Dossier carceri 2000 di "Nessuno tocchi Caino"

Viaggio tra l’illegalità del sistema penitenziario italiano

 

Il sovraffollamento è oltre ogni limite di guardia. Al 31 maggio 2000, i detenuti presenti erano 53.507 (il picco più alto dal 1946 ad oggi), accatastati in strutture che al massimo potrebbero contenerne 42.876. È questa la cifra dell’illegalità del sistema penitenziario italiano, la causa principale di altre mille illegalità. Solo 10.421 svolgono un’attività lavorativa. Nonostante il ricorso alla custodia cautelare sia giustificato solo da gravi esigenze a tutela della collettività, ben 24.195 sono i detenuti in attesa di giudizio, molti dei quali finiscono per essere assolti.

Il numero degli operatori penitenziari è del tutto insufficiente per assicurare la custodia di una così numerosa popolazione detenuta e le misure di trattamento finalizzate al reinserimento sociale. Un educatore svolge 40 ore di lavoro al mese avendo a carico una media di 230 detenuti. Lo stesso discorso vale per psicologi e assistenti sociali. Gli agenti di polizia penitenziaria sono circa 42.800, ma solo 31.000 prestano servizio nelle sezioni per garantire ordine e sicurezza; gli altri sono assegnati a compiti extra-carcerari: scorte, piantonamenti, uffici matricola, Dap, Ministero etc...

I magistrati di sorveglianza, ai quali la legge penitenziaria assegna una eccessiva discrezionalità e, quindi, un carico di lavoro insopportabile per l’applicazione delle misure e dei benefici penitenziari, sono solo 125 in tutta Italia a seguire 30.000 detenuti definitivi.

Nel corso del 1999 sono entrati in carcere dalla libertà 29.362 stranieri. Quelli presenti al 31 maggio 2000 erano 14.803, di cui 14.416 extracomunitari. Per loro è stata abrogata con la legge 40/98 la norma della Legge Martelli del ‘90 che prevedeva l’espulsione dallo stato su richiesta di parte nei restanti tre anni di pena. L’espulsione è comunque garantita a fine pena, disposta in sentenza o come misura di polizia. Esclusa ogni speranza di reinserimento in Italia, questi detenuti sono esclusi dalle misure alternative e dai benefici previsti dalla legge penitenziaria. Per educatori, direttori di carcere e magistrati di Sorveglianza, questi detenuti è come se non esistessero.

La legge non è neanche uguale per tutti i detenuti comunitari. Una modifica dell’ordinamento penitenziario introdotta agli inizi degli anni ‘90 - l’art.4 bis - ha escluso da molti benefici carcerari i condannati per gravi reati che non abbiano collaborato attivamente con la giustizia. Mentre l’art. 41bis della legge penitenziaria ha istituito un circuito speciale nelle carceri dove sono rinchiuse alcune centinaia di detenuti ai quali sono consentiti un solo colloquio al mese attraverso il vetro antiscasso e il citofono, due ore d’aria al giorno, vitto soltanto dell’amministrazione,nessuna possibilità di cucinare in cella, solo un fornellino da chiedere ogni volta per farsi un caffè, niente pacchi viveri e niente libri dall’esterno, limitati gli acquisti di generi alimentari e la possibilità di ricevere pacchi dai parenti, ridotto drasticamente il numero dei capi di abbigliamento. Molti di questi detenuti nel circuito speciale, risultano essere nella posizione di indagati e non di condannati, e non è dato sapere in base a quale criterio sono scelti, ad esempio, tra i 3.964 accusati e condannati per associazione di stampo mafioso (art. 416 bis) quelli da sottoporre al 41 bis. Sull’art. 4 bis e l’art. 41 bis, la Corte Costituzionale ha avanzato più volte perplessità riguardo all’individuazione per titoli di reato dei destinatari finali dei provvedimenti, non coerente con il principio di individualizzazione della pena.

