per farli sfogare". La sua vice, Patrizia Incollu è titolare del penitenziario di Tempio Pausania. A fine maggio si è ribellata al senso di ineluttabilità che avvolge questo e gli altri penitenziari sardi. Ha trasmesso al ministero delle Giustizia un dossier che in realtà è un atto d’accusa: qui mancano almeno 30 agenti, in un carcere che ha 160 detenuti in più della capienza consentita. "In queste condizioni - ha scritto - garantire ordine, sicurezza e cure diventa un miracolo". Finora, nessuna risposta.

L’acqua manca spesso. E farla tornare è un problema, perché il vecchio carcere è un blocco di cemento, e per sostituire le tubature marce bisogna spaccare mura spesse anche due metri. "Le docce non funzionano quasi mai, e quando finisce l’acqua minerale sono guai, ci si pulisce con il sudore del proprio corpo". Giovannino Pio ha 35 anni e uscirà da qui nel 2011. È uno "pulito", lui la droga la vendeva soltanto. "Si sta malissimo. I "tossici" che si feriscono di continuo vogliono attirare l’attenzione sui loro problemi. Sono segni di disperazione. Poi vedono che non cambia nulla, si incupiscono, e iniziano a pensare ad altro".

Sergio Abello era venuto in Sardegna per una vacanza di due settimane, finirà per restarci altri 10 anni. Rapina con taglierino. Palermitano cresciuto a Rozzano (Milano), dei suoi 34 anni ne ha spesi 16 in sedici carceri diverse. "Modestamente sono un esperto - racconta -. Mi dicevo sempre: "Mai a Sassari, mai". E invece, eccomi qua. Io sto male, i tossicodipendenti peggio. Non c’è niente da fare. Nessuna separazione tra sieropositivi, disturbati mentali, drogati e "comuni". Tutti insieme. È chiaro che si crea tensione. Quando in una cella spunta una siringa, le restrizioni ce le becchiamo tutti, non solo il proprietario. Operatori e psicologi lavorano come pazzi. Ma dovrebbero capire chi sta male davvero, e non ne hanno il tempo, devono seguire troppe persone. Sai cos’è che gira molto nelle celle? I santini. Non ne ho mai visti così tanti. Chi entra qui dentro capisce subito che gli conviene pregare".

Il peggio arriva con il buio. È al crepuscolo che si verificano gli atti di autolesionismo. È di notte che i tossicodipendenti iniziano a urlare e lamentarsi. Nel carcere rimangono pochi agenti. Una donna per la sezione femminile, due uomini per ogni raggio. Passano le ore con le orecchie aperte. Non ci sono monitor né luci ad indicare da quale cella chiamano per avere aiuto. "Bisogna interpretare il tam tam - dice una guardia -, capire la direzione dei rumori e in quale sezione bisogna correre. Si va alla cieca. Era così quando Cabras si è ammazzato. Doveva essere così anche ai tempi dei Savoia".

 

 

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