Una campagna demagogica sulla sicurezza ha negli ultimi anni svuotato di contenuto o lasciato lettera morta i benefici carcerari e le misure alternative alla pena anche per coloro ai quali le leggi penitenziarie potrebbero essere applicate. Nonostante ogni anno siano circa 18.000 i detenuti con pene inferiori ai tre anni, la Legge Simeone che dovrebbe rendere loro più agevole l’alternativa al carcere, non viene applicata: solo 1.184 persone ne hanno usufruito negli ultimi due anni. Nonostante la popolazione detenuta sia aumentata di molto nell’ultimo anno, gli ammessi ai benefici e alle misure alternative al carcere previsti dalla Legge Gozzini, dal ‘98 al ‘99, sono diminuiti di 4.450 unità.

Eppure l’Italia ha il numero più basso di detenuti evasi durante la fruizione dei benefici: nell’anno 1999, sono stati 195 su 37.920, lo 0,72% degli ammessi al lavoro esterno, al servizio sociale, alla semilibertà e ai permessi premio. In Europa, la media è del 3%, e viene considerata un successo dei programmi di riabilitazione.

Sulle decisioni dei magistrati di sorveglianza, sempre più, pesano le cosiddette "note informative di polizia", che di solito si compongono di una lista dei trascorsi criminali del detenuto e della frase "non si esclude che mantenga rapporti con la criminalità". Le regole minime proprie di uno stato di diritto hanno ceduto il passo ai pareri tipici di uno stato di polizia. Oltre l’indulto, due proposte semplici semplici.Il clima di tensione ed esasperazione nel carcere è agli estremi con gravi disagi anche per il personale di custodia. Un provvedimento di indulto sarebbe stato necessario, urgente e ragionevole per cominciare a porre mano e attenzione verso una realtà inquietante ed esplosiva.

Al 31 maggio 2000, c’erano 53.507 detenuti, 29.312 erano quelli definitivi, 17.541 avevano da scontare una pena fino a tre anni. La proposta presentata al Senato da Piero Milio, quattro articoli in tutto, era semplice: indulto generalizzato fino a tre anni per far uscire questa fascia di persone che, comunque, sarebbe destinata ad uscire entro poco tempo.

Invece di spiegare subito, in parlamento e di fronte al paese, le cose come stanno - 15.000 detenuti in più nelle carceri e, per questo, l’illegalità della condizione carceraria; l’amnistia di fatto determinata dalle prescrizioni dei reati (nel solo 1998, ve ne sono state ben 130.000!); la cancellazione di fatto per i potenti, tutti in libertà, dei reati di tangentopoli e l’assoluzione dei magistrati che quei processi non sono riusciti a portare a compimento – maggioranza ed opposizione hanno messo in atto per mezzo stampa un irresponsabile gioco delle parti, gli uni a favore dell’indulto e contro l’amnistia, gli altri a favore dell’amnistia e contro l’indulto, che ha prodotto soltanto allarmismi e reazioni negative tra la gente e portato al fallimento in parlamento delle proposte di clemenza. Maggioranza e opposizione non hanno voluto lanciare neanche un piccolo segnale di attenzione alla situazione delle carceri, e hanno deciso di andarsene in ferie con un nulla di fatto, chiudendo a doppia mandata per l’estate le celle dei detenuti e le sezioni dove lavorano in condizioni inverosimili gli agenti di polizia penitenziaria.

Approvare un provvedimento di indulto non sarebbe stato resa o fallimento della giustizia, ma, all’opposto, pre-condizione necessaria per poter curare un sistema ingiusto e gravemente malato. Questo atto consentirebbe gli spazi di manovra per porre mano a nuove e più efficaci misure.

Due di queste, altrettanto semplici, erano contenute nel disegno di legge presentato al Senato da Piero Milio che si proponeva di snellire le pratiche per la concessione della Liberazione anticipata (sconto di pena per buona e regolare condotta) e rendere più certa e applicabile la Liberazione condizionale.

Per quanto riguarda la Liberazione anticipata, ogni anno, i tribunali di sorveglianza riescono ad evadere solo poche migliaia di pratiche. Decine di migliaia di istanze restano senza risposta, e intasano gli uffici dei 29 tribunali di Sorveglianza esistenti in Italia. Sono milioni le ore impegnate nella "traduzione" dei detenuti dalle loro celle alle aule dei tribunali per le udienze alle quali hanno diritto di presenziare. Sono migliaia gli uomini delle forze dell’ordine, i carabinieri e gli agenti di polizia penitenziaria, che insieme ai cancellieri, agli ufficiali giudiziari, ai "camminatori", agli educatori, agli psicologi, agli assistenti sociali, sono impegnati in una colossale operazione giudiziaria. Per non parlare delle tonnellate di carta, di fax, di fascicoli che vanno preparati, duplicati, spediti, esaminati, archiviati, aggiornati.

Tutto ciò potrebbe essere evitato o fortemente limitato, se solo si rendesse automatico ciò che molto spesso viene concesso. Nel 1998, su 31.487 domande di liberazione anticipata, ne sono state accolte ben 23.827. Allora, perché tenere impegnati i tribunali di sorveglianza in giudizi di merito che, per la liberazione anticipata, si risolvono nel 75% dei casi con la concessione del beneficio? Si elimini, quindi, la procedura che impone l’istanza da parte del detenuto e si renda automatica la concessione del beneficio. Si ricorra al tribunale di sorveglianza solo nel caso in cui, su segnalazione della direzione del carcere che non vi è stata regolare condotta del detenuto, il beneficio non potrebbe essere concesso. Uno straordinario impiego di risorse, mezzi e uomini potrebbe essere liberato e destinato ad altri, più urgenti compiti.

Si proponeva, inoltre, di aumentare da 45 a 60 i giorni di sconto di pena per ogni semestre, per rafforzare il "patto" di convivenza civile nelle prigioni. Incentivando la buona e regolare condotta e l’adesione del detenuto a tutte le opportunità risocializzanti che l’espiazione della pena offre, ci si prende cura nel migliore dei modi anche della sicurezza delle decine di migliaia di operatori penitenziari che vivono quotidianamente a contatto coi detenuti, a rischio della propria incolumità.

Per quanto riguarda la liberazione condizionale, che potrebbe essere concessa a chi mancano cinque anni al fine pena, occorre considerare che essa è divenuta una misura quasi in disuso del nostro ordinamento penitenziario, concessa rarissimamente anche a coloro ai quali mancano pochi mesi al fine pena. Nonostante in carcere vi siano, in un dato giorno dell’anno, mediamente circa 14.000 condannati definitivi che hanno da scontare meno di due anni di pena, i Tribunali di Sorveglianza di tutta Italia, stando ai dati del 1998, hanno trattato soltanto 1.190 richieste, e ne hanno accolte solo 98. Le altre sono state tutte respinte, a causa anche di una previsione troppo restrittiva e, nello steso tempo, troppo vaga come quella che richiede al magistrato di sorveglianza di indagare - quasi fosse un investigatore dell’anima o, peggio, un confessore di peccati – sulla certezza del ravvedimento di chi è stato condannato. Con la Legge Milio, si proponeva di superare il presupposto esistente per la concessione della liberazione condizionale che vuole che il condannato "abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento" sostituendolo con quello, attualmente previsto per altre misure alternative, basato sul concetto della partecipazione attiva e consapevole del condannato all’opera di rieducazione condotta nei suoi confronti dai competenti organi penitenziari. Con questa proposta non si esige la dissociazione attiva dal proprio passato o atti di collaborazione giudiziaria improponibili nella fase di espiazione della pena.

"Le carceri italiane stanno per esplodere. Ovunque si registrano inquietudine e repulsione", hanno avvertito i direttori delle carceri, i quali, nel lanciare l’allarme alcune settimane fa, hanno chiesto al governo e al parlamento di intervenire "prima che la situazione precipiti irrimediabilmente". Con queste proposte, non abbiamo certo la pretesa di risolvere tutti i problemi del nostro sistema penitenziario, ma possiamo, forse, contribuire a disinnescare una situazione del carcere pericolosa,

dando una prima risposta non solo alle aspettative dei detenuti, ma anche alle preoccupazioni di coloro che nelle carceri operano con spirito di abnegazione e alto senso dello Stato, lo Stato essendo – spesso - nei loro confronti assente e ingrato